“Mi interessa tutto, com’è scritto di solito negli annunci delle persone disperate”. Torna in libreria con “Mamma è matta, papà è ubriaco” lo scrittore svedese Fredrik Sjöberg, già autore de “L’arte di collezionare mosche”, un libro per molti versi stupefacente – L’approfondimento

Due pittori nordici d’inizio Novecento: uno godrà di una grande fortuna postuma, l’altro è destinato all’oblio. Hanno sposato la stessa donna (non contemporaneamente), sono entrati fra un nugolo di parenti e amici in una labirintica e ricchissima famiglia di imprenditori svedesi, hanno girato il mondo, lasciato tracce ora evidenti ora segrete un po’ dovunque, si sono scolati quantità cospicue di alcool, sono morti giovani. Qual è il senso della loro storia, breve seppure intensa, e delle molte persone che l’hanno incrociata, complicata, arricchita con le proprie vicende? Fredrik Sjöberg, lo scrittore entomologo (ma anche collezionista e tante altre cose) che si è rivelato anni fa con L’arte di collezionare mosche, un libro per molti versi stupefacente, ripropone con Mamma è matta, papà è ubriaco (Iperborea, traduzione di Andrea Berardini), gelidamente sottotitolato Uno studio sul caso, la sua ispirazione di strenuo cacciatore e collezionista: non più di insetti, ma come nei libri successivi all’esordio, di storie di vita vissuta.

Sono in tutto romanzi, i suoi, e non certo reportage, anche se la ricerca storica e documentaria è impeccabile, rappresenta nello stesso tempo lo strumento e il tema del libro, è una vera sfida, ossessiva, quasi maniacale al dettaglio biografico con il quale confrontarsi, al quale dare parole. Il romanzesco è dalla parte del cercatore, in una sorta di arco voltaico che si accende tra l’autofiction e l’indagine, quasi una detection da libro giallo.

Che cosa abbiano poi da rivelare le vite che laboriosamente Sjöberg, restituisce alla memoria sottraendole al tempo è il cuore stesso dei suoi libri, la domanda che l’autore rivolge innanzi tutto a se stesso. La risposta, provvisoria, aperta, e va da sé ambigua, è nella sua stessa biografia interna al romanzo, reale o immaginaria questo non importa. Il viaggio sulle tracce di qualcuno che è vissuto nel passato, sui luoghi che sono stati suoi e tra le persone che ne hanno serbato eventualmente memoria, si sdoppia infatti, sempre, in quello dello scrittore, della sua sensibilità: con connotazioni e atteggiamenti in qualche modo post-proustiani.

Fredrik Sjöberg MAMMA È MATTA, PAPÀ È UBRIACO

La memoria altrui viene assorbita nella propria, nell’ambito di una tradizione novecentesca che considera romanzo e saggio come forme interconnesse, da Sebald a Carrère, a Cercas, ma si potrebbero anche citare in ambito italiano quantomeno Andrea Tarabbia, fresco vincitore del Campiello: e per quanto riguarda le strategie letterarie di Sjöberg, in particolare, quel Pappagallo di Flaubert con cui Julian Barnes indicò senz’altro – era il 1984 – una via assai promettente nella narrativa che allora si definiva postmoderna.

Siamo in tutta evidenza di fronte a un’ossessione: nel caso specifico quella del collezionista, che mette in campo la collezione in quanto organismo inesauribile, più che non i singoli oggetti – le singole storie -: senza di essa sarebbero mute, grazie a essa ci parlano. Ed è quel che accade in Mamma è matta, papà ubriaco, frase pronunciata in treno, e in svedese, ma forse un passeggero ha compreso – da Lillan, la figlia di Eva Adler e del pittore danese Anton Dich, nel loro viaggio di belli e dannati verso il nulla. Tutta la narrazione si sviluppa da un dipinto eseguito nel 1921 da quest’ultimo, faticosamente ritrovato a un’asta dall’autore stesso, che ritrae due ragazze, Hanna e Lillan appunto, due cugine “piene di soldi” e “con l’aria depressa”, sulle alture di Mentone, da cui inizia la vicenda.

Seguendo e incalzando la loro biografia semicancellata tra scansioni temporali abilmente alternate fra passato e presente – a una buona dose di umorismo – , ci racconta una pezzo di storia d’Europa, volendo una saga sognante e non poco disperata, che coinvolge un noto attore ebreo divorato dalla tragedia dell’Olocausto se pure in circostanze misteriose e forse leggendarie, la vitalità quasi inesauribile della parte femminile – quell’essere appunto un po’ matte – gli incroci fra pittori a Parigi e in costa Azzurra, con la presenza niente affatto secondaria di Amedeo Modigliani e di un ritratto a lui dedicato di cui nessuno aveva notizia, o di Blaise Cendrars, il poeta di cui in epigrafe viene trascritto un’osservazione assai significativa: “In realtà gli artisti vivono discosto, ai margini della vita e dell’umanità, e per questo sono o molto grandi o molto piccoli”.

Qui, tra molto grandi (il pittore Ivar Arosenius, nome che magari a parecchi di noi dice poco, ma che è considerato uno dei maestri svedesi d’inizio Novecento) e molto piccoli per mancanza di carattere, o forse semplicemente perché hanno rinunciato troppo presto a sé – è il caso di Dich che, leggiamo nelle ultime pagine, “morì ufficialmente di polmonite, seduto in poltrona. Solo. Accadde a Bordighera, l’8 febbraio 1935. Aveva quarantacinque anni. Pace alla sua memoria” -, si dipana una storia davvero appassionante, non poco labirintica (forse troppo, almeno se confrontata a quelle dei libri precedenti) né coerente, come non è coerente la vita. E come, per definizione, non è coerente il caso.

Il romanzo si chiude con la prima persona dell’autore, che torna come per una intermittenza del cuore al ricordo di quando, bambino, osservava un pescatore (di frodo) immobile sull’acqua, nella notte, con una lampada per attirare le anguille: totalmente estraneo alla saga degli Adler e dei pittori e a tutto quanto il resto, ma non all’ossessione di Sjöberg. E a quella che potrebbe essere la sua auto-definizione approssimata e migliore, quando ci dice, lapidario: “Mi interessa tutto, com’è scritto di solito negli annunci delle persone disperate”.

 

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