“Come si descrive un sapore? È una sfida complicata, che va a incagliarsi fra preferenze e idiosincrasie, e spesso, malgrado i suoi mezzi raffinati, fallisce…” – Su ilLibraio.it il contributo della scrittrice Ilaria Gaspari dal quarto numero della rivista trimestrale “Sotto il Vulcano”, curato da Claudia Durastanti e dedicato al burnout. Tra gli interventi, quelli di Joshua Cohen e del Premio Nobel Olga Tokarczuk

Cercavo di capire, qualche giorno fa, al telefono con un’amica risultata positiva al Covid, a che cosa somigliasse la perdita del gusto. È un’idea che mi ossessiona da quando un altro amico, Tommaso Melilli, scrittore e chef, ha fatto l’esperimento di cucinare senza sentire i sapori. Così torchiavo la mia povera amica per cercare di avere accesso al segreto di una sensazione ancora mai provata – è come quando hai il raffreddore?

No, diceva lei, è più forte. Eppure, per quanto mi spiegasse, non riuscivo a immaginare. Come il dolore degli altri, così il piacere del gusto (o l’imbizzarrirsi del disgusto) non riusciamo facilmente a figurarcelo, a meno che non ci tocchi direttamente. Mi affascina forse proprio per questo – perché quando siamo seduti a tavola è come se dormissimo insieme, sognando ognuno un proprio sogno inaccessibile – il modo in cui le parole cercano di fare da ponte fra un’esperienza e l’altra. Come si descrive un sapore? È una sfida complicata, che va a incagliarsi fra preferenze e idiosincrasie, e spesso, malgrado i suoi mezzi raffinati, fallisce.

Leggo con gran partecipazione le etichette dei vini. La sapidità minerale, i sentori di pietra focaia, nella mia testa costruiscono arzigogolate immagini barocche: li vedo, e però spesso non li sento, salvo nei casi in cui la parola è proprio quella esatta, sinestetica, suggestiva, che si incastona in un’esperienza immagazzinata dalla mia memoria. Ma già il fatto che le parole possano, in circostanze felici, suscitare fantasmi sensoriali, è di per sé segno del legame fra il gusto e le emozioni – che la nostra epoca, ossessionata da tutto quel che è emotivo, sfrutta con operazioni di storytelling che tormentano gli avventori di ristoranti e gelaterie: esotismi di provenienze millantate, nomi fantasiosi, pantagrueliche dissertazioni incluse nel servizio.

Certo, i recettori del gusto risiedono non nell’immaginazione ma nella lingua, nel palato molle e nella faringe; e come gemme si schiudono al contatto con i sapori, cosicché il dolce e l’acido, l’amaro e il salato – per non dire dei sapori identificati solo di recente, l’umami e il kokumi che sanno moltiplicare il piacere – attivano topografie nascoste nella nostra bocca; esiste però, in effetti, un’emozione primaria legata a questo incantesimo di risvegli sensoriali. Solo che è un’emozione che lo storytelling alimentare respinge: il disgusto. Che ci rammenta la nostra condizione di animali vivi e dunque sempre vulnerabili; che ci strizza i muscoli del viso in un guizzo inequivocabile, perché dobbiamo poter comunicare ai nostri simili quello che il disgusto serve a sentire: il rischio dell’avvelenamento, le conseguenze deleterie dell’ingestione di un alimento guasto. Ma è chiaro che il monopolio emotivo della nostra relazione con il cibo non spetta certo al disgusto. C’è, nel nutrirsi, nel lasciarsi nutrire, nella domanda che è già un atto d’amore – hai mangiato? – un aspetto di premura, di cura e contiguità biologica che comincia prima della nascita, con la madre che condivide con il nascituro il nutrimento; e prosegue nella suzione del neonato, gesto di sopravvivenza e di intimità, nel pianto con cui strilla la sua fame e impara a vederla soddisfatta. Due azioni ci sono indispensabili per vivere, respirare e nutrirci: la prima è un processo fisiologico in gran parte involontario; la seconda, tutta volontaria, l’abbiamo ammantata di riti e simboli. Ne abbiamo fatto un rituale collettivo – tanto che Luis Buñuel, nel suo Fantasma della libertà, immagina una realtà sociale antifrastica, in cui si mangia soli, chiusi in piccole cabine-gabinetti: un’idea che ci appare terribilmente disturbante. Perché convivi e bisbocce accompagnano, fin dall’antichità, ogni momento solenne: le feste, i matrimoni, le nascite, le morti. Mangiare insieme, spezzare insieme il pane, crea una comunione che coinvolge parole e pensieri. Il Simposio di Platone è un banchetto, anzi proprio un festino; in cui le migliori menti dell’Atene dell’età dell’oro discutono della natura del desiderio fra generose libagioni.

E se l’uomo è ciò che mangia, come recita il famoso aforisma di Ludwig Feuerbach, quante cose sono cambiate nel corso di millenni in cui le nostre diete e fisionomie si sono influenzate a vicenda. Oggi siamo lontanissimi dalle abitudini dei nostri progenitori dalle mandibole protruse, che con umorismo stralunato Roy Lewis racconta nel Più grande uomo scimmia del Pleistocene, impegnati per giornate intere a masticare il cibo che ancora non conosceva cottura. Siamo lontanissimi anche dal ciclo dei miti antichi che spiegano il corso delle stagioni; eppure, la fascinazione dell’atto del nutrirsi (e dello scegliere cosa mangiare e cosa no, una scelta che si riveste di ragioni etiche e religiose) è talmente potente che ci lasciamo perturbare dalla storia di Persefone, la giovane figlia di Demetra, dea delle messi, che, rapita da Ade, rimane prigioniera del mondo infero perché ha avuto l’imprudenza di assaggiare un solo, minuscolo chicco di melograno – come non comprenderla? Del resto, il legame fra curiosità intellettuale e cibo è evidente persino nell’etimologia di saggio, parola impiegata nel senso corrente da Montaigne, noto buongustaio e autore di magnifici essais che sono assaggi, appunto; tentativi. L’avventura del gusto è anche un’avventura di esperimenti, di scandagli, di prove ed errori; e oggi, che forse di arrischiarci a tentare, a sbagliare, non abbiamo poi troppa voglia, abituati come siamo all’illusione del controllo, non sarà così strano che ci seducano diete e regimi che ci promettono, attirandoci con le sirene del “biologico” e del “naturale”, di mantenerci puri, incontaminati.

Ma, oltre alla curiosità affamata di Persefone, sappiamo comprendere anche la disperazione della madre, tanto forte che si rifiuta, la dea, di far maturare il grano nei campi; la sua tristezza inaridisce il mondo. In effetti, dovremmo ricordarci che felice viene da felix: fertile, fecondo, fruttifero. Nemmeno la più raffinata invenzione di storytelling alimentare potrebbe mai rivelarsi tanto arguta.

sotto il vulcano, tutto esaurito

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, filosofa e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.

Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni.  Il suo nuovo libro, pubblicato nel 2022, è A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa (Giulio Perrone editore).

IL NUOVO NUMERO DELLA RIVISTA – Esce il quarto numero della rivista trimestrale Sotto il Vulcano – Idee, narrazioni, immaginari, diretta da Marino Sinibaldi, ed edita da Feltrinelli. A curare questo numero, dal titolo Tutto esaurito, è la scrittrice e traduttrice Claudia Durastanti.  Nella rivista trovano spazio racconti, reportage, interviste, riflessioni personali e analisi sociali: scrittori, filosofi, artisti, scienziati italiani e stranieri accompagnano i lettori attraverso i grandi mutamenti di questo nostro tempo inquieto. In questo quarto numero si parla di burnout, di esaurimento, un tema che attraversa molti aspetti della nostra epoca, da quello ambientale a quello geopolitico, da quello lavorativo a quello più strettamente personale ed emotivo. Spazio, tra gli altri, al Premio Pulitzer 2022 Joshua Cohen, a Ingo Schulze, ad Alexandra Kleeman, a Vincenzo Latronico, a Valentina Maini, a Maria Grazia Calandorne, a Ilya Kaminsky, al Premio Nobel Olga Tokarczuk, al teologo Vito Mancuso, alla vincitrice del Premio Strega Europeo Katja Petrowskaja, all’antropologo e sociologo Didier Fassin. E ancora, a Walter Siti, a Fabio Genovesi, a Marco Balzano e a Ilaria Gaspari (di cui proponiamo il contributo, per gentile concessione della casa editrice). Le illustrazioni sono firmate da Elisa Menini.

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