“Altro che punk. Temo di essere un vecchio conservatore…”. Ironizza Gipi, all’anagrafe Gian Alfonso Pacinotti, che torna con “Stacy” (graphic novel che parte da un’esperienza autobiografica: “I motivi per cui ho iniziato a scrivere questa storia erano brutti, legati all’ondata di critiche su una striscia che avevo pubblicato sui social nel 2021. Poi per fortuna le cose sono cambiate…”), e che per l’occasione si racconta a tutto campo con ilLibraio.it. Dalla concezione dell’arte (“Non deve pretendere di essere educativa o funzionale alla crescita della società. Deve facilitare la comprensione sì, ma dell’animo umano”), all’impatto dei social network (“Mi piacerebbe avere una macchina del tempo e viaggiare nel futuro di cinquant’anni per vedere con in miei occhi dove arriveremo. Il famoso ‘Dai loro frutti li riconoscerete’ del Vangelo di Matteo applicato ai social, dove c’è chi si sente in dovere di giudicare e commentare qualunque cosa”), passando per il fumetto contemporaneo (“Mi sembra che ci sia un approccio ideologico su gran parte dei lavori che vengono pubblicati, indipendentemente dalla qualità artistica in sé. Ho l’impressione che, semplicemente, siano utili a una o l’altra ideologia e non credo che sia quello il mestiere di chi racconta storie”). L’artista parla, tra le altre cose, dei ragazzi del campo rom di Pomezia a cui negli ultimi anni sta dedicando molto del suo tempo (“Mi hanno fatto capire che c’è un modo migliore di stare al mondo ed è provando ad aiutare qualcuno che ci è vicino”) e di serialità televisiva (“Danno allo spettatore esattamente quello che credono che voglia, senza disturbarlo, senza scuoterlo mai, anzi coccolandolo”) – L’intervista

Ci sono Stacy, una giovane rapita, narcotizzata e portata su un furgone bianco nella stanza sotterranea di un capannone in disuso vicino a Pomezia. E c’è Lady Sara, l’eroina progressista mulatta della nuova serie tv di una nota piattaforma, scritta in un open space del Pigneto, il cui autore è fan sfegatato di Temptation Island.

Ci sono la ferocia, lo sprofondare nell’abisso dei demoni interiori e il sarcasmo nei confronti di un mercato di storie sottoposto sempre più a dinamiche senza senso. In mezzo lui, Gianni. Uno sceneggiatore di successo, all’apice della carriera che in un’intervista tv si lascia scappare di aver sognato di rapire una ragazza e di torturarla. E la definisce “burrosa”. Ne segue un’ondata di indignazione sui social network. Colleghi e amici prendono le distanze, il pubblico si divide. Una gogna mediatica e professionale che lo costringe a mettere in discussione tutta la sua esistenza.

Parte da un’esperienza autobiografica, Gipi, all’anagrafe Gian Alfonso Pacinotti, nella sua nuova graphic novel, Stacy appena pubblicata da Coconino Press – Fandango.

Il fumettista 59enne pluripremiato con successi come LMVDM, Unastoria (il primo libro a fumetti ad entrare tra i dodici finalisti del Premio Strega) e La terra dei figli, si concede in questa intervista a ilLibraio.it (realizzata prima che scoppiasse la polemica sul patrocinio dell’ambasciata israeliana a Lucca Comics, e su cui l’artista – che sarà alla rassegna toscana – preferisce non intervenire, nda). Siamo entrati, anche se solo virtualmente, nella sua casa e nel suo mondo. In cui sono le storie, comprese quelle dei ragazzi del campo rom di Pomezia, ad averlo salvato.

Stacy Gipi

Intanto che bello vedere tutti questi strumenti musicali alle tue spalle.
“Ora non sono nemmeno tanti. Ho un po’ la mania. Tutti i soldi che guadagno, li spendo in musica. Musica che non so fare”.

“La musica è una di quelle espressioni in cui non ho il timore di essere giudicato”, hai detto in un incontro a Milano. E nel resto?
“Tutte le cose che ho fatto in campo artistico le reputo abbastanza pulite. In passato non mi piaceva quel lato del mio carattere alla ricerca di approvazione. Per fortuna i libri vengono meglio di come sono io nella realtà”.

E oggi ricerchi l’approvazione?
“Non ho mai scritto o disegnato una riga scientemente per l’approvazione di qualcuno. L’ho fatto perché è la mia passione. È un senso di libertà identico a quando da adolescente facevo musica punk inascoltabile”.

Cosa è cambiato?
“L’unica differenza è che ho sviluppato una competenza in quello che faccio. A volte, quando inizio una storia è come se in sottofondo sentissi un gigantesco ‘Vaffanculo’ a tutto ciò che sta intorno, come se dovessi sempre strappare un legame, pensare che non devo niente a nessuno”.

Hai definito Stacy, il tuo ultimo lavoro, “un libro cattivo che nasce dalla rabbia e poi però, forse, diventa quasi delicato”.
“Perché è come sono andate le cose. I motivi per cui ho iniziato a scrivere questa storia erano brutti, legati all’ondata di critiche su una striscia che avevo pubblicato sui social nel 2021. Poi per fortuna poi le cose sono cambiate”.

In che modo?
“Raccontare storie è la parte migliore di me. Succedono cose buone e i personaggi prendono il sopravvento. Così anche la rabbia e i brutti sentimenti che erano all’origine, si sono affievoliti. Ed è venuta fuori quella che chiamo la parte più tenera”.

Quale in particolare?
“Il momento in cui il protagonista si rende conto che il suo demone è nato in un momento preciso, frutto di scelte ed errori precisi. È stato toccante da mettere sulla pagina”.

È il momento in cui il protagonista Gianni decide di aprire una parte molto privata di sé, cedendola in pasto a un conduttore tv.
“È così. È un po’ la risposta ai miei mediocri tormenti, che è arrivata mentre scrivevo. La storia ha un’origine autobiografica. Le vicende sono tutte modificate e diverse. Però a un certo punto mi sono trovato anch’io a chiedermi, come il protagonista, perché abbia sofferto così tanto per una cosa così piccola”.

La faccenda delle tre parole. E che risposta ti sei dato?
“Secondo me soffri così tanto quando hai improntato parte della tua vita alla ricerca dell’approvazione altrui. In passato, come dicevo, l’ho fatto, non in modo consapevole o strategico, quanto per difetti di carattere. Quando poi, crescendo e invecchiando, me ne sono reso conto, mi sono sentito a disagio”.

In Stacy intrecci vari generi tra lo script della serie tv su Lady Sara, i dialoghi tra Gianni e i colleghi sceneggiatori e quelli con il suo demone. Era la tua volontà fin dall’inizio?
“Il libro è nato come uno sfogo, non c’è stata nessuna programmazione. Per molti mesi non ero neppure sicuro che fosse leggibile. I sentimenti che di solito utilizzo sono nostalgia, melanconia, amicizia o amore per qualcosa. Qui le fondamenta erano il risentimento e la collera. La mia condizione psicologica era di confusione assoluta in quel periodo, non avevo la più pallida idea di come orientare la mia vita”.

Questa è la stanza Gipi

Allora che hai fatto?
“Ho pensato di dare la stessa confusione al protagonista di modo che quella specie di vortice di pensieri continui che avevo in testa diventassero il suo delirio da maniaco, da serial killer. Non sappiamo se Gianni è un rapitore di ragazze inconsapevoli alla fermata del bus oppure no”.

Poi cosa è successo?
“La cosa buffa è che il libro mi è sembrato autentico. Nei mesi mi sono calmato, le cose si sono aggiustate e questo avviene anche nella storia. Sebbene alcuni strappi siano difficili da ricucire. Forse nella mia realtà il borsone pieno di esplosivo è scoppiato, ma senza fare vittime”.

Non è un caso che tu abbia dichiarato: “I fumetti sono nati come qualcosa di anarchico. Adesso assomigliano di più a dei breviari del prete”.
“Mi sembra che ci sia un approccio ideologico su gran parte dei lavori che vengono pubblicati, indipendentemente dalla qualità artistica in sé. Ho l’impressione che, semplicemente, siano utili a una o l’altra ideologia e non credo che sia quello il mestiere di chi racconta storie. O meglio, sì se sei in Corea del Nord e scrivi una canzone per lodare Kim Jong Un. Oppure in Russia quando bravissimi pittori davano vita al realismo socialista: superbi tecnicamente, ma quella pittura per me vale poco”.

Quale deve essere il compito dell’arte secondo Gipi?
“La mia passione per l’arte è quando non pretende di essere educativa o funzionale alla crescita della società. Deve facilitare la comprensione sì, ma dell’animo umano, non degli eventi contemporanei. Ci sono altre attività umane che fanno meglio quella cosa. L’arte, per come la vedo io, è un salto nel buio continuo, un farsi male e fare anche male a chi ti legge”.

“Parlo di questi mediocri maledetti rivoluzionari aspiranti assessori e del loro batticuore nei corridoi delle case editrici. Parlo dei loro maledetti Tedx, della cura che hanno per i propri account” scrivi in Stacy.
“Lì devo essere sincero, mi è uscito un po’ di veleno. Ho sempre fatto libri sulle cose che ho visto, anche quando le storie erano ambientate nel Medioevo o in un futuro fantascientifico. I comportamenti dei personaggi erano quasi sempre cose che ho visto accadere, anche perché non ho grande fantasia. Però penso di essere abbastanza capace di fissare i comportamenti delle persone e poi di vestirli addosso ai personaggi, quando serve”.

Dal punto di vista dei tratti del fumetto, che cosa hai voluto comunicare?
“Volevo ci fossero due modelli di narrazione: uno che riguardava la parte onirica, di delirio del protagonista con la presenza di un demone, progettazioni di stragi multiple e così via. E volevo che per il lettore fosse di facile fruizione e abbastanza luminosa. Invece la realtà, con le parti che riguardano la vita degli sceneggiatori, i rapporti tra Gianni e Lalla volevo che risultassero soffocanti e quindi ho scelto di adottare la gabbia, così si chiama nel gergo del fumetto, ovvero una pagina divisa in vignette, senza alcuno spazio bianco. È una cosa che non si fa, perché lo spazio bianco è molto importante per dividere le scene e per dare respiro. Io invece volevo levare il respiro con queste pagine così fitte e così compresse”.

Una storia. Gipi

Il protagonista Gianni non ha un buon rapporto con le interviste e con le domande che tendono ad essere sempre un po’ le stesse. A te cosa non hanno mai chiesto di cui avresti voluto parlare?
“Mi sarebbe piaciuto parlare di più di forma, di inquadrature. Di tagli di ritmo e di scelte di posizionamento nello spazio dei personaggi, di balloon e di dimensioni delle parole, di modo in cui le scene vengono affiancate l’una all’altra. Perché quella è la parte che io amo di più del mio lavoro. Vorrei ci fosse una maggiore attenzione a quella roba lì. Invece pare che le parole siano sempre più importanti”.

“Le parole sono importanti” sentenziava Moretti in Palombella Rossa. Moretti che nel Sol dell’avvenire sembra pensarla come te a proposito delle piattaforme di streaming.
“Credo che quell’affermazione di Moretti adesso non sia più così valida. A parte quello, non ho nulla contro le piattaforme. Producono spesso cose inguardabili ma, da quanto ho capito, stanno pagando questa loro scelta di titillare sempre lo spettatore, dandogli esattamente quello che credono che voglia, senza disturbarlo, senza scuoterlo mai, anzi coccolandolo”.

Per quale motivo?
“Perché, per funzionare, da Omero in poi le storie hanno bisogno di alcune caratteristiche. Una di queste è che il tuo personaggio principale si trasformi. Invece hanno cominciato a produrre film e serie in cui, soprattutto le protagoniste femminili, entrano nella prima inquadratura e sono già perfette, potentissime, fortissime, senza mancanze né necessità di fare un percorso di crescita. Il mondo delle storie è quello dove possiamo far accadere quello che non faremmo mai nella vita reale. Sfruttiamolo”.

Tu il mondo del cinema lo hai frequentato, hai girato due film presentati anche a Venezia. C’è qualche progetto in cantiere?
“No, no. Ho fatto dei film, ma tutti piuttosto storti, fallimentari in termini economici, per cui non credo ci siano pazzi in giro disposti a finanziarmi. Peccato perché è stato veramente bellissimo. È un modo di stare al mondo straordinario fare cinema: la preparazione, il set, il montaggio sono tutte fasi che ho adorato. Se un libro esiste o no dipende solo dalla mia volontà. Nel cinema non è così”.

Questa estate hai però girato il videoclip del singolo Severodonetsk di Manuel Agnelli in cui hai coinvolto i ragazzi del campo rom di Pomezia.
“Loro sono stati fondamentali per me. Mi hanno fatto capire che c’è un modo migliore di stare al mondo, ed è provando ad aiutare qualcuno che ci è vicino. E uso il termine vicino non a caso. Noto che c’è grande interesse in popolazioni lontane associato a grande trascuratezza verso i parenti più prossimi. Spendere un po’ del proprio tempo per occuparsi di qualcun altro per migliorare anche di poco la sua vita è una cosa che consiglierei a chiunque. E lo dico in maniera egoistica”.

Il mondo moderno Gipi

Hai pensato di scrivere di loro e della squadra di calcio a 5 del Real Zigan?
“Da sempre uso gli altri per raccontare storie. Ho scritto libri usando tutta la mia famiglia, ex fidanzate, amici, qualunque cosa. Cerco, però, di essere rispettoso nel farlo. È la mia forma di capire il mondo. È vero che questi ragazzi sono quasi invisibili, se non per il disprezzo che spesso li accompagna. Quando ho parlato della scuola calcio nelle interviste, si passavano tutti i link perché c’era il loro nome. Finire sul giornale per qualcosa di bello significa per loro esistere ed essere qualcuno”.

Ne scriverai quindi?
“La quantità di materiale che forniscono quotidianamente è infinita e si alimenta di continuo. Ho promesso ai ragazzi che un giorno racconterò la loro storia, però prima deve esserci un lieto fine nella loro esistenza. Prima devono arrivare agli obiettivi che ci siamo prefissati: la licenza media, la patente di guida, tutti i documenti in regola e almeno la domanda per la casa popolare. Dopodiché forse potrò scrivere di loro, perché a quel punto, se c’è stato il lieto fine nella realtà, posso anche farli morire nella fantasia”.

In Stacy Gianni ha una vera ossessione per Temptation Island. E Gipi?
“La gente pensa sia trash, io lo chiamerei straordinario spettacolo d’intrattenimento intriso di sadismo. I concorrenti, non essendo costretti a partecipare, vedono nella trasmissione un’opportunità. Non sono consapevoli che stanno offrendo la loro testa all’opinione pubblica, che è un vero e proprio patibolo”.

Eppure, ti diverte.
“Sì, come mi diverte guardare un altro programma di questo genere, Primo appuntamento. Sono trasmissioni che hanno in comune la caratteristica di prendere il sentimento più importante, su cui l’uomo non trova una risposta dalla notte dei tempi, ovvero, l’amore. E lo fanno a brandelli”.

E poi si aggiungono i social network.
“Mi piacerebbe avere una macchina del tempo e viaggiare nel futuro di cinquant’anni per vedere con in miei occhi dove arriveremo. Il famoso ‘Dai loro frutti li riconoscerete’ del Vangelo di Matteo applicato ai social network, dove c’è chi si sente in dovere di giudicare e commentare qualunque cosa. Sarei molto curioso di capire quale sarà il futuro di queste cose”.

Momenti straordinari con applausi finti Gipi

Che rapporto hai col tempo che passa?
“Io mi regolo al 1200. In quell’epoca in pochi arrivavano alla mia età (59 anni, ndr). Anche se la società contemporanea mi impone di essere un eterno adolescente e di ascoltare quattordicenni su YouTube che mi dicono come dovrei vivere. Ridurre gli adulti a degli scemotti spensierati confonde i giovani, che invece desiderano avere una guida seria e autorevole. Qualcuno che sappia parlare il loro linguaggio senza banalizzarlo”.

Un esempio?
“Un modo di dire dei ragazzi, quando colpisci nel segno, è ‘Mio padre’. A me è stato detto e mi ha lusingato (poi mi sono messo anche nei panni del vero padre che giustamente potrebbe non essere d’accordo). Ma questo ti apre un mondo. Chi ti dice ‘Sei mio padre’ ha fame di una figura autorevole. Credo che i ragazzi apprezzino molto di più un adulto sincero che magari dimostri il suo vero carattere, che non quel fare ruffianesco che tendiamo a adottare per sembrare più vicini a loro. Altro che punk. Temo di essere un vecchio conservatore, è evidente”.

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