Il 25 Marzo si celebrerà il Dantedì, la giornata dedicata a Dante Alighieri: è infatti la data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia. Per l’occasione su ilLibraio.it un imperdibile viaggio letterario tra i dannati dell’Inferno, firmato dalla scrittrice Ilaria Gaspari

Dante nell’Inferno è sperduto, e non possiamo certo biasimarlo: è un vivo, l’unico, in una folla di morti. Ci sono momenti in cui l’orrore di questa condizione lo sopraffà – e infatti non solo sviene ogni due per tre, ma si trova anche a dover fronteggiare un assoluto spaesamento: allora, come un bambino, cerca Virgilio, che gli parla per rassicurarlo.

Sono le parole della sua guida a tranquillizzarlo: le parole dissipano lo smarrimento che lo coglie quando si trova immerso nel frastuono, fra pianti e guaiti indecifrabili, con Cerbero che abbaia all’impazzata o Pluto che blatera frasi senza senso, ma con tutta l’aria di essere blasfeme – pape Satàn, pape Satàn aleppe. C’è da dire che le voci dei dannati, che risuonano sotto la volta cupa e claustrofobica dell’inferno, fra fango e piogge di fuoco e olezzi e nebbie, sono tutto fuorché rassicuranti. Gli ignavi del III canto, proprio alle porte della città dolente, si prendono a ceffoni come bestie preda dei tafani, e intanto mandano un coro di sospiri, singhiozzi, guaiti, di parole indistinte e inintelligibili; gli avari e i prodighi si strillano addosso, gli accidiosi hanno nel gargarozzo fanghiglia nera di palude, tanto che non riescono nemmeno a parlare se non ber borbottii strozzati. Gli iracondi lanciano grida da isterici al passaggio di Dante; nelle ultime bolge, nel cuore più nero dell’inferno, diavoli sguaiati e volgarissimi si divertono come i peggiori ubriaconi da osteria, senza lesinare scherzacci e flatulenze.

In mezzo a tutto questo baccano, non c’è da stupirsi che Dante, vivo fra i morti, si senta frastornato e cerchi, nelle parole del suo maestro, la formula per riportare l’ordine nel caos che lo sovrasta. Ma di tanto in tanto, capita anche che un’altra voce lo cerchi e lo raggiunga; e che sia la voce di uno dei dannati, che riesce a parlargli in maniera intelligibile. Qualche volta sono voci che arrivano da lontananze imprevedibili, dal fondo di qualche mostruosa metamorfosi per cui chi parla è irriconoscibile e disfatto – come Ciacco, il fiorentino che peccò di gola e che nel VI canto, perduto sotto un’eterna pioggia puzzolente di grandine, neve e acqua nera, riconosce da lontano Dante e lo sfida a un riconoscimento impossibile, che serve solo a far risaltare l’abiezione della sua forma melmosa e indistinta. Ma se l’aspetto di Ciacco è confuso almeno quanto la sua identità precisa – al di là del soprannome infamante, che significa, né più né meno, porco – la sua voce, nelle profondità oscure dell’inferno, rende l’incontro finalmente reale; perché l’anima che parla con Dante appare, grazie alla parola, in qualche modo viva com’è vivo lui, ma anche perché è come se, in quello strano esilio, si creasse una vicinanza, un riconoscimento, un rispecchiarsi che accomuna pellegrino e peccatori sotto il peso di un presagio, nel segno comune della condizione umana.

Nonostante il vivido realismo dell’inferno qualche volta ci induca a considerare le presenze dei dannati come dei dati di fatto – come se quello fosse realmente l’inferno, e quelle anime ci abitassero davvero – è dal capriccio di Dante che dipende tutto quanto, ed è ovviamente sempre lui a scegliere chi lasciar parlare. Il gigantesco oltremondo è affollato di personaggi a cui lui, arbitrariamente, ha riservato un posticino fra i dannati: qualche volta per sottile dispetto, per vendetta personale, per togliersi una soddisfazione.

Con qualcuno in effetti non va tanto per il sottile, e sembra proprio che la collocazione all’inferno sia anche un modo per regolare certi conti in sospeso. È il caso di Filippo Argenti, viveur fiorentino della famiglia degli Adimari (noto per la mania di ferrare con l’argento gli zoccoli del suo cavallo, da cui il soprannome), che pare avesse incamerato i beni di Dante quando gli furono confiscati: e che finisce infatti fra gli iracondi, vittima di un trattamento violentissimo. Come se ci tenesse a essere iracondo, con lui, pure Dante: prima di tutto vantandosi, quando quello gli rivolge la parola (e lui lo riconosce subito) di essere lì solo di passaggio, senza mostrare nessuna pietà per l’Argenti che si definisce ‘un che piango’, ma soprattutto esprimendo a Virgilio, con ostentata noncuranza (“Maestro, molto sarei vago”), il desiderio “di vederlo attuffare in questa broda”, riferendosi alla palude stigia in cui stanno a mollo gli iracondi, che in men che non si dica si gettano tutti addosso al malcapitato Argenti come belve pronte a sbranarlo. E non va molto meglio al guelfo nero pistoiese Vanni Fucci, personaggio cupissimo che probabilmente Dante conobbe nel 1289 durante la campagna contro Pisa, quando Fucci militava fra i fiorentini: all’inferno finisce nella bolgia dei ladri, morso dai serpenti che emergono dalla fossa e ogni volta viene incenerito per tornare a ricomporsi come una fenice: si presenta come “bestia” e nel canto XXV bestemmia Dio con un gesto di inusitata volgarità, di cui Dante, molto sdegnosamente, si scandalizza.

Ma ci sono anche, fra i dannati, figure importanti per la sua vita e la sua formazione, che gli sarà costato caro mettere all’inferno – come se ci avesse messo una parte di sé, e il suo dolore potesse essere bilanciato solo dando una voce a quelle anime che lui stesso ha perdute. È quello che succede, per esempio, quando nel terzo girone del settimo cerchio, fra i sodomiti costretti a correre come forsennati su un sabbione rovente e sotto una pioggia di fuoco, Dante si sente tirare per un lembo della veste da uno di questi corridori tutti nudi, che esclama, al vederlo lì, “qual maraviglia!”. È Brunetto Latini, letterato illustre, di cui Dante è stato allievo: e tale è il trasporto, e l’affetto che ancora gli porta, che lo riconosce eccome, nonostante le ustioni che la pioggia di fuoco gli ha impresso nello “cotto aspetto”. L’incontro con il maestro è intriso di una tale tenerezza nostalgica, che il fatto che il povero ser Brunetto si ritrovi a dover correre in eterno, come a una giostra beffardamente crudele, per scontare il suo peccato di sodomia, passa in secondo piano, quasi non fosse poi troppo importante al cospetto della gioia di ritrovarsi lì, in quella desolazione, in un esilio – del vivo fra i morti, e del dolce maestro, pur colpevole, fra i dannati – che li accomuna; e se anche Brunetto predice a Dante la sorte grama, di esule anche sulla terra, che lo aspetta di lì a poco – perché il viaggio all’inferno è immaginato aver luogo nell’aprile del 1300, e la condanna per baratteria lo colpirà nel 1302 – lo fa con una tale tenerezza che anche la previsione cupa si stempera nel piacere dell’incontro inatteso.

Nelle parole dei dannati, capita infatti anche che Dante infili una sorta di assoluzione per i crimini che vengono loro addossati nell’altro mondo, il mondo dei vivi. Per esempio, questa è la sorte di Pier Della Vigne, giudice e letterato, che fu un funzionario importante del regno di Federico II finché non venne accusato di tradimento, forse per via di una congiura, forse per un episodio di corruzione, e condannato ad essere accecato, nel 1249, sulla pubblica piazza, a Pontremoli. Attorno a quest’accusa fiorì la diceria che ci fosse di mezzo qualcosa di poco chiaro; le circostanze della sua morte rimangono oscure – non si sa se si sia trattato di suicidio, o di qualche conseguenza dell’accecamento; ma Dante non ha dubbi. Lo fa parlare, nel XIII canto, nel bel mezzo della selva dei suicidi, dallo strazio della sua metamorfosi: tramutato in un arbusto secco (“uomini fummo, e or siam fatti sterpi”), la sua voce, di “parole e sangue”, esce dalla scheggiatura che Dante imprime al tronco quando lacera un ramoscello su invito di Virgilio – proprio come aveva fatto, nel terzo libro dell’Eneide, anche Enea, che strappando un virgulto lo vide sanguinare e sentì la voce di Polidoro, figlio assassinato di Priamo.

Così, nonostante Pier Delle Vigne sia comunque condannato all’inferno come suicida, lo scagionano dall’accusa di tradimento le parole che escono dalla ferita del ramo – proprio come da una vite, quando si ferisce un tralcio, esce quel liquido lattiginoso che si chiama pianto: per cui si dice ‘piangere come una vite tagliata’, e ogni vignaiolo sa che le viti piangono, eccome: e chissà se il destino di questa metamorfosi così stranamente pietosa che Dante sceglie per lui, non fosse iscritto proprio nel nome del dannato.

Persino la sorte tremenda del conte Ugolino, divoratore dei suoi stessi figli, condannato a reiterare in eterno l’orrido pasto cannibalico cui fu indotto dalla fame durante la sua prigionia in una torre di Pisa che oggi ospita una meravigliosa biblioteca, sembra, in qualche misura, riscattata dal racconto; che certo, anche per via della pena tremenda che gli è inflitta, non lesina dettagli orrorifici sul suo crimine, ma addossa gran parte della responsabilità di quell’atto contro natura alla spietatezza dei concittadini, capaci di rinchiuderlo insieme ai suoi bambini; e Dante, dal dolore del suo esilio, di concittadini crudeli ne sapeva qualcosa.

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Anche Ulisse, quando, nel girone dei consiglieri fraudolenti, avvolto accanto a Diomede nel ‘corno’ di una fiamma destinata a bruciare in eterno, descrive il suo maestoso peccato di superbia – che l’ha portato a violare, inseguendo con urgenza forsennata “virtute e canoscenza” i confini del mondo conosciuto –  tutto ci sembra, fuorché colpevole. E così, mentre lo ascoltiamo, nel perdonargli di aver osato troppo, implicitamente scagioniamo anche lo stesso Dante; che ha, pure lui, violato un confine proibito – quello fra mondo dei vivi e mondo dei morti – in questa sua fantasticheria così reale in cui, parlando con le voci dei dannati, osa trovare la maniera di raccontare di sé.

Questo succede di continuo, per esempio, quando incontra un conterraneo: il gruppo dei toscani all’inferno è folto e loquace. Qualche volta Dante sfrutta queste presenze per piccole vendette venate di campanilismo, come quando si tratta di accusare i lucchesi di essere tirchi e corrotti, per bocca di un diavolaccio nel canto XXI; ma quando, nel buio dell’inferno, si imbatte nei suoi concittadini, nelle controfigure, stravolte dal contrappasso, di persone  frequentate con assiduità oppure solo sfiorate a Firenze, si stabilisce  immediatamente la familiarità immediata e profonda che chiunque abbia abitato in una città straniera ha conosciuto nel momento in cui ha incontrato qualcuno che per puro caso era cresciuto, o vissuto, dalle sue parti. E non è un caso che, in questi incontri, emerga continuamente, sotto forma di profezia e di invettiva ai fiorentini scellerati che lo condanneranno, l’ombra oscura dell’esilio; il presagio che si avvicini a grandi passi la fine della vita che fino al 1302 è stata per Dante un’ovvia consuetudine, coltivata con la dolce familiarità con cui tutti siamo abituati a considerare le nostre vite mentre le viviamo, senza pensare che retrospettivamente potremo distinguere i periodi, le svolte, i punti di non ritorno. Così, nel canto X, fra gli eretici si imbatte in Farinata degli Uberti, fiero condottiero ghibellino che da dentro una tomba scoperchiata “s’ergea col petto e con la fronte/com’avesse l’inferno a gran dispitto”, il quale gli predice l’esilio, già adombrato da Ciacco nel VI canto, in maniera così circostanziata da offrirgli addirittura la misura del tempo che separa il momento del loro incontro da quello dello scoccare della condanna. Ma quello che forse è più straziante, in questo canto in cui la tremenda città del fuoco fa da contrappunto alla città terrestre abbandonata, è che accanto a Farinata compaia un padre in preda all’ansia, Cavalcante dei Cavalcanti, che è il padre di Guido, uno degli amici più cari della giovinezza di Dante: in preda all’ansia perché, vedendolo piovere lì all’inferno, si allarma immediatamente, pensando alla sorte di suo figlio. Come mai non è lì con lui, se è vero che quel viaggio Dante se l’è guadagnato per pura altezza d’ingegno? Dante lo rassicura, Guido è ancora fra i vivi; ma di fatto, nel momento in cui scriverà il canto, le preoccupazioni del padre all’inferno si saranno avverate già da tempo, perché Guido Cavalcanti muore nell’estate del 1300.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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