“‘Non sono femminista’, leggo in rete, ‘perché non ne sento il bisogno’. Io ne ho bisogno, invece. E soprattutto ho sempre avuto bisogno di domandarmi quale fosse il modo giusto di essere femminista. Penso ancora che viviamo in un mondo in cui diciamo alle bambine che possono essere quello che vogliono ma che non sia esattamente vero. Sono felice che esistano donne che si sentano sempre forti e sempre al sicuro ma penso anche che ne esistano moltissime altre che hanno storie diverse e che di loro mi interessa. Non penso che la parola ‘vittima’ sia un insulto, né che salire sullo stesso gradino di chi opprime possa considerarsi una vittoria e, nello specifico, possa definirsi femminista”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Giusi Marchetta che cita Jessa Crispin, Roxane Gay, Ta-Nehisi Coates, passando per progetti come “Senza Rossetto” e “Ghinea”, e che annuncia l’iniziativa “Il tavolo delle ragazze”, uno spazio per giovani lettrici/autrici che vogliono far sentire la propria voce

Nei primi anni 2000 Buffy l’ammazzavampiri giunse alla conclusione. Non ero una fan della serie e ne avevo visto nell’insieme poche puntate ma per caso mi ritrovai davanti alla televisione durante una delle ultime. Al momento della battaglia finale ingaggiata contro l’ennesimo mostro supercattivo, Buffy decide di condividere il proprio potere: in una successione serrata di scene vediamo una ragazzina che è stesa sofferente sul pavimento e tenta di rialzarsi, un’altra in completo da baseball che stringe la mazza pronta a colpire e un’altra ancora che, a differenza di certe notti, si prepara ad affrontare l’uomo che entra nella sua cameretta per farle del male. Forti, risolute, capaci: erano diventate tutte cacciatrici. Era bastato un piccolo gesto e il loro era mondo cambiato. Nonostante l’avessi guardata senza vero interesse, quella scena mi rimase impressa perché mi sembrava che andasse oltre i confini della trama e dello schermo. Non lo sapevo ancora, ma quello è stato il mio primo incontro con il femminismo basato sull’empowerment, la filosofia per cui se sei una ragazza, puoi fare tutto. 

Canzoni, film, qualche prima serie televisiva con protagonista femminile: si cominciava a seminare in giro l’idea che le ragazze potessero alzare la propria voce e farsi sentire anche in un mondo che le voleva affabili e tranquille. Si puntava sulla loro forza interiore, riadattando ad hoc una filosofia di self help che pareva funzionare per gli impiegati insicuri e in generale per chiunque si sentisse frustrato dal mancato raggiungimento dei propri obiettivi. Così la risposta al maschilismo è sembrata alla portata di tutte le ragazze che accettavano di lavorarci: bisognava mostrarsi forti, competenti, capaci di occupare posizioni tradizionalmente maschili senza mostrare nessuna debolezza. Funzionava: io e le mie amiche abbiamo cominciato a leggere anche le scrittrici se erano abbastanza famose o importanti, o se erano andate in Vietnam come reporter. In libreria sono comparse distopie con un’eroina destinata a salvare il proprio mondo; non dovevamo aspettare il principe azzurro ma diventarlo. Le nostre scelte, dal corpo all’abbigliamento, ci appartenevano. Ci sembrava di aver scoperto un segreto: essere giovane e bella voleva dire essere potente; essere potente voleva dire riuscire ad ottenere tutto ed ottenere tutto quello che avevano gli uomini non poteva che essere femminista.  

Sono passati degli anni e adesso so che l’empowerment femminista ha molte sfaccettature: significa assicurarsi che vengano fornite istruzione e opportunità alle ragazze di parti del mondo in cui entrambe sono negate; significa creare delle politiche sociali ed economiche che supportino le donne in difficoltà e permettano loro di vivere dignitosamente; significa abbattere le barriere che esistono nel campo scientifico e tecnologico per le bambine che vengono continuamente scoraggiate a riguardo. Mi sembra però che persista ancora, soprattutto tra le ragazze e le donne più giovani, quel tipo di empowerment principalmente modellato su se stesse e sulle proprie forze. Allora la soluzione alla molestia sessuale sul bus o sul set diventa lo schiaffo o la rinuncia al lavoro; Margaret Thatcher rappresenta pur sempre un esempio di donna che ce l’ha fatta per bambine che dovrebbero essere ribelli; bellezza e sensualità tornano a essere fondamentali anche se a giudicarle sono gli uomini: si chiamano complimenti e, come i like sui social, sono sempre i benvenuti. Su Tumblr e Istagram non si contano i post che inneggiano a questo tipo di femminismo in cui tutto quello che fai pare vada bene purché tu sia femmina. 

Non sono femminista” è probabilmente l’ultimo stadio di questo processo. “Non sono femminista”, leggo in rete, “perché non ne sento il bisogno“. “Perché non mi sento inferiore, né sminuita, né in pericolo in quanto donna”. “Perché sono abbastanza forte da cavarmela“. “Perché non ne ho bisogno”.  

Io ne ho bisogno, invece. E soprattutto ho sempre avuto bisogno di domandarmi quale fosse il modo giusto di essere femminista. Perché quella scena di Buffy che ho visto quando ero una ragazza mi ha colpito e ha acceso qualche cosa dentro di me, qualcosa che però non basta. Penso ancora che viviamo in un mondo in cui diciamo alle bambine che possono essere quello che vogliono ma che non sia esattamente vero. Sono certa che Margaret Thatcher non sia un modello per nessuno e sono felice che esistano donne che si sentano sempre forti e sempre al sicuro ma penso anche che ne esistano moltissime altre che hanno storie diverse e che di loro mi interessa. Non penso che la parola “vittima” sia un insulto, né che salire sullo stesso gradino di chi opprime possa considerarsi una vittoria e, nello specifico, possa definirsi femminista. 

Continuo comunque ad aver bisogno di risposte e a chiederle in giro. A Jessa Crispin ad esempio e al suo femminismo scomodo, o a Roxane Gay che con Fame ha scritto un libro  potente sullo stare al mondo da donna obesa e vittima di violenza; a un lungo elenco di scrittrici e giornaliste che seguo fedelmente da Giulia Siviero a Eugenia Fattori; a chi scrive della questione femminile su riviste straniere e italiane (e se di recente abbiamo avuto la chiusura di Soft Revolution, sono contenta che sia stato l’anno di Senza Rossetto e di Ghinea, la newsletter femminista di inutile). Con un certo stupore qualche risposta l’ho trovata nei libri di scrittori afroamericani che raccontano l’essere nero, oggi, in un Paese che qualche secolo fa ti considerava uno schiavo. Nelle poesie di Claudia Rankine e nella rabbia di Serena Williams; nelle battaglie dei movimenti LGBTQ (una sigla che neanche esisteva quando al liceo leggevo Tondelli e David Leavitt), o a scuola nei colloqui con i genitori in cui si parlava di debiti e sfratti. Col tempo il femminismo per me è diventato una parola da declinare al plurale: non sono femminista se credo di potercela fare; lo sono se mi batto perché tutti possano farcela.  

Penso a me stessa quindicenne e vorrei aver avuto questi spunti allora, quando per radio passava Ragazza acidella e a scuola studiavamo solo filosofi, politici, scienziati e scrittori. È per venire incontro a quella particolare ragazza quindi che vent’anni dopo, quando ADD mi ha chiesto di curare un progetto sul femminismo, ho detto sì: in fondo si è trattato solo di fare domande a chi qualche risposta se l’era già data. E mentre raccoglievo le interviste e gli interventi per il libro e Marzia D’Amico gli trovava un nome splendido, Tutte le ragazze avanti, ho capito che sarebbe stato bello lasciare uno spazio libero nelle ultime pagine per chi leggeva, perché ci scrivesse cosa significa essere una ragazza oggi in Italia.

A marzo, quando una decina di giovani lettrici/autrici si riuniranno in gruppo per Il tavolo delle ragazze, le ascolteremo mentre discutono di corpo, di immaginario, di educazione e di tutte le cose che non immagino perché non sono più una ragazza. Poi le vedremo leggere le risposte che sono arrivate, confrontarle con le proprie, trasformarle in un manifesto giovane e potente. Sarà bello. Non saranno nuove per loro questa giovinezza e questa forza come non lo erano per me, ma, forse, se andrà come spero, sarà nuovo il modo in cui si guarderanno e scopriranno di essere una di tante.  

Tutte le ragazze avanti

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce. Il suo ultimo romanzo è Dove sei stata, Rizzoli. Per Add ha curato il libro collettivo Tutte le ragazze avanti!

Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

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