“La scoperta che mio padre era stato un prete è stata una frattura violenta. In una cultura cattolica come la nostra, le figure del padre e del sacerdote non sono sovrapponibili. E invece ho dovuto rimetterle insieme, ri-conoscere mio padre…”. Agnese Pini, giornalista e direttrice di importanti testate, ora anche alla presidenza della Longanesi, si racconta con ilLibraio.it in occasione dell’uscita del memoir “La verità è un fuoco” (“Nasce da una domanda che non ho saputo a lungo fare a mio padre. Ma quella domanda mancata è ciò che ha acceso il mio desiderio di capire, di cercare…”). Nell’intervista parla, tra le altre cose, dell’impatto dell’intelligenza artificiale sul giornalismo e del clima culturale attuale: “La cultura e l’informazione sembrano diventate accessorie, collaterali, quasi fastidiose. È un fenomeno che riguarda tutto l’Occidente. Si sta smantellando l’idea che la consapevolezza del cittadino sia fondamento della democrazia. Occorre una resistenza rispetto a queste istanze che ci attraversano, perché la cultura è la linfa delle nostre democrazie, per quanto imperfette e faticose possano essere”

Il giorno in cui ho scoperto che mio padre era un prete avevo tredici anni. Oggi che ne ho trentanove voglio scrivere un libro su di lui, e non glielo so dire”.

Dentro l’incipit di La verità è un fuoco (Garzanti) Agnese Pini condensa la fatica di ventisei anni di dolorosi silenzi, di confronti rimandati, di domande che sono diventate il fulcro della sua professione, mentre proprio a suo padre non riusciva a rivolgerle.

È un memoir intenso e coraggioso, un percorso intimo, privatissimo ma capace di farsi racconto universale di riconciliazione, questo secondo libro della direttrice de La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino e Quotidiano Nazionale nonché neo-Presidente della casa editrice Longanesi.

Un libro che si muove tra il bisogno di sapere e la paura di scoprire, tra le parole che non si riescono a dire e quelle che, una volta scritte, non possono più essere ignorate. Oggetti di famiglia, fotografie sbiadite, volti e luoghi ritrovati (da Carrara a Sarzana, dall’Università di Pisa alla piccola parrocchia di Vezzano Ligure dove don Pini fu parroco negli anni Settanta) sono i fili di un racconto che ha il passo dell’ossessione e il respiro di un atto d’amore. Quell’amore, non tentazione, nato tra gli scaffali di una biblioteca, espressione di un libero arbitrio che ha sfidato regole, condanne, convenzioni. E in quella scelta, che fu anche rinuncia e rinascita, si nasconde il cuore più autentico di questa storia: l’urgenza di amare, e di essere liberi nel farlo. Come scrive Pini, “bisogna essere pronti per l’amore, prima di poter cedere all’amore, bisogna desiderare l’amore, prima di riuscire a vederlo”.

Agnese Pini La verità è un fuoco

Febbraio, 1999. Lei ha tredici anni quando trova l’album che rivela il passato di suo padre, “don Pini”.  La definisce la sua “seconda nascita”. Come si affronta una seconda nascita?
“È una nascita che, a differenza della prima, ricordi. La memoria è pietosa e ci fa dono di dimenticare il dolore di venire al mondo. Ma la seconda volta no, e per me ha avuto un’intensità emotiva così forte da diventare anche fisica”.

In che modo?
“La scoperta che mio padre era stato un prete è stata una frattura violenta. In una cultura cattolica come la nostra, le figure del padre e del sacerdote non sono sovrapponibili. E invece io ho dovuto rimetterle insieme, ri-conoscere mio padre. Questo libro rappresenta il tempo e la fatica necessari a far convivere queste dimensioni, a trovare riconciliazioni più che risposte”.

Scrive: “I ricordi sono Chiese”, e nominarli equivale a perderne la sacralità. Ha avuto paura di profanarli nel portarli alla luce?
Sì, è un rischio reale. Ma la verità si costruisce solo nominando le cose. È un esercizio doloroso, perché togli buio al ricordo, lo esponi. Soprattutto quando è stato soffocato a lungo nel silenzio. Eppure, nel momento in cui trasformi un’immagine interiore in parole, perdi qualcosa: quella forza inspiegabile che le parole non riescono mai a dire del tutto. C’è sempre una parte di noi che non si può esprimere, ed è quella che appartiene al mistero della fede, dell’amore, dei sentimenti”.

In questo libro parla del coraggio necessario per farsi delle domande. A chi come lei le domande le fa di mestiere, è più difficile porle o accettare le risposte?
“È più difficile porle. Le domande sono più importanti delle risposte. Sono il vero motore della ricerca. Questo libro nasce da una domanda che non ho saputo a lungo fare a mio padre. Ma quella domanda mancata è ciò che ha acceso il mio desiderio di capire, di cercare. E cercare è ciò che ci tiene vivi”.

Che cosa ha imparato dal silenzio tra lei e suo padre? È stato una forma di protezione o di distanza?
“Il silenzio è uno spazio in cui si accumulano ambiguità e quindi ferite, ma può essere protezione. Mio padre ha fatto una scelta radicale per amore, ha lasciato la Chiesa, i voti, la castità, ma non ne ha mai parlato. Ho cercato di capire perché. Tra le tante domande che non trovavano voce c’era: ‘Come può un uomo che ha fatto una scelta così dirompente non avere poi il coraggio di raccontarla o di rivendicarla addirittura?’”.

E che risposta si è data?
“Forse per pudore, forse per proteggerci da una verità scomoda, bruciante appunto, giudicata negativamente da una società cattolica che non era pronta ad affrontare questi temi. Ma nel silenzio si annidano anche dolore, ambiguità, vergogna. E ciò che resta senza parola non trova mai soluzione, né cura”.

 “Come fu per Giacobbe attraversare il suo fiume, anche io oggi so che per riuscire a tornare a casa bisogna combattere contro Dio”. All’inizio lei era molto arrabbiata. La scrittura l’ha aiutata?
“La scrittura è stata il mio modo per restituire voce a ciò che non ce l’aveva. È stato un atto d’amore. E nessun atto d’amore autentico esiste senza il rifiuto, la rabbia. Quando ho scoperto la verità su mio padre, ho provato vergogna. E me ne sono vergognata. Ma ho scelto di non tacere nulla, di non autocensurarmi. Perché scrivere questo libro aveva senso solo se dicevo tutto, anche ciò che metteva a disagio me stessa”.

 “Quando si riduce l’amore a una tentazione, si finisce per disumanizzarlo”. Lei con questo libro ha voluto restituire dignità alle scelte dei suoi genitori?
“Assolutamente. Mio padre ha lasciato tutto per l’amore di mia madre, ma non ha mai rinnegato la sua vocazione. Queste due cose, l’amore per Dio e l’amore umano, non sono in contraddizione. Sono entrambe atti d’amore, e gli atti d’amore non si escludono. Solo se li guardiamo attraverso le regole diventano inconciliabili. Mio padre ha creduto profondamente nella sua vocazione e ha continuato a crederci. Non ha rinnegato nulla”.

Allora cosa è accaduto?
“L’amore — non la tentazione — ha la forza di spingere qualcuno a lasciare tutto con questa radicalità. Non si abbandona tutto per una debolezza: lo si fa solo per una forza potente e l’amore è una forza straordinariamente politica. Ci consente di rompere ogni laccio, barriera, norma, ogni cosa che ci fa sentire condannati o condannabili. Ma è difficile da vedere, come sosteneva Sant’Agostino. Solo l’amore è in grado di distruggere per poi ricostruire in pienezza”.

In che modo questa storia ha ridefinito la sua idea di famiglia e il suo essere figlia?
“Essere figli significa riconoscersi. Alla fine del libro riesco a chiamare mio padre con il suo nome. Un gesto semplice, ma potente. Significa riconoscerlo come uomo, vederlo, e quindi amarlo. La famiglia esiste se ci si continua a scegliere, giorno dopo giorno. Altrimenti ci si perde”.

E riguardo al rapporto con la Chiesa?
“Ho provato a confrontarmi con sacerdoti e prelati sul passato di mio padre, ma ho trovato chiusura. Questo libro fa i conti con la fede, con il credere, non in senso confessionale, quanto spirituale. Non è però un libro contro la Chiesa o contro il dogma del celibato, quanto una ricerca, nata da una necessità laica, di comprendere. Perché, quando ingaggi una lotta interiore con te stesso, come si diceva prima a proposito di Giacobbe, non hai più energie per combattere contro altri”.

Una lotta interiore che ha affrontato anche grazie all’aiuto del dottor F., uno psicanalista.
“La Chiesa istituzionale mi ha chiuso molte porte, non era pronta ad ascoltare. Il dottor F. in un certo senso è l’equivalente laico del confessore. Mi ha dato gli strumenti per fare pace con questa storia. Prima dovevo affrontarla io. Solo dopo ho potuto scriverla. Farlo è stato, alla fine, un modo per riconciliarmi non solo con mio padre, ma con me stessa”.

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In un suo recente editoriale ha affermato che “il cristianesimo non è mai stato una difesa della forza, ma della fragilità”. È questa la speranza che ripone in Papa Leone XIV?
“Sì. Mi auguro che la sua attenzione alla fragilità possa riportare la Chiesa al cuore dell’umano. Non nel senso di lasciarsi travolgere dalla modernità, ma di restare vicina alla complessità delle persone, senza giudicarle con senso di colpa. In questo vedo una continuità con il pontificato di Francesco e con il Concilio Vaticano II, soprattutto nel suo ricorso alla parola ‘sinodalità’, fin dal primo discorso”.

Cosa intende?
“La sinodalità è un processo democratico dentro la Chiesa, un’apertura al dialogo, anche con la società civile. E questo include anche le donne, che ancora oggi sono troppo assenti dal dibattito spirituale, non solo nel cattolicesimo, ma in tutte le grandi religioni monoteiste”.

Lo scavo nella sua storia personale è già stato presente nel suo primo libro, Un autunno d’agosto (Chiarelettere, 2023). In quel caso rievocava l’eccidio nazifascista del 1944 a San Terenzo Monti che aveva colpito la sua famiglia.
Un autunno d’agosto è una storia di memoria familiare, ma anche sulla resistenza civile che ha al centro la morte di 159 persone in un piccolo paesino tra Liguria, Emilia e Toscana. Una vicenda che mi è stata raccontata più volte da mia nonna, da mia madre e da mia zia. È come se mi fossi voluta mettere alla prova con quel libro, per capire se sarei stata in grado di scrivere La verità è un fuoco”.

Lei è da poco alla presidenza della casa editrice Longanesi. Che significato ha per lei questo ruolo?
“È un grandissimo onore e una grande responsabilità. Raccolgo il testimone da Ferruccio de Bortoli, che per chi fa il mio mestiere è una figura mitica, così come lo stesso Leo Longanesi, riferimento imprescindibile della letteratura e del giornalismo. Affronto questo incarico con la massima dignità e speranza di poter dare un contributo positivo, partendo dalla consapevolezza e dalla coerenza tra ciò che penso e ciò che scrivo, sia nella mia attività giornalistica sia in quella narrativa. Solo in questo modo si può essere credibili”.

agnese pini un autunno d'agosto libri da leggere estate 2023

Che ne pensa dell’intelligenza artificiale nell’editoria e nel giornalismo?
“Dobbiamo imparare a conoscerla profondamente. L’IA non è una semplice tecnologia: è intelligente. E l’intelligenza non è mai sottomessa. Questo la distingue da tutte le tecnologie precedenti. Oggi l’IA, come quella rappresentata da ChatGPT, è capace di comprendere perfino la temperatura emotiva dell’interlocutore. Questo la rende non remissiva e ci impone di interrogarci seriamente”.

Come giudica l’esperimento fatto dal Foglio sull’uso dell’IA?
“È stato intelligente, perdoni il gioco di parole. Per conoscerla meglio, l’IA va usata. Quando si dice che ChatGPT sbaglia perché inventa, ci si dimentica che l’invenzione è una forma di intelligenza. Il vero nodo è: come reagirà la società a un altro linguaggio, così potente? La scrittura e la memoria ci hanno reso sapiens. Ora l’IA può rappresentare un nuovo salto evolutivo”.

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Che clima culturale viviamo oggi in Italia?
“Viviamo in un clima in cui la cultura e l’informazione sembrano diventate accessorie, collaterali, quasi fastidiose. È un fenomeno che riguarda tutto l’Occidente. Si sta smantellando l’idea che la consapevolezza del cittadino sia fondamento della democrazia. Occorre una resistenza rispetto a queste istanze che ci attraversano, perché la cultura è la linfa delle nostre democrazie, per quanto imperfette e faticose possano essere”.

Cultura di destra e di sinistra?
“L’idea che esista una cultura ‘di destra’ o ‘di sinistra’ è assurda. La cultura, per essere davvero tale, deve essere libera. Non può essere piegata a logiche partitiche, perché così facendo perde la sua funzione principale: vedere prima degli altri. L’arte, la creatività anticipano le grandi fratture della storia. I poeti, non i politici, hanno visto in anticipo ciò che accadeva”.

Ora che il libro uscirà nelle mani dei lettori, quali emozioni prova?
“Emozioni contrastanti. È come se fosse una terza nascita, dopo le due citate. Sono curiosa di vedere come riuscirò a navigare in queste acque nuove, ora che un segreto che non riuscivo neanche a pronunciare ad alta voce, adesso abita in 330 pagine e diventa di tutti”.

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Fotografia header: Agnese Pini, foto di Yuma Martellanz

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