“Chiedilo a Shakespeare” del filosofo Cesare Catà è un libro che raccoglie gli antidoti del Bardo al mare delle nostre pene. Come ha infatti spiegato l’autore stesso in questa intervista per ilLibraio.it, riflettendo sui significati di tante sue grandi tragedie e commedie, Shakespeare ha inventato l’uomo, perché “nei suoi testi albergano cose che ci riguardano direttamente, parlano di noi”. E anche se il grande scrittore inglese (“forse il più amorale di tutta la storia della letteratura”) “può aprire domande, non dare risposte”, è confortante sapere che, qualunque problema stiamo attraversando, Mastro Will c’è già passato e lo ha trasformato in qualcosa di sublime

“Se soffri d’ansia, ti ci vuole l’Otello, “Se il tuo amore ti lascia, ti ci vuole Antonio e Cleopatra“, “Se non hai il coraggio di seguire i tuoi desideri, ti ci vuole Come vi piace“. Queste sono solo tre delle dieci problematiche il cui conforto viene trovato in altrettante opere del drammaturgo più famoso di tutti i tempi e condensate in Chiedilo a Shakespeare. Gli antidoti del Bardo al mare delle nostre pene (Ponte alle Grazie) scritto dal filosofo e performer teatrale Cesare Catà.

Non si contano le definizioni di quel corpus di 31.534 parole e 37 copioni che più di ogni altro disegnano l’intera gamma delle passioni umane. Specchio magico in cui ritrovarsi e scoprirsi, scrigno infinito, libro sapienziale vergato da una figura dotata – come afferma Catà –  di una “antenna metafisica, in grado di captare, nell’immensità del cosmo infinito, alcune voci. Voci che, trasposte su carta, divennero più che meri personaggi: divennero archetipi in grado di esprimere, descrivere, esplorare l’identità stessa di chi si trovi a leggere, ad assistere, ad ascoltare, a interpretare una delle sue storie”.

Shakespeare (Stratford-upon-Avon 1564-1616) ci spinge a fare i conti con le paure, le gioie, le disperazioni e gli entusiasmi che ci portiamo dentro, in quella continua interpretazione di noi stessi che è il nostro destino. Il Bardo non offre ricette, non dispensa dettami, non impartisce giudizi. Ma suggerisce di attraversare il caos del bosco per ritrovare la luce della ragione, di ancorarci al centro della tempesta per rinascere più miti e più forti, di dar voce ai nostri fantasmi per diventare noi stessi.

Ed è questo l’intento del saggio di Catà, il quale, attraverso un’analisi filosofica profonda mai sganciata dall’attualità (pensiamo all’accostamento del Macbeth con la serie cult Breaking Bad o a quello di Iago al fenomeno delle fake news) fornisce delle chiavi di lettura inedite ai testi di Mastro Will, spronando all’auto-conoscenza, più che all’auto-aiuto.

“Shakespeare non ti aiuta, non ti salva – perlomeno non direttamente. Non ci sono precetti morali, vie da seguire, speranze a cui credere nel suo teatro. Però può essere confortante, illuminante, meraviglioso capire che, quando hai un problema che ti affligge, per quanto grave o ridicolo esso sia, William Shakespeare c’è già passato; e ne ha scritto in un modo che ti riguarda personalmente, trasformando quel tuo problema in qualcosa di sublime”.

chiedilo a shakespeare

 

Cesare Catà, lei si è accostato al teatro di Shakespeare come a un testo sacro, applicando “esperimenti di bibliomanzia”. Amleto e Macbeth sono come la Bibbia?
“C’è una grande ricchezza per l’essere umano nelle opere di Shakespeare, come se fossero la Bibbia, l’Odissea di Omero o l’I Ching cinese, cioè quei grandi libri della tradizione che l’umanità ha interrogato per conoscere se stessa. I miei esperimenti nascono sul palco, da due spettacoli, Shakespeare on the Beach e Shakespeare Jukebox, e ho sempre trovato nei versi del Bardo degli insegnamenti profondi, mai moralistici. ‘Shakespeare inventa l’uomo’, sostiene Harold Bloom, ed è così”.

In che senso “Shakespeare inventa l’uomo”?
“Significa che nei suoi testi albergano cose che ci riguardano direttamente, parlano di noi. E non mancano messaggi cifrati, proprio come succede con i testi sapienziali o poetici. Per questo il mio è un esperimento bibliomantico, ma senza nessun intento accademico. Sebbene applichi un certo rigore nelle argomentazioni, il mio obiettivo è la ricerca di un messaggio filosofico nell’accezione più antica dell’espressione: tante vie che Shakespeare indica all’interno delle sue opere sono correlate a problematiche contemporanee”.

Però non vuole essere un libro di auto-aiuto, oggi tanto di moda, quanto di auto-conoscenza. Qual è la differenza?
“Le due cose sono diverse in quanto l’auto-aiuto, in voga negli ultimi vent’anni in filosofia anche con libri molto interessanti, presuppone una prospettiva di fondo unitaria alla quale non credo completamente”.

Cioè?
“L’idea che la filosofia possa aiutarci a essere più performanti, più efficaci, sempre al massimo di noi, più lieti e più integrati all’interno di un contesto. L’auto-conoscenza parte invece dall’assunto che non è detto che dentro di noi ci sia qualcosa che non funziona, di non performativo o di sbagliato. Così avviene nel teatro di Shakespeare, dove non c’è mai una morale”.

E questo cosa comporta?
“Per me è un dono molto prezioso che lui fa a noi lettori e spettatori, perché implica uno sforzo di auto-conoscenza proprio sul tema che lui spalanca. Virginia Woolf sosteneva che nel teatro elisabettiano il pubblico è coautore insieme al drammaturgo. E ancora oggi è così: noi siamo chiamati a interrogare noi stessi e in questo sforzo non c’è un’unica via che il Bardo indica. Sì, può aiutarci a fare i conti con i nostri problemi, ma non a risolverli. Può aprire domande, non dare risposte. Questo, a mio avviso, è il compito essenziale della filosofia”.

A proposito di morale, oggi, dagli Usa all’Europa, si dibatte sul politicamente corretto. Secondo lei Shakespeare cosa ne penserebbe?
“Shakespeare è un autore fantastico proprio perché non è politicamente corretto: non lo è nei confronti della morale del suo tempo, non lo sarebbe stato nei confronti della cultura della cancellazione o di chi oggi cerca di cambiare le fiabe. Il Bardo riesce a essere resistente a qualsiasi tipo di incasellamento, per questo non credo che subirà mai, o al massimo con estrema difficoltà, la scure di questa morale contemporanea”.

Da cosa deriva questa sua resistenza?
“Beh, non né maschilista né femminista, sebbene alcuni dei suoi personaggi lo siano. È davvero universale. Per non parlare delle numerose teorie per cui un uomo da solo non può aver composto tutti questi capolavori né aver conosciuto tanto bene il cuore di una donna per descriverla così. Sono teorie divertenti, senza base filologica, ma con un valore ermeneutico profondo: dentro Shakespeare c’è tutto”.

Compresa l’irrisione dei moralisti del suo tempo.
“Assolutamente. I puritani dell’epoca elisabettiana sono spesso il suo bersaglio: pensiamo alle caricature che ne fa nel suo teatro attraverso personaggi come Malvolio nella Dodicesima Notte o come Polonio in Amleto: il moralista in Shakespeare è sempre ridicolo. Si può azzardare nel dire che Shakespeare è lo scrittore più amorale di tutta la storia della letteratura. Non immorale, ma amorale”.

Rispetto al teatro greco, i personaggi di Shakespeare non si scontrano con forze esterne, quanto con la loro stessa identità. È questo il fulcro dei suoi drammi?
“Sul piano drammaturgico c’è un grande spostamento: il tragico e il comico non avvengono più per delle cause esterne, quanto per i connotati identitari del soggetto. Ciò significa che Romeo e Giulietta non sono sfortunati, ma è il loro bisogno di amare in un modo immaturo che li porta alla distruzione, non l’opposizione delle loro famiglie. Invece Edipo e Antigone, indipendentemente dalle loro indoli, avrebbero comunque incontrato un simile destino di tragicità. Questo perché nel mondo di Shakespeare manca quel concetto caro ai greci di dike, di giustizia: non c’è un giusto indipendente dalle vicende umane”.

Shakespeare è il fondatore della modernità, dunque.
“Sì, quasi più della filosofia cartesiana, perché la ruota degli eventi dipende dallo specchio deformante della visione del singolo. Tutti i personaggi diventano qualcosa di più di semplici ruoli di un copione, diventano degli archetipi, delle forme fisse dell’individuo che hanno a che fare con un nostro modo di essere. Ecco perché Shakespeare rimane un nostro contemporaneo. Ed ecco perché se lasci logicamente qualcuno sei Cleopatra, se vuoi a tutti i costi il potere sei Macbeth e così via. Lo diventi anche se Shakespeare non lo conosci o non l’hai letto, ma comunque lo stai interpretando”.

Veniamo alle dieci opere da lei selezionate e alle rispettive problematiche che vengono evocate. Lei parte da Sogno di una notte di mezza estate, consigliato a coloro a cui vanno tutte storte.
“In questo testo le presenze del bosco, Puck, Oberon e Titania sono la concretizzazione archetipica di quelle forze che ci capitano nella vita, ma che non sappiamo gestire né contrastare. Quelli che noi chiamiamo accidenti, quando tutto sembra andare per il verso sbagliato – parliamo di piccoli problemi –  sono rappresentati dal folletto, figura cara alla tradizione folklorica. Il percorso dei quattro ragazzi protagonisti nel bosco diventa una specie di viaggio iniziatico in cui fanno i conti con l’amore, con i loro sentimenti e con quelle forze spaventose che fanno parte della vita. E ne escono più maturi”.

Il bosco ha una valenza simbolica chiave e ritorna nell’ultima opera da lei trattata nel libro, ovvero Come vi piace.
“Il passaggio nel bosco ha un valore filosofico simile per la protagonista di As you like it, Rosalinda: significa affrontare degli aspetti di sé che non conosceva prima, tanto da entrarvi sotto mentite spoglie, indossando i panni di un uomo, Ganimede. Scopre così il suo lato maschile, complementare a quello femminile. Entrambi rientrano nel suo Sé, come avrebbe detto Jung, cioè quella parte allargata dell’io che nel bosco si rivela. È qui che si risolvono tutte le questioni e si fanno i conti con la natura selvaggia, nel senso più liberante del termine”.

Non è un caso che lei citi Walden e Thoreau, di cui ha curato anche la traduzione. Immergersi nella natura diventa l’occasione per trovare una nuova visione del mondo.
“È esattamente lo spostamento che compie la protagonista di As you like it: andarsene per riscoprirsi, come accade in tanti romanzi contemporanei tra cui quello di Alexander Supertramp, Into the wild, dove ritroviamo anche il senso di terra selvaggia”.

Veniamo ora a Otello, che lei definisce “la tragedia dell’ansia”, a differenza della comune vulgata che lo identifica come il dramma della gelosia. Perché?
“Perché la gelosia di Otello ha una radice più profonda: l’incapacità di distinguere il vero dal falso e di essere sopraffatto da un horrible fancy, una terribile fantasia. L’analisi poetica di Shakespeare è davvero precisa sul piano clinico nel descrivere i sintomi che Otello manifesta man mano che le parole di Iago gli entrano nella testa. L’espressione fenomenologica di tutto questo è la gelosia, però l’origine è il sentimento ansioso, derivato dal non credere in se stesso. Un’insicurezza da cui scaturisce la violenza, proiettata su Desdemona, che diventa per lui un oggetto da possedere e controllare”.

A proposito di Iago, lei lo descrive come maestro della mistificazione, creatore di fake news, perfetto prototipo del leone da tastiera.
“Iago è un leone da tastiera ante litteram, perché crede in quella che oggi chiamiamo post-verità, non tanto una correlazione tra fatti e predicato, quanto il creare una realtà in base a delle opinioni che diventano preminenti. È esattamente quello che lui fa per instillare nella testa del Moro qualcosa che non esiste, diffondendo delle falsità. È una cosa profondamente diabolica”.

E non a caso Iago è associato al maligno.
“L’oggetto è Desdemona, ma il seme del male entra attraverso le parole nella testa di Otello che da nobile cavaliere quale era, si trasforma nella creatura più mostruosa che un maschio possa diventare, cioè un uomo violento nei confronti della donna che ama. Questa metamorfosi avviene perché lago è il maestro della mistificazione quindi è il più terribile dei cattivi”.

Parlando di amore e delle sue multiformi declinazioni, lei sceglie tre opere in cui si passa dalla pena per non trovare la persona giusta al dramma della rottura.
“È incredibile come un solo autore abbia descritto tante sfaccettature dell’amore e in maniera così profonda: un amore maturo e ubriaco nel lasciarsi come quello di Antonio e Cleopatra, passionale e straziante. L’amore giovane, nel senso filosofico dell’espressione, ovvero quello di Romeo e Giulietta che porta alla catastrofe. E poi c’è l’amore che giunge a compimento, l’unico tra questi, quello tra Benedetto e Beatrice in Molto rumore per nulla“.

E proprio tra i due personaggi da cui non ce lo saremmo mai aspettato.
“Sì, il Bardo si diverte nel dare forma a un amore compiuto tra due soggetti che sembravano non essere fatti per stare insieme, dimostrando come l’amore diventi necessario allorquando sembra impossibile. E quando avviene il contrario, l’esito è nefasto. Basti pensare a Romeo e Giulietta dove un amore impossibile, che si mostra come necessario, porta a conseguenze tragiche”.

A proposito di conseguenze tragiche, cos’hanno in comune Amleto e Achille, due figure titaniche della storia della letteratura apparentemente molto distanti?
“È un parallelismo ardito, in quanto l’uno è ardimentoso e bellicoso, mentre l’altro è indeciso e intellettuale. Però ho voluto farlo proprio per sottolineare un aspetto comune e decisivo per entrambi gli eroi, cioè estraniarsi dalla vicenda umana. Nel caso di Achille la questione contingente è quella di Briseide, sottratta ingiustamente da Agamennone, mentre nel caso di Amleto è quella del padre defunto ucciso da suo zio Claudio. Sul piano filosofico il significato è però lo stesso: si tratta di due uomini che si astraggono dalla realtà comune perché non credono più alle regole del gioco”.

Amletici, dunque.
“Sì, ma amletico, più che un indeciso, come solitamente viene interpretato, è colui che non vuole più giocare alla vita, che prova un senso di repulsione per quello che Freud avrebbe definito lieben und arbeiten, per il mondo dell’amore e del lavoro, non crede più alle cose umane e se ne va. Nel caso di Achille andarsene significa non combattere la guerra di Ilio, in quello di Amleto vuol dire alterarsi la coscienza, quindi sembrare ed essere pazzo, che per lui sono la stessa cosa”.

Cosa ci insegna invece l’Enrico V oggi a proposito di leadership?
“Enrico V è un leader vero, perché fa i conti con se stesso e con il proprio fallimento. È un re che non teme nulla, perché sa che sta compiendo una missione più alta in quanto ha un ideale che lo illumina: l’Inghilterra. Ma il punto essenziale è il fatto che egli riesca a immaginarsi diverso rispetto allo stato di minorità in cui è bloccato e, superandolo, trovi il coraggio dentro di sé”.

Ancora una volta Shakespeare punta i riflettori sul mondo interiore, quello di un monarca, dunque sull’identità del personaggio. Ed è da qui che siamo partiti.
“Shakespeare fa leva sul potere magico che l’animo umano possiede nell’infondere coraggio a qualcuno. Pensiamo al celebre discorso davanti alle truppe, che è ancora validissimo e motivante in politica, nello sport e in ambito aziendale. Churchill ne fece un uso sapiente, ma anche Mel Gibson in Braveheart. Un vero leader è chi assume su di sé il destino degli altri divenendone responsabile. Ed in grado di farlo perché ha superato i propri fantasmi interiori”.

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