A 200 dalla morte di Jane Austen. la raccolta “Una verità universalmente riconosciuta…” mette assieme i racconti di Stefania Bertola, Ginevra Bompiani, Beatrice Masini, Rossella Milone, Lidia Ravera e Bianca Pitzorno. Quest’ultima si fa ispirare da “Mansfield Park”: su ilLibraio.it un estratto dal suo inedito

A 200 anni dalla morte di Jane Austen, Astoria porta in libreria una raccolta di sei racconti affidata a sei scrittrici italiane: Una verità universalmente riconosciuta… raccoglie inediti di Stefania Bertola, Ginevra Bompiani, Beatrice Masini, Rossella Milone, Bianca Pitzorno e Lidia Ravera.

La curatrice della raccolta, Liliana Rampello, critica letteraria e autrice, non a caso, del libro Sei romanzi perfetti. Su Jane Austen (il Saggiatore 2014), ha scelto una frase da ciascuno dei sei romanzi austeniani e le ha affidate alle sei scrittrici, lasciandole libere di creare un racconto a partire da questo pretesto, per divertirsi e divertire e confermare ancora una volta l’attualità e la grandezza della Austen. Le frasi simboleggiano i temi che più caratterizzano la scrittura di Jane Austen, così da sottintendere un percorso di lettura da scrittrice a scrittrice.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice e dell’autrice, proponiamo un estratto dal racconto di Bianca Pitzorno, che sin dagli anni ’70 ha pubblicato moltissimi libri, principalmente di narrativa, per bambini e adulti. Il solo elemento costante nella sua scrittura è l’attenzione per i personaggi femminili, unici protagonisti dei suoi libri.

A lei è toccato Mansfield Park, dove la protagonista, adottata dagli zii ricchi, si abitua all’ordine e al benessere, e quando torna a casa per un breve periodo scopre solo miseria e sudiciume…

scrittrici per jane austen

“Mrs. Norris, (…) finì col palesare il desiderio di vedere la povera Mrs. Price completamente sollevata dal peso del mantenimento di uno dei suoi numerosissimi figlioli. “Non avrebbero potuto fra tutti loro provvedere alla figlia maggiore, una bambina di ormai nove anni, età che richiedeva maggior attenzione di quanta la sua povera madre potesse dedicarle?”

(da Mansfield Park)

                  Estratto da Figlie d’anima, di Bianca Pitzorno:

 

L’avevano portata giù dall’ovile dentro un cestino appeso al fianco d’un asino. Dall’altro fianco pendeva un cestino uguale, pieno di fichi, omaggio della famiglia d’origine a quella che l’avrebbe accolta. Aveva quattro anni ma ne dimostrava a malapena due. Occhi vigili e nerissimi, capelli neri e ispidi come piume di corvo, piedi che non avevano mai conosciuto le scarpe, non piangeva. Si guardava attorno con curiosità più che con diffidenza. Il padrone dell’asino la sollevò prendendola sotto le ascelle e la mise in piedi sul tavolo di cucina. –«Ve la consegno intera. Viva e in buona salute. »- disse al pescatore, ammiccando come per una battuta di spirito. L’altro assentì chinando la testa. La moglie del pescatore prese un fico dal cestino, lo sbucciò con le unghie e lo porse alla bambina. –«Mangia Michelì. Da oggi puoi mangiare tutto quello che vuoi.» Ne offrì un altro, senza sbucciarlo, alla moglie del dottore. –«Ha visto signora che bella figlia che ci siamo comprati? »

La moglie del dottore scoppiò a piangere e scappò nell’altra stanza, dove il marito aveva l’ambulatorio. –« Non è possibile!- singhiozzò- Che razza di paese è questo, che si vendono e comprano i bambini come animali? Va’ subito alla caserma dei carabinieri a denunciare tutti quanti.»

-« Non sono affari nostri.»- le disse il marito-  «Calmati. E comunque sto aspettando il maresciallo che deve farsi cambiare la medicazione al dito. Potrai parlarne con lui.»

Il medico condotto e sua moglie venivano dal continente.  Erano arrivati da circa un anno, freschi sposi, e avevano preso in affitto tre camere in casa dei Succu, la famiglia più benestante del piccolo paese sulla costa nordest della Sardegna. Lui padrone di barca e pescatore, lei gestiva nella stanza affacciata sulla strada una rivendita di ami, lenze, reti e palamiti, nasse per le aragoste, esche e altre cose necessarie alla pesca. Non c’era molto commercio perché a parte gli ami, tutto il resto i pescatori se lo facevano da soli, così Agostinangela Succu si era offerta di cucinare per i nuovi inquilini e di fare il bucato e le pulizie. La moglie del dottore era stata contenta di non aver dovuto cercare una domestica: lei quelli che a Milano chiamavano ‘i mestieri’ non era mai stata capace di farli. Era cresciuta in una famiglia ricca di Lodi; aveva studiato da maestra, ma solo per l’eventualità di restare vedova senza un marito che la mantenesse. Si chiamava Elvira. Laureti il nome di famiglia. Dopo il matrimonio Elvira Frigerio.

Non avrebbe mai pensato Elvira che il giovane e distinto medico che l’aveva corteggiata e che lei aveva accettato di sposare sarebbe entrato in urto con i gerarchi milanesi, per qualche bravata, certo, perché non si poteva dire certo antifascista, e per punizione sarebbe stato mandato a fare il medico condotto in un posto lontanissimo, arretrato, quasi selvaggio, all’altro capo del  mondo. Lui che si era laureato all’università di Padova magna cum laude  e che sembrava avviato a una brillantissima carriera. Una vera ingiustizia, perché loro di politica non si erano mai interessati. Ma sua cugina Silvana le aveva spiegato che in Sardegna finivano solo le persone invise o sospette al Fascio e i carabinieri in punizione.

La casa dei Succu aveva molte stanze tutte al piano terreno e un cortile interno con la pergola di vite e il casotto del gabinetto in fondo. La coppia possedeva anche una piccola campagna coltivata a orto appena fuori del paese, e lì in un recinto di rete metallica con tettoia di legno veniva allevato un maiale. –«Non ci manca niente, tranne un figlio.» – aveva detto alla moglie del dottore la padrona di casa, non in tono di confidenza o di rimpianto, ma enunciando un dato di fatto. E lo sapeva benissimo il perché di questa mancanza, gliel’aveva spiegato il dottore che c’era prima, perché non si sentisse in colpa. La colpa era del marito che aveva fatto la guerra in Africa, ed era andato con quelle donnacce nere che gli avevano contagiato una brutta malattia. Era guarito, ma figli non ne poteva più fare. –«E pazienza! Io me lo sono preso lo stesso, eravamo fidanzati da prima e gli volevo bene. E sa cosa le dico? Uno di questi giorni ci compriamo una bella bambina.»

Lo aveva ripetuto più volte, e ogni volta l’altra aveva pensato che scherzasse. Fino al giorno in cui era arrivata Michelina insieme al cestino di fichi

-«Ma no che non l’hanno comprata! »- aveva riso  mezz’ora dopo il maresciallo davanti alle lacrime rabbiose della moglie del dottore- «Cosa va a pensare, signora? Siamo in Italia anche qui, cosa crede, e ci sono le leggi. Mica si può fare commercio di schiavi come in Africa. I Succu sono gente per bene. Persone generose. L’hanno presa a’ figlia d’anima

-«Cosa?»

-«Qui c’è questa usanza. Chi di figli ne ha troppi e per qualche motivo non gli può garantire una buona vita li cede a chi non ne ha, perché stiano meglio. Io lo sapevo da mesi che zio  Silvestro Succu e la moglie erano in parola con certi cugini dell’ovile  di Abbasicca per prendersi la bambina più piccola. Scommetto che è magra come una capra senza padrone. Quelli  di Abbasicca non hanno neppure gli occhi per piangere. »

-«Ma quella donna ha parlato di comprare.»

-«Embè? Anche la madre che partorisce dice ai figli più grandi ‘vi ho comprato un fratellino’. »

-«Quindi lei non ha intenzione di fare niente per impedire questa vergogna …?»

-«E che dovrei fare? Quale vergogna? Se un domani la dovessero picchiare o affamare … Ma la tratteranno come una principessa, non ne ho alcun dubbio. Ce n’è altre due di figlie d’anima in paese, tutte belle grasse e contente, anche se nessuna famiglia ha i mezzi dei Succu. Le faranno una bella dote, le lasceranno tutto in eredità.»

(…)

-“Che usanza barbara. Io, maschio o femmina, un figlio mio non lo cederei mai a nessuno.”- pensava la moglie del dottore. Per il momento di figli non ne aveva, ma non dubitava che presto ne sarebbero arrivati. Il marito, Renzo, non era mai stato in Africa, ed erano sposati da così poco tempo …

Più che di un figlio in quei tempi sentiva la mancanza di una società civile da frequentare, di gente che le somigliasse, istruita, educata, moderna, come quella tra cui era cresciuta. Famiglie borghesi in quel paesino dimenticato da Dio non ce n’erano. Il ceto medio non esisteva. (…)

A Elvira mancava un’amica con cui poter scambiare due parole, passare un pomeriggio di chiacchere o fare insieme una passeggiata. Qualcuna che avesse sfogliato almeno qualche volta una rivista di moda, che portasse le calze trasparenti, i guanti e il cappello, almeno il giorno di Pasqua. Qualcuna che si facesse acconciare i capelli dalla pettinatrice o andasse al cinema, che  avesse in casa un grammofono e dei dischi. E d’altra parte in paese non c’era l’elettricità. (…) Così lei ingannava la noia leggendo le riviste e i romanzi d’amore che le arrivavano una volta al mese dal continente. Da un lato desiderava la nascita di un figlio che riempisse tutto quel tempo vuoto e senza scopo, dall’altro temeva di doverlo allevare da sola, in quell’ambiente così lontano ed estraneo alla civiltà. Sul marito sapeva di non poter contare. Si era adattato troppo bene ai costumi  primitivi del paese. Non era smanioso come lei di un trasferimento in continente o almeno in una cittadina dell’isola e se ogni mese di dicembre faceva domanda era solo per accontentarla. (…)

Finalmente quattro anni dopo il suo arrivo in Sardegna il dottor Renzo Frigerio venne trasferito. Non gli fu concesso di tornare sul continente. Anche la nuova sede era sull’isola, ma con grande sollievo della moglie,  nel capoluogo di provincia. Elvira, che conosceva la città più per sentito dire che per le brevissime escursioni invernali dedicate agli acquisti più necessari, sperò che il suo esilio fosse finito.

Quella dove si trasferirono all’inizio dell’anno nuovo era infatti una città se non proprio simile a quelle del continente, abbastanza grande e civile da poterci vivere senza troppo disagio.

Vantava una antica università e due teatri, uno destinato alla prosa e l’altro alla lirica. Per il tempo libero si poteva scegliere fra quattro sale cinematografiche, un ippodromo, un grande giardino pubblico attraversato da larghi viali che convergevano verso una vasca con gli zampilli e una rotonda per l’orchestra estiva. C’erano belle chiese antiche, un moderno ospedale, botteghe d’ogni genere, negozi eleganti con grandi vetrine illuminate, sartorie, saloni di bellezza per signora, trattorie e ristoranti, scuole d’ogni genere e grado. C’era una grande piazza centrale circondata da caffè alla moda dove la domenica mattina dopo la messa le famiglie altoborghesi si incontravano per l’aperitivo, c’era un corso fiancheggiato da eleganti edifici antichi e destinato al passeggio serale della gioventù. C’era il tribunale, che non solo prometteva una legge uguale a quella del continente, una legge moderna, diversa da quella barbara e arcaica del paesino di pescatori, ma che garantiva la presenza in città di giudici e di avvocati, oltre ai professionisti, ai ricchi commercianti, gl’industriali, ai docenti universitari… persone civili, istruite e probabilmente interessanti. Una società frequentabile da una moglie di dottore. C’erano persino diverse famiglie aristocratiche, alcune di antica nobiltà spagnola, altre di più recente nobiltà piemontese.

-«Ma quelli fanno vita a sé. Sono tutti imparentati, si sposano tra cugini e stanno sempre tra di loro. Non è facile essere ammessi nei loro salotti.»– spiegò  a Elvira la nuova vicina di casa. I Frigerio avevano affittato un appartamento  al secondo piano di una palazzina del centro storico. Al terzo viveva la famiglia di un gioielliere, padre, madre e tre figli maschi adolescenti. Il giorno stesso del loro arrivo la signora Cardis era  scesa a bussare, a presentarsi e a offrire aiuto e consigli. –«Se vi serve una domestica, la mia Antonietta ha una sorella di cui posso garantirvi  che è onesta e laboriosa.»

Sembrava sgarbato rifiutare. E al colloquio la ragazza  aveva fatto a Elvira una buona impressione. Nonostante, o forse proprio perché aveva la permanente, le unghie tinte di rosso, le calze di rayon e la borsetta di pelle come una studentessa di buona famiglia. Aveva raccontato come la cosa più normale del mondo che la domenica pomeriggio andava a ballare oppure al cinema e che era una affezionata lettrice di fotoromanzi; tra i suoi programmi da realizzare con i primi stipendi c’era un abbonamento a Grand Hotel. Che differenza dall’abito grigio scuro, dalla crocchia e dalle opinioni e abitudini antiquate della ‘signora’ Agostinangela Succu! -“Come passare d’un salto dal Medio Evo al prossimo Duemila.”-  aveva pensato Elvira.

Era felice del cambiamento, le sembrava di essersi scrollata di dosso una cappa scura di noia e arretratezza. Si rifece il guardaroba, accompagnata in giro per negozi e sartorie dalla moglie del gioielliere. Dietro suo consiglio cambiò pettinatura e prese a servirsi della stessa parrucchiera. Presto le due amiche entrarono in tale confidenza da darsi del tu. La vicina si chiamava Jole, aveva quarantadue anni ed era a modo suo una bella donna, anche se di forme un po’ troppo abbondanti che invece di nascondere metteva in risalto con vestiti attillati.

-«Attenta a non darle eccessiva confidenza.»– aveva detto il dottor Frigerio alla moglie– «Da come si guarda attorno a casa nostra, da come parla, mi sembra una gran pettegola. »

Ma a Elvira piaceva proprio quella caratteristica della vicina, era affamata di pettegolezzi.  Adorava ascoltare i resoconti dei fatti cittadini, le cronache degli avvenimenti mondani, le storie delle liti e delle inimicizie di gente che non ancora conosceva ma che sperava di incontrare al più presto. Jole Cardis conosceva tutti e di tutti sapeva a suo dire vita morte e miracoli. Da parte sua, anche se sollecitata dall’amica, Elvira aveva poco da raccontare. Si rendeva conto che per la moglie dell’orefice gli abitanti del paesino di pescatori  e le loro vicende  non avevano alcun interesse, come pure i segreti della buona società di Lodi, così lontana nello spazio, e per lei ormai anche nel tempo, che pareva trovarsi su un altro pianeta.

Tra le famiglie di cui le raccontava Jole ce n’era una che l’affascinava  più di tutte le altre: i Gallizi di San Cosma. Nobili, ricchi anche se non come le grandi dinastie del continente, tutti laureati, maschi e femmine, collezionisti d’arte, grandi viaggiatori. Prima del fascismo compravano gli abiti a Parigi e a Londra, le donne avevano studiato per lo più scienze esatte o si erano distinte per qualche qualità artistica, pittrici, musiciste, ma non a strimpellare romanze al pianoforte, componevano sinfonie, facevano le direttrici d’orchestra. Le ragazze Gallizi di San Cosma guidavano l’automobile e portavano i pantaloni fin dalla generazione precedente. Maschi e femmine,  non per l’ubriacatura imperiale del fascismo ma per volere di un trisnonno originale e appassionato di archeologia e antichità classiche venivano tutti battezzati con nomi  di antichi romani come Duilio, Servio Tullio, Tarquinio, Livia, Licinia, Porzia…

Incredibile,  pensava Elvira, che non avessero mai pensato di trasferirsi in continente. Con quella mentalità aperta e moderna, con tutti quei soldi, come potevano sopportare di vivere in Sardegna? Perché i capifamiglia si erano tutti rifiutati di prendere la tessera del partito, insinuava Jole, e altrove non gliel’avrebbero perdonata, mentre nel luogo d’origine il rispetto secolare di cui godevano li proteggeva dalle rappresaglie. Nonostante Jole le avesse detto che erano irraggiungibili ogni tanto Elvira si sorprendeva a fantasticare un incontro, un invito per una festa in una delle loro case di città o delle ville di campagna. Si vergognava di tali fantasie che sentiva simili ai sogni della domestica sui personaggi dei fotoromanzi.

(…)

Il marito di Elvira si risentì quando seppe che la moglie aveva preferito il consiglio della vicina al suo, e insistette per consultare  non l’ostetrico di Jole, ma lo specialista più rinomato della città, il professore universitario, che aveva anche un ambulatorio privato.

(…)

Elvira temeva che Jole si offendesse. L’altra invece accolse la notizia con entusiasmo.

-«Sei fortunata.»-  le disse -«Non credere che il grande Osorio riceva chiunque, e non così in fretta. E’ carissimo, sai? Non ti immagini neppure quanto costi una sua visita. Non sono in molte a potersela permettere. E’ vero però che ha sempre fatto miracoli, vedrai che a Natale comincerai  anche tu a preparare il corredino. E poi magari a voi non farà pagare niente. Non è dottore anche tuo marito?»

Elvira era imbarazzata. Aveva preferito non dirle dell’antica amicizia. Jole ne avrebbe fatto un romanzo. Già faceva un romanzo sulla persona del professore senza bisogno di quel dettaglio. Raccontava infervorata che il giovane Osorio appena tornato in città aveva sposato -guarda che combinazione, ne parlavamo proprio settimana scorsa- una Gallizi di San Cosma ed era entrato a far parte di quella altolocata e irraggiungibile tribù. Gente, aveva aggiunto con una certa malignità, così raffinata che mangia solo con bicchieri di cristallo e sottopiatti d’argento, servita da cameriere con la crestina di pizzo bianco, però le pietanze sono scotte o bruciate e soprattutto scarse. Tanto teatro ma poca sostanza.

«Come lo sai?»-chiese Elvira un po’ infastidita. «Sei mai stata a pranzo a casa loro? »

«Figurati! Quelli non invitano nessuno che non abbia i quattro quarti di nobiltà. Se ti ho detto che sono irraggiungibili.»

(Solo mesi più tardi Elvira avrebbe scoperto che era Jole, e con lei altre poche signore della città, ‘chiacchierate’ per il comportamento leggero e la lingua lunga, a non essere ricevuta dai Gallizi, e che gliel’aveva giurata.)

Adesso, a parte le speranze che la fama dei miracolosi risultati delle cure del professor Osorio le aveva risvegliato, Elvira pensava che il riallacciarsi dell’antica amicizia avrebbe giovato al marito riportandolo alle abitudini civili ed eleganti che la troppo lunga frequentazione della gente del paese gli aveva fatto perdere.

Fantasticava non solo su una prossima gravidanza, ma su inviti alle feste dei San Cosma, su rapporti d’amicizia con quelle signore così interessanti, così moderne e istruite. Sognava escursioni in automobile e confidenze attorno al tavolino del tè. Cominciava a guardare Jole con occhio critico, a rilevarne piccole volgarità, in fondo era solo la moglie di un negoziante. E aspettava con ansia il giorno dell’appuntamento

(Continua in libreria…)

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