“Sì, sono una persona nostalgica… oggi è tutto molto più violento, folle”. Carlo Verdone si racconta a tutto campo intervistato per ilLibraio.it da Ilaria Gaspari, che l’ha incontrato nella sua casa romana. L’amatissimo regista, attore e autore ricorda la sua infanzia e parla del suo rapporto con il cinema, dei suoi film, della genesi dei suoi personaggi, dei grandi incontri (compreso quello con Yōko Ono), di Roma (“tutti si riempiono la bocca, ma poi la trattano malissimo… è una città che dovrebbe prima di tutto essere amata”), della serie “Vita da Carlo”. Ma anche dei suoi libri (“Penso che la svolta, a livello di stima personale da parte del pubblico, sia arrivata proprio con il libro…”), del rapporto con la fede e con la filosofia: “Grazie a Lucio Anneo Seneca mi sono avvicinato alla storia della filosofia antica, che avevo fatto molto male a scuola… per la mia grande fragilità, in certi frangenti della vita, autori come Seneca e come Epicuro mi hanno dato come un’illuminazione su come procedere”

Incontro Carlo Verdone nel suo appartamento di Roma, in un giorno di cielo grigio. Dalla finestra mi mostra la casa in cui è cresciuto, quella de La casa sopra i portici, il suo libro del 2012, il primo di due memoir (il secondo, La carezza della memoria, è uscito pochi mesi fa, e sempre per Bompiani) in cui Verdone offre i suoi ricordi a un pubblico che ha l’impressione di conoscerlo da sempre.

Ha girato moltissimo all’estero (“ho fatto Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Turchia, Tunisia, Marocco, Germania – Monaco di Baviera con Amitrano in Bianco Rosso e Verdone – e poi la Francia, la Cornovaglia… e che altro? ah sì, il Belgio, per Sono pazzo di Iris Blond… e per fare una commedia in Belgio, ce ne vuole!”), ma è probabilmente l’attore e regista più amato d’Italia, certo il più amato a Roma, la città di cui gli hanno persino chiesto di diventare sindaco (“sì sì, io ero seduto qua e loro erano seduti là”); lui però, a differenza del suo personaggio nella serie Vita da Carlo, saggiamente ha rifiutato (“non è il mio mestiere, i problemi di questa città sono enormi e c’è un concorso di colpe; tutti si riempiono la bocca di Roma ma poi la trattano malissimo: è una città che dovrebbe prima di tutto essere amata”).

libro carlo verdone

Lei è una persona nostalgica?
“Sì, lo sono. Credo di essere nato nell’anno giusto per me, il 1950, con un piede nel bianco e nero e un piede nelle prime immagini a colori, un po’ sbiadite. E ho vissuto un’infanzia e un’adolescenza in una famiglia speciale. Quindi dentro di me c’è sempre una sorta di ringraziamento ai miei genitori, ma anche al tempo che ho attraversato, soprattutto gli anni ’60, che per me sono stati meravigliosi. Oggi è tutto molto più violento, molto folle. Per tutta la mia infanzia, invece, e fino ai primi anni ’70, ho vissuto proprio bene; ho osservato, ho guardato, mi sono appassionato alla vita, alla gente, alla cultura. La mia prima tessera per il Filmstudio, nel 1967, me la regalò mio padre. E lì ho cominciato a farmi una cultura cinematografica, in questo cineclub che poi era una serranda che si apriva… a Trastevere, vicino al carcere”.

E ci andava da solo?
“Ma no! Cioè, qualche volta sì, ma in genere c’era sempre qualche amico. Era un momento di condivisione. Lì mi sono fatto una bella cultura, prima sul cinema underground, che loro presentavano a un pubblico romano che non ne sapeva niente… poi si sono spostati sulle rassegne monografiche dei classici: Orson Welles, Fellini, Pasolini, René Clair e compagnia bella…”.

I suoi preferiti?
“A me piaceva molto la sperimentazione, vidi alcune cose di Andy Warhol che erano veramente strane… solo quando ho conosciuto la sua pittura ho cominciato a capire che cosa intendesse fare con quei filmati così assurdi, anarchici. Yoko Ono, poi, era bravissima. Faceva dei film sperimentali, stimolò John Lennon a farne uno. Me lo ricordo ancora per come mi colpì: c’era solo la macchina da presa che inquadrava un villaggio completamente bianco sotto la neve, non c’era un’anima, dava quasi fastidio agli occhi. A un certo punto l’immagine si alza e si capisce che c’è qualcosa che la sta tirando su: era una mongolfiera. Dura venti minuti, questa mongolfiera che si alza, tutto diventa bianco, e noi in religioso silenzio, perché all’epoca al cinema si stava molto attenti, anche a vedere il nulla. Dopo venti minuti vediamo come dei batuffoli d’ovatta… la mongolfiera aveva superato le nuvole. Mi piacevano anche altri autori: pittori, Schifano ad esempio, e Luca Patella, Grifi con La verifica incerta, il Living Theatre di Julian Beck. E quando dalla sperimentazione passarono a fare un cineclub di memoria storica, per me fu molto importante. Quando ho visto per la prima volta Fellini – Lo sceicco bianco, poi I vitelloni, poi La dolce vita – mi pareva il più grande del mondo e lo penso ancora, soprattutto dei suoi film in bianco e nero. Mi sono innamorato del cinema così. Allora comprai da Isabella Rossellini una cinepresa in Superotto, per fare anch’io delle cose sperimentali”.

La casa sopra i portici, Carlo Verdone

Quanti anni aveva?
“Diciannove. E purtroppo, tre mediometraggi che avevo fatto, sperimentali, che non hanno niente a che vedere con quello che ho fatto poi, sono stati persi dalla Rai”.

Non esistono copie?
“Esiste di qualche filmato qualche frammento, poche decine di secondi, niente di più… un danno incredibile. Ma quando morirò, sono convinto, usciranno fuori i film interi”.

Nella serie Vita da Carlo c’è la storia di un regista di grande successo che però vuole fare “il film d’autore”…
“Sì, mi sono preso molto in giro. Ho calcato su questo tema per mettere un tormento all’interno della serie, ma in realtà io non sento affatto il bisogno di fare ‘il film d’autore’: perché per esempio già Un sacco bello è un piccolo film d’autore. Compagni di scuola è una commedia d’autore, come anche Al lupo al lupo, Maledetto il giorno che t’ho incontrato pure. Lo stesso Viaggi di nozze… poi ognuno lo può vedere come vuole”.

Carlo Verdone nella foto di Claudio Porcarelli

Carlo Verdone nella foto di Claudio Porcarelli

Ma in Italia, secondo lei, è diffusa l’idea (a mio parere sbagliata) che la commedia sia qualcosa di secondario?
“Sì, è vero, c’è questa idea. E io posso convenire solo su una cosa: sul fatto che molte commedie non sono belle, non sono ben scritte… Io dal canto mio cerco di fare il mio lavoro al meglio, e mi sento appagato. Non esiste l’unanimità e non la pretendo, ma se oggi mi trovo dove sono, con tanto affetto da parte della gente, lo devo al fatto che ho lavorato in maniera molto dura, però anche molto sincera. Non mi sono mai sentito arrivato, ho sempre sentito che l’inizio di un film voleva dire ricominciare tutto da capo. Per me fare questa serie è stato veramente delicato: una cosa del genere la può fare solo uno che ha la mia età, uno che ha vissuto, che ha avuto con l’umanità, com’è successo a me, dei contatti molto intensi, anche un po’ esagerati… che poi, qualcosa l’ho gonfiata nella serie, ma mica tanto, la maggior parte sono storie vere. Perché sono in fondo un generoso, e penso sempre: e vabbè, io pure ho chiesto l’autografo ai Led Zeppelin, io pure ho rotto i coglioni a Yoko Ono per avere quel quadro…”.

Quel quadro lì [l’avevo notato, entrando, alla parete]?
“Eh sì, quello, l’ha dipinto il giorno dopo la morte di John Lennon. Sono le parole di Imagine disarticolate dalle nuvole”.

E com’è andata?
“Stefania Miscetti, una gallerista molto amica di Yoko Ono, fece un’esposizione di sue opere e quando vidi quel quadro glielo chiesi subito… mi disse no, quello non è in vendita, è una cosa troppo importante per lei. Così io le ho scritto: che ero cresciuto con la musica di Lennon, che l’avrei conservato con tutta la cura, che sarebbe stato sempre con me… e insomma, dopo quattro anni e non so quante lettere ci sono riuscito. Sono riuscito anche a chiacchierare un po’ con lei”.

E com’è?
“Molto intelligente. Può darsi che abbia un carattere terribile, però con me è stata molto carina. Abbiamo parlato molto di Double Fantasy, l’ultimo disco di Lennon, che fece con lei. C’era anche mio figlio, era parecchio emozionato. Gliel’ho presentato, le ho detto che è un bravo bluesman… è finita che l’ha preso sottobraccio e hanno cominciato a chiacchierare e camminare insieme, io da dietro gli ho fatto una fotografia, lui alto, lei piccolina, lungo via delle Mantellate”.

Ma torniamo alla generosità. E alla sua celebrità, abbastanza unica in Italia.
“Penso che abbia a che fare con due fattori. Il primo è che ho fatto delle commedie che hanno inquadrato molto bene il periodo che raccontavo. Per esempio, Borotalco racconta bene gli anni ‘80, come anche Acqua e sapone… rivedendoli alla televisione tante e tante volte, perché vengono trasmessi ancora, uno scopre dei dettagli, delle cosette, una piccola battuta detta in lontananza. E insomma, sono proprio la radiografia di un certo periodo. Ma penso che la svolta, a livello di stima personale, sia arrivata col libro: molti hanno iniziato a guardarmi in una prospettiva un po’ diversa. Ho fatto molti incontri, spesso incontro gli studenti, anche per avere il polso della situazione, perché io ho la mia età, e voglio capirli… Una volta mi invitarono all’Università di Trieste, gli studenti di Lettere volevano fare un incontro con me. Mi dissero: saranno trecento. Arrivato a Trieste mi dicono: domani non saranno trecento, saranno milleduecento. Mi sono trovato di fronte un’aula impressionante… è finita che ho fatto una specie di spettacolo, una performance. È stato bellissimo. Faccio continuamente incontri, da Sud a Nord, ovunque, e non mi preparo mai niente, vado a braccio”.

Le capita di essere sopraffatto da questa generosità?
“Eh sì, il momento peggiore è quando devo fare la promozione per un film in uscita. E lì, vai a Milano, vai a Padova, presenta il film in sala… è molto faticoso, sia la promozione in sé sia il fatto che non riesco mai a vedere le città. Andare in giro è impossibile, c’è sempre qualcuno che vuole il selfie, non riesco a vedere niente, a ogni metro mi fermano. È una cosa bella, il segno di un grande amore, ma allo stesso tempo mi sento profondamente solo. E quindi cosa ricordo di queste città? L’albergo. Non è facile, devi essere molto robusto”.

Mi sembra una persona saggia. È una saggezza acquisita o fa parte del suo carattere?
“Acquisita, acquisita. Da giovane ero molto pieno di entusiasmo, ero una persona buona… Facevo ridere gli amici con le imitazioni e tutte quelle cose lì, ma c’era anche una profonda timidezza in me. Passavo molto tempo da solo. Io non ho mai sofferto la solitudine, ascoltavo la musica, o scrivevo, o leggevo… Non ho mai sentito il bisogno di circondarmi di amici: cioè, li avevo, li ho, ma quando sono solo non cambia niente. Sono in compagnia di me stesso, una buona compagnia. Certo, saggezza è una parola grossa. C’è un autore a cui devo molto. Si chiama Lucio Anneo Seneca. Non ho letto le sue tragedie, quelle non mi interessano, ma La tranquillità dell’animo, le Lettere a Lucilio, le Opere morali… quell’uomo per me è stato una sorta di insegnante, anche se è morto tantissimi anni fa. Grazie a lui, quando mi sono state regalate le Lettere a Lucilio da mia madre, mi sono avvicinato alla storia della filosofia antica, che avevo fatto molto male a scuola, perché a scuola io studiavo per la scuola, non per la vita, e invece dovrebbe essere il contrario. Anche se, ecco, fino al suicidio non lo seguirei… non sono così stoico”.

Trova che Seneca sia un buon rimedio contro l’ansia?
“Sì, funziona bene, però ci vuole tempo per assimilarlo. È una cura a lento rilascio… devi leggerlo, rileggerlo. Per la mia grande fragilità, in certi frangenti della vita, scrittori come lui, come Epicuro, mi hanno dato come un’illuminazione su come procedere. Questo lavoro che faccio io non è un lavoro per tutti, è un lavoro in cui devi essere lucido, freddo, però anche umano. E calmo: se non sei calmo non puoi far niente di buono. Ci vuole molta tranquillità e grande entusiasmo, bisogna stare molto attenti a tutti i fattori depressivi anche minimi. Se subentra un periodo di tormenti, è meglio non scrivere niente, perché scriverai cose sbagliate, scadenti”.

È una persona religiosa?
“Più passa il tempo e più lo sono, anche se i dubbi mi assalgono. Ma mi impongo di esserlo. Sposo il detto nihil ex nihilo, nulla deriva dal nulla, nulla si estingue ma tutto si decompone per ricomporsi. Del resto, lo dice anche Lucio”.

… Seneca?
“Sì. Anche gli stoici hanno una loro spiritualità”.

Com’è nata la scena del cimitero in Bianco Rosso e Verdone, quella in cui Mimmo e la nonna, stanchi di cercare un nome che non ricordano, mettono fiori su tutte le tombe che non ne hanno?
“Mia madre era una persona molto devota, religiosa e apertissima. Una volta al mese mi chiedeva di accompagnarla al Verano a portare i fiori ai suoi genitori, e per me era un rituale molto bello perché il cimitero non mi ha mai fatto paura, l’ho sempre visto come un luogo di grande pace, di raccoglimento. Con mia mamma era tutto bello, perché mi parlava delle tombe antiche, mi raccontava chi era quella famiglia, chi era stato quel bambino, sapeva tante cose: magari erano persone che aveva conosciuto o di cui aveva sentito parlare. Qualche volta è capitato che i fiori che avevamo comprato fossero troppi. E a quel punto mamma mi diceva: mettili sulle tombe dove vedi che non ce ne sono. E quindi nel film partii da questa cosa qua”.

Elena Fabrizi, la sora Lella, in quel film ma anche in Acqua e sapone interpreta la sua nonna, con una tenerezza e un realismo impressionanti. Che rapporto avevate?
“Lei era un simbolo vivente di Roma. Io ero davvero molto felice di poter lavorare con lei, perché era l’ultima espressione di un buonsenso popolare tipicamente romano: una donna spiritosa e profondamente intelligente. Una donna sorniona, una che guardava e che capiva tutto. Lei veniva dalla povertà, aveva fatto la venditrice di verdura al mercato di Campo de’ Fiori, aveva un fratello importante, ingombrante… E la cosa incredibile oggi è questa: Aldo Fabrizi è stato un attore gigantesco, ma i giovani lo conoscono molto poco, a parte quelli che amano il cinema; e però conoscono tutti la sora Lella. Eppure il fratello ha fatto delle cose molto più importanti… il fatto è che la sora Lella è la nonna che tutti avrebbero voluto avere, e rappresenta una Roma buona, una Roma autentica, sincera… lo spirito del Belli c’era, in lei. E quindi, siccome il tempo è cambiato, tutti quando la guardano pensano: ma perché io non c’ho avuto una nonna così? È perché non esiste più – le persone così non esistono più”.

Una cosa che mi colpisce dei suoi personaggi, è che si capisce benissimo che vengono dall’osservazione dal vivo. Per esempio: il cugino Anselmo di Un sacco bello, chi era?
“Ah! il cugino Anselmo viene proprio dal vero. Una mia cara amica era corteggiata da un tizio… però era molto scettica, perché, diceva, era un tipo un po’ troppo all’antica. Allora mi dice, fammi una cortesia, vieni oggi a casa, che questo viene alle cinque, così mi dai un giudizio… Siccome cucinava molto bene, io, che avrò avuto venticinque anni, le dico certo, vengo e poi ceniamo insieme. Arriva questo, col cappelletto da tirolese con la penna, la radio estraibile – all’epoca c’era l’autoradio che estraevi per non fartela rubare – e con una scatola di cioccolatini. La prima cosa che dice è [con voce acuta del cugino Anselmo]: ‘Ti chiedo scusa per il traffico, scusame tanto, scusame tanto, è che purtroppo c’è un traffico spaventoso… poi dicono che c’è crisi, ma ‘ndo sta ‘sta crisi io non l’ho capito. Tieni, questi sono per te, per addolcirti la bocca’ – e sono usciti i Baci Perugina. A quel punto mi sono messo a ridere, lui si levava il cappotto e io le facevo, da dietro: [grandi gesti di diniego] ma che ce fai con questo? Però la sua voce mi è rimasta dentro… la voce di questi ragionamenti di un qualunquismo senza limiti”.

Carlo Verdone e Margherita Buy

Carlo Verdone e Margherita Buy

Ci sono tanti Carlo Verdone impressi su pellicola. Le piace rivedersi, ritrovare il ragazzo e il giovane uomo che è stato?
“Ah! Io non riguardo mai i miei film, ci dev’essere una persona a casa che mi implora di guardarli insieme… a quel punto lo faccio. Però che cosa succede? Succede che rivedo il film, riscopro alcune cose, ne apprezzo altre… ma comincio anche a criticarmi, a dire oggi non farei più così, non direi più quella cosa, ah, quel gesto era di troppo, non lo dovevo fare, dovevo stare più fermo… è una critica continua”.

È molto perfezionista?
“Sto attento alle sbrodolature”.

Qual è il film della cui lavorazione hai il ricordo più bello?
“[Lungo silenzio] Il film che è stato più gratificante, per quanto riguarda il rapporto con gli altri attori, è stato Compagni di scuola. Non c’è stata mai una lite, mai un’invidia, mai una competizione, perché erano tutti controllati, anzi protetti, da me; li ho incitati a fare il meglio. Quando ho finito, non mi rendevo conto di come fosse venuto. Dovevo aspettare il montaggio finale: non sapevo se il film era troppo chiacchierato, se era noioso… oltretutto avevo delegato agli altri il compito di far ridere: De Sica, il macellaio. Allora dissi a una mia amica, vuoi venire a vedere la stampa numero zero? Magari, mi fa lei, e viene alla Technicolor, vede il film e alla fine mi dice: tu ti sei reso conto di quello che hai fatto? Io faccio: No, ti ho chiamata apposta. E lei: Mamma mia. Pensi sia triste?, le ho chiesto. E lei: No, no, è un film meraviglioso, è la vita. Ma come emozione, nel cuore ho Un sacco bello, perché è il mio primo film. Avevo ventotto anni ed era la prima volta che dirigevo una troupe, stavo in questa Roma che si vede nel film, d’estate…”.

Carlo Verdone e Renato Scarpa

Carlo Verdone e Renato Scarpa

L’estate di Un sacco bello è la persistenza di un mondo che sembra esistere anche per chi è nato dopo – o sbaglio? Io proprio la vedo così.
“Eh, in quanti mi dicono questa cosa! Che l’estate romana bella è quella lì, anzi, mi dicono: dovrebbe essere così, non com’è davvero! Quello è stato l’ultimo momento in cui c’era una poesia in questa città, e io l’ho fermata: ho filmato luoghi che amavo profondamente, via Garibaldi qua sotto, era tutto vicino a casa mia, luoghi a portata di mano, che ho frequentato, che hanno un significato enorme per me, e li ho messi quindi nel film. E poi ci sono le cicale. Allora le macchine erano talmente poche, visto che tutti andavano in vacanza, che si sentivano le cicale, l’acqua delle fontanelle, e qualche campana in lontananza. Suoni che sembrano appartenere a un altro tempo”.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, filosofa e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni.

 

Fotografia header: Carlo Verdone (Photo by Franco Origlia/Getty Images - 11 gennaio 2022)

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