Scrivere il figlio per poterlo leggere: con “Le parole tra noi leggere” Lalla Romano (1906 – 2001) costruisce un racconto commosso e implacabile del legame tra madre e figlio. Un romanzo che si muove tra lettere, compiti, sogni, frammenti: anatomia di un amore impossibile, raccontato con lucidità, freddezza e persino ironia. Ripercorriamo l’opera rivelando non solo il ritratto di un figlio sfuggente ma, soprattutto, quello di una madre che, nel tentativo di comprenderlo, finisce per raccontare se stessa — con una voce che rifiuta ogni cliché e attraversa “il fondo più buio” della maternità
“Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo”.
Fin dall’incipit di Le parole tra noi leggere (Einaudi), Lalla Romano ci avvisa: l’impresa che tenta — capire e raccontare il figlio — è disperata. Eppure, è proprio inseguendo questo impossibile che nasce un romanzo unico, tra i più intensi e spiazzanti ritratti della maternità nella letteratura italiana del Novecento.
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Scrivere il figlio per poterlo leggere. Per comprenderlo nella sua natura sfuggente, refrattaria, contraddittoria. Ma può una madre “scalarlo“, come si scala una montagna, e dominarlo con lo sguardo? La risposta — negativa — arriva subito, insieme alla replica tagliente del figlio, rivolta alla madre che tenta di raccontarlo: “Tu mi manchi di rispetto!“.
Romano costruisce il romanzo come un collage: lettere, compiti in classe, episodi della vita quotidiana, frammenti, sogni, piccole ferite. Il risultato è un racconto commosso e implacabile del legame tra una madre e un figlio geniale, difficile, a tratti crudele.
Lui, brillante e sfuggente, è un Bartleby contemporaneo: rifiuta il lavoro, le convenzioni, l’ordine: “Quello che la gente di solito fa per vivere non mi attira; mi domando se non si possa fare qualcosa d’altro e comunque sopravvivere. Lavorare ‘per vivere’ dev’essere una cosa ben tragica”.
E lei — logica e appassionata — lo osserva, lo insegue, lo ama e lo teme. A tratti lo venera come un dio, a tratti lo combatte come un mostro.
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Le parole, tra loro, sono leggere solo in apparenza. In realtà si pizzicano, si feriscono. In uno scambio epistolare memorabile, la madre invia al figlio una serie di domande preoccupate sulla sua salute; lui risponde con un elenco di monosillabi surreali e ironici. Il gioco è chiaro: tra i due si consuma una guerra tenera e spietata fatta di distanze e ritorni, incomprensioni e desiderio assoluto di contatto.
“Alla fine della quarta ginnasiale fu respinto. L’estate andò al solito dalla nonna; si rifiutava di venire in montagna con me […]. Io mi preoccupavo molto soprattutto della sua salute; così gli scrissi una lettera che conteneva un seguito di domande del tipo: mangi carne? Vai a spasso? E così via. Mi sembrò una buona trovata: avrei finalmente saputo qualcosa di preciso”.
Il figlio così le risponde:
“Cara Mina, ho ricevuto la tua lettera col questionario, e credo bene incominciare subito da quello. Immaginando che tu abbia trascritto le domande, ti scrivo solamente le risposte: alle 12 – alle 12 – sì – a Cune – no – no – no – sì – sì – sì – sì – cucinata – sì – sì – sì – secondo i giorni – no – liquidi a seconda delle circostanze – sì – veicoli – no. (Naturalmente non avevo trascritto le domande, e lui lo sapeva.)”.
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Il figlio è il protagonista, ma è la madre a raccontarlo, con una devozione che non esclude la severità. Il suo sguardo è stupito, vibrante, quasi scientifico. Osserva ogni suo gesto come fosse una rivelazione. Ne è ferita, affascinata, trasfigurata. Lo stupore che la attraversa ascoltando i suoi pensieri (“Voglio essere l’ultimo perché non posso essere il primo”), o nel modo in cui affronta la malattia senza lamentarsi (“Quando è così, non so cosa non farei per lui!”), è il sentimento che domina nella narrazione – e, alla fine, cos’è la genitorialità se non una continua, sconvolgente, scoperta?
Ma in questo tentativo di acciuffare l’essenza del figlio, quello che emerge più forte di tutto è il ritratto della madre stessa. La sua voce si rifrange attraverso gli occhi di lui, la sua figura si definisce nelle sue parole: “Essa è molto facile all’ira, ma per fortuna la rabbia le passa subito […] Prepara sempre commedie e manoscritti, i quali rimangono nel buio del cassetto e nessuno li legge mai”.
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Giudizi teneri, carichi di umorismo, che la madre riporta con un misto di meraviglia e pudore, come se lui – proprio lui! – riuscisse a guardarle dentro, in un modo che invece a lei non è dato. Entrambi infatti si rincorrono e si evitano, entrambi sembrano desiderare l’incontro e al tempo stesso l’allontanamento. È una solitudine strana, quella che accomuna madre e figlio, solitudine morbosa e simbiotica; due microcosmi in costante ed eterno contatto, che però non si comprenderanno mai.
Alla sua uscita, nel 1969, Le parole tra noi leggere fu accolto con entusiasmo da critici e scrittori: Eugenio Montale, Cesare Segre, Carlo Bo, Giulio Ferroni, Angelo Guglielmi, Anna Banti, solo per citarne alcuni.
E proprio a questo romanzo – e a una celebre poesia di Eugenio Montale – si ispira il tema dell’edizione 2025 del Salone Internazionale del Libro di Torino, un omaggio alla centralità del dialogo, all’importanza dell’incontro attraverso la lettura e alla capacità delle parole di aprire finestre sul mondo.
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Romano, all’anagrafe Graziella Mazzoni, nata a Demonte nel 1906 e scomparsa a Milano nel 2001, fu scrittrice, poetessa, pittrice, giornalista e intellettuale schiva ma molto amata e prolifica. Collaborò con Il Corriere della Sera, fu amica di Pavese e Montale, e costruì un’opera letteraria dominata da uno stile terso e sorvegliato. Le parole tra noi leggere vinse il Premio Strega nel 1969, consacrando definitivamente la sua voce nel panorama della narrativa italiana del secondo Novecento.
L’aspetto più sottolineato di questo testo fu la capacità di Romano di trattare un tema considerato femminile — il rapporto madre-figlio — con rigore quasi scientifico, uno sguardo lucido, “freddo e persino ironico”, lontano da facili sentimentalismi. Anna Banti vi vide l’incarnazione dell’ideale woolfiano di uno scrittore “totalmente femminile”, ma paradossalmente questo si traduceva, agli occhi dei critici dell’epoca, nel definirla “scrittore” e non “scrittrice”.
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Vittorio Sereni, nella prefazione al libro, scrive: “Lalla Romano scrittore – e dico scrittore apposta anziché scrittrice“. Come se l’umorismo, la durezza, l’analisi razionale fossero prerogative maschili, mentre lo stile femminile fosse condannato a essere “umido ed emotivo”. Così, per dare dignità letteraria a un’opera scritta da una donna su un tema “da donne”, la si promuoveva a scrittore.
Anche Guido Ceronetti, parlando di un’altra autrice, Cristina Campo, nella prefazione a Gli imperdonabili (Adelphi), scriveva: “Nella scrittrice si avverte in genere la penuria di attività solare, un rallentamento, la riluttanza della parola a pigliare la via dell’ombra, mentre nella scrittrice-scrittore il limite è nell’atto chirurgico del suo androginizzarsi per impadronirsi di visione e forme non sue […]. Strana sorpresa fanno questi scrittori nati donna: quel che ci appariva come un energumeno di scrittore rivelarsi una donna travestita, una che ha sofferto per varcare il confine”.
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Ma è proprio questa convinzione — che la scrittura femminile sia per natura sentimentale e lacrimosa — a essere falsa. Non è vero che le donne scrivono in modo patetico. È vero, piuttosto, che la maternità è stata a lungo raccontata in modo patetico, e che chi se ne allontana rompe uno stereotipo.
Come ha scritto Elena Ferrante ne La frantumaglia (e/o), “il compito di una donna che scrive oggi è non fermarsi ai piaceri del corpo gravido, del parto, della cura dei figli, ma andare con verità fino al fondo più buio“.
Ed è questo che fa Lalla Romano: indaga il materno con ferocia, razionalità, ironia. Senza abbellimenti, senza indulgenze. Romano non si rifugia nei cliché del mondo pastello e lucente dell’essere mamma; ne offre invece un racconto viscerale, onesto fino alla crudeltà, che non teme di mostrare l’incomprensione, l’attrito, l’aspetto quasi animalesco del legame.
Il suo non è uno stile maschile contrapposto a uno femminile, ma uno stile che rifiuta gli stereotipi, e racconta la maternità (e un rapporto umano specifico) nella sua verità spesso scomoda..
E così, nel tentativo di afferrare l’altro, finisce per raccontare l’inafferrabile.
Un gesto d’amore e, insieme, un atto di libertà.
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