Dopo “Legami di sangue”, Sur continua la pubblicazione delle opere di Octavia E. Butler (22 giugno 1947 – 24 febbraio 2006), prima autrice afro-americana di fantascienza, con “La sera, il giorno e la notte”, che vorrebbe essere una raccolta di racconti di fantascienza e che contiene, in realtà, pezzi scritti fra 1971 e il 2003 che spaziano dal saggio, alla riflessione sulla propria scrittura, alla short story realistica, alla sci-fi vera e propria

“Ho sempre voluto scrivere fantascienza, ma non pensavo ci fossero donne nere che lo facevano”. Sono le parole che una studentessa rivolge a Octavia E. Butler, la “Grand Dame della science fiction”, com’è spesso definita, e prima autrice afro-americana di fantascienza.

Butler racconta questo episodio in un saggio contenuto in La sera, il giorno e la notte (BigSur, traduzione di Veronica Raimo), uno strano libro che vorrebbe essere una raccolta di racconti di fantascienza e contiene, in realtà, pezzi scritti fra 1971 e il 2003 che spaziano dal saggio, alla riflessione sulla propria scrittura, alla short story realistica, alla sci-fi vera e propria.

Copertina del libro La sera il giorno e la notte

Proprio questa eterogeneità, che per certi versi ne fa un libro senza centro, mostra a un livello più profondo una spinta coesiva dei vari testi, tutti concentrati nell’esplorare problematicamente una situazione complessa, operando continuamente degli spostamenti dello sguardo: sembra quasi, in questa raccolta, che la fantascienza sia piuttosto il risultato di questa esplorazione, di questo straniamento del punto di vista, piuttosto che il suo punto di partenza – ed ecco allora che possono susseguirsi pacificamente racconti apparentemente così diversi.

Non a caso il lettore è sempre immesso bruscamente in una situazione già in atto, in un mondo dato per scontato e di cui pian piano deve ricollegare e ricostruire le informazioni per orientarsi nella storia che si costruisce così per continui ripensamenti retrospettivi, che non pacificano mai, anzi scuotono continuamente tutto quello che è acquisito, lo rimettono in discussione.

Gli stessi personaggi, d’altronde, sono spesso rappresentati in una situazione eticamente complessa, magari fuori dal comune, ma non necessariamente soprannaturale, con cui devono fare i conti: la scoperta di un incesto (in Una specie di famiglia), l’assunzione della responsabilità individuale, la prestazione di lavoro per i propri rapitori, il rapporto fra vittime e aguzzini, la difficoltà di creazione di un’utopia che non si risolva in un inferno per gli altri. E la scrittura di Butler indaga queste situazioni (che sono sempre situazioni narrative, non diventano mai pretesti per esporre una tesi o per affidarsi al saggismo) operando, appunto, continue operazioni di straniamento volte a complicare le risposte possibili o a creare un orizzonte di esperienza impossibile e che tuttavia ristruttura le abituali percezioni sugli eventi, indagando e ristrutturando i ruoli di genere, le conseguenze delle condizioni economiche, lo sfondo razziale, gli effetti della tecnologia, lo sfruttamento dell’ambiente, la distruzione del proprio ambiente e la colonizzazione di un altro: è il caso, per esempio, di Figlio di sangue, il bellissimo racconto che apre la raccolta, e che sposta, anzi impone, l’esperienza dello sfruttamento riproduttivo, dello stupro, della gravidanza e del parto sul protagonista maschile, attraverso soprattutto il dialogo fra questo protagonista-narratore e T’Gatoi, l’alieno con 7 zampe che è costretto a deporre le proprie uova nel corpo degli uomini per assicurare la sopravvivenza della propria specie.

Oppure la modalità di descrizione e percezione del corpo stesso degli esseri umani: è questo, infatti, a essere fuori posto, strano, misterioso – anche quando diventa l’unica forma di comunicazione, in Fonemi, poiché l’umanità ha perso il linguaggio verbale. E questo anti-antropocentrismo del corpo prende forma – ed è la cosa più interessante – attraverso i racconti dei narratori-protagonisti umani e che tuttavia, nel loro linguaggio, nel loro sguardo, talvolta si fanno vettori dello sguardo e del linguaggio alieno.

Si tratta di un ribaltamento dell’antropocentrismo che pure, tuttavia, non prende mai la forma della pura distopia: se il mondo utopico, come mostra l’ultimo racconto, Il libro di Martha, non è totalmente immaginabile per Butler, allo stesso modo non lo è nemmeno la distopia inesorabile, dai contorni netti: attraverso i continui dialoghi dei personaggi (che sono, accanto allo straniamento, l’altra modalità retorica tipica di questa scrittura), è piuttosto lo sfumato a dare forma ai mondi immaginati, la complessità della relazione con l’altro e la realtà.

Ma a tenere insieme le parti di questo libro, oltre a queste precise strategie retoriche, stanno anche una serie di motivi che tornano in forme variate all’interno dei testi: la questione della genitorialità (spesso i personaggi sono orfani o hanno dei rapporti molto difficili con i genitori); il lavoro, o molto più spesso la mancanza di lavoro, la povertà, il succedersi di “impieghi idioti e massacranti” che distruggono la vita; la colonizzazione di uno spazio nuovo (sia da parte degli esseri umani che da parte degli alieni); la malattia (spesso collegata all’eredità genetica e che si risolve talvolta in una riflessione sul libero arbitrio e sulla responsabilità individuale); la difficoltà di comunicazione, il fallimento dei linguaggi convenzionali e la necessità di inventarne, immaginarne di nuovi.

 

Libri consigliati