“Vorrei qui spezzare una lancia in favore della ricchezza delle forme brevi, con ciò che esse presuppongono come stile e come densità di contenuti”, scriveva Italo Calvino nelle “Lezioni americane”. Tra grandi classici, classici contemporanei e testi degli ultimi anni, su ilLibraio.it un viaggio nel tempo letterario in cui trovano spazio tante (imperdibili) letture brevi

Se è pur vero che, romanzi dal più ampio respiro, ben possono paragonarsi a relazioni d’amore – fosse solo per il legame confidenziale che, nei progressi dell’intreccio, lentamente matura fra lettore e protagonisti – vi è, nelle letture “tutte d’un fiato”, una percezione emotiva simile a quella del colpo di fulmine: urgenti alle premesse, e subitanee nell’epilogo, certe composizioni stringate – al pari delle romanze musicali o dei petits-poèmes-en-prose – sanno innescare la fiamma letteraria, così come anche rinvigorirla nel tempo.

Che si tratti, infatti, dei più classici bestseller d’autore – da Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach (Bur), a La fattoria degli animali di George Orwell (Mondadori), e ancora a Bartebly lo scrivano di Herman Melville (Garzanti) e Colazione da Tiffany di Truman Capote (Garzanti) – o, invece, dei più moderni feticci editoriali – come Kitchen di Banana Yoshimoto (Feltrinelli), Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout (Einaudi), o Il senso di una fine di Julian Barnes (Einaudi) – non esiste bibliofilo, degno di definirsi tale, che non sia prima o poi capitolato di fronte alle compattezze di un volumetto ben rilegato (o ne abbia quantomeno decantato le grazie, magari nelle pause di riflessione fra un mattone letterario e un altro).

Non che il valore affettivo di un testo debba, d’altronde, necessariamente corrispondere alla volumetria delle sue pagine: “sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia”, suggerisce sul punto Italo Calvino in Lezioni Americane (Mondadori): “Vorrei qui spezzare una lancia in favore della ricchezza delle forme brevi, con ciò che esse presuppongono come stile e come densità di contenuti”. Già, perché nonostante vengano spesso utilizzate come semplici soprammobili per comodini male illuminati (o, se non peggio, quali estetici riempitivi per librerie altrimenti prive di giustificazione), le narrazioni brevi sono, in realtà, non solo una categoria letteraria a tutti gli effetti – nonché strumento di raccordo per le più svariate declinazioni del genere, dai racconti lunghi (o romanzi brevi, anche in forma di raccolta), ai racconti brevi (una decina di pagine) e brevissimi (una pagina o due), ivi compresi i Romanzi in tre righe (una riga per l’ambiente, una per la cronaca più o meno nera, una per l’epilogo a sorpresa) del francese Félix Fenéon (a cura di Matteo Codignola, Adelphi) o il granulare fraseggio (in otto parole) El Dinosaurio di Augusto Monterroso, «”quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì” – ma anche, e soprattutto, un espediente stilistico particolarmente efficace nel focalizzare l’attenzione dei lettori senza, per ciò, dover ricorrere a artifici di trama o lusinghe di copertina.

In tal senso non vi è chi non veda come, fra le strette maglie della narrazione chiusa – ovvero quella modalità letteraria che ruota intorno a un solo evento o poco più, e che su esso si sviluppa in un esito circoscritto – la poetica dell’autore acquisisca un’espressione libera e di massima immediatezza: in assenza di cavillose descrizioni, numerosità di personaggi o intricati turning point, la forma breve garantisce, infatti, un’esperienza di immedesimazione personale e coinvolgente (affettivamente riconducibile alle impareggiabili riduzioni di fiaba, quelle che stringevamo nelle mani da bambini), in grado di improntarsi alla memoria con la stessa, romantica, persistenza dei mai dimenticati batticuori di gioventù.

Sarà forse questo il motivo per cui i più famosi tascabili d’autore hanno saputo, negli anni, far appassionare alla lettura infinite generazioni di lettori – da Il piccolo principe di Antoine Saint-Exupéry (traduzione di Massimo Birattari Garzanti), al Siddartha di Hesse (traduzione di Massimo Mila, Adelphi), passando per LArte di amare di Erich Fromm (traduzione di M. Damiani, Mondadori) fino o Novecento di Alessandro Baricco (Feltrinelli) – e come, peraltro, ancor oggi avviene (specialmente in ambito romance e young adult) per quelle devote comunità di seguaci che, nel commentare le vicende dello storytelling digitale, riempiono di cuori le piattaforme di scrittura online (si pensi al fenomeno Starlight e Moonlight dell’italiana Cristina Chiperi, inizialmente serializzato per capitoli sull’applicazione virtuale Wattpad, poi raccolto in edizione long form e, infine, saga editoriale di Garzanti, per mesi in vetta alle classifiche).

Un’elegia letteraria, insomma, quella della forma breve, da esplorare con tutta l’intensità di una dichiarazione d’amore: perché, come la consapevolezza sentimentale si conquista a piccoli passi, così l’abitudine alla lettura richiede, per consolidarsi, (o anche per rinfrescarsi, ad esempio dopo un lungo periodo di lentezza relazionale, come quello che abbiamo appena vissuto), l’incontro con i piccoli libri. Tipo quelli che vi consigliamo qui di seguito e per i quali, siamo sicuri, non potrete che perdere la testa.

La novella degli scacchi di Stefan Zweig

La novella degli scacchi di Stefan Zweig

Sono sfaccettati, e sapientemente disposti, i minuscoli pezzi su cui arrocca la contropartita mentale fra il giovane campione Mirko Czentovič (tecnicamente ineccepibile, ma dalle discutibili doti intellettuali) e l’enigmatico protagonista de La novella degli scacchi (Garzanti, traduzione di S. Martini Vigezzi) il dottor. B che, sulla rotta navale New York – Buenos Aires, rischia di affrontare una sfida ben più complicata di un gioco di strategia: quella con i fantasmi del passato. L’autore, che attraverso le fragilità del protagonista – nel periodo che lo vede vessato dagli estenuanti interrogatori della Gestapo, il dottor B. cerca ossessivo rifugio nelle regole di un manuale di scacchi, suo unico diversivo durante i giorni della prigionia – riscrive le dimensioni psicologiche del proprio indimenticato trauma (quello dell’esilio nazista e degli stati depressivi da esso derivati che lo condurranno, infine, al suicidio nel 1942), costruisce un racconto dall’architettura letteraria rapida, ma perfettamente organizzata, in grado di tradurre i chiaroscuri emozionali così come universalmente impressi sul tavoliere della Memoria.

Il ballo di Irène Némirovsky

Il ballo

È in punta di vendetta che danzano i capricci della spigolosa Antoinette Kampf, mentre affonda gli inviti per Il ballo di Irène Némirovsky (Adelphi, trad. di Margherita Belardetti) nelle ire malmostose dell’adolescenza. Minuzioso affresco di rivalità generazionale, tragicomica istantanea di una borghesia (quella parigina degli anni trenta) ipocrita e senza scrupoli, in poco più di ottanta pagine l’autrice tratteggia non solo i profili di una raffinata fiaba – sembra, la giovane Antoinette, una piccata Cenerentola, mentre viene introdotta al disadorno sgabuzzino da cui ha l’opportunità di osservare, senza parteciparvi, gli ospiti del galà officiato dall’ambiziosa madre – ma, altresì, una sincera apertura sulla sua, personale, condizione di figlia (la Némirovsky, all’epoca venticinquenne, accusava una profonda distanza dalle figure genitoriali, spesso assenti e attirate più dalla mondanità che dal sentimento famigliare). Perché, sostiene l’autrice, “il sangue e le relazioni di sangue sono fatali“.

Le notti bianche di Fëdor Michajlovic Dostoevskij

Le notti bianche

Sospese nella balugine di un’onirica San Pietroburgo – essa stessa presenza permeante dell’opera, nelle sere estive quando fa buio a tarda ora – sono appena quattro Le notti bianche (trad. Luigi Vittorio Nadai, ed. Garzanti) durante le quali Fëdor Michajlovic Dostoevskij consuma l’ardimento del solitario vagabondo verso la diciassettenne Nasten’ka, affascinante destinataria di una promessa da tempo strappata, ma mai mantenuta. “Dio mio! Un minuto intero di beatitudine! È forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?”, pare chiederci il sognatore protagonista, condividendo con il lettore la consapevolezza di un’illusione votata al risveglio. Sì, perché nemmeno il tempo dell’incanto ed ecco, al celerrimo passo del racconto (novantadue pagine circa), la parabola dell’addio avviarsi a manifesta conclusione; di essa, solo il lascito veloce di un’educazione – quella introspettiva e sentimentale – cui l’autore ci ha speditamente preparati, senza voler troppo infierire sulle conseguenze, solitarie, di un disamore.

Io e te di Niccolò Ammaniti

io e te ammaniti

Non c’è un luogo particolarmente adatto per sfuggire a sé stessi, né un tempo sufficientemente certo per sentirsi davvero al sicuro: lo sa bene Niccolò Ammaniti che, nell’attraversare le sconfinate spazialità emotive fra lo schivo Lorenzo (asociale quattordicenne che, per reinventare le regole dell’adolescenza, appronta un bunker d’emergenza nella cantina sotto casa) e l’imperscrutabile Olivia (sorellastra del protagonista che, inaspettatamente occupando il rifugio personale del fratello, lì vi rimane a sopportare una crisi di astinenza) ci insegna come, a volte, anche la più semplice delle congiunzioni aiuti a colmare paure e distanze, (apparentemente) insormontabili. Trasposto in uno splendido lungometraggio diretto da Bernardo Bertolucci, Io e Te di Niccolò Ammaniti (Einaudi) offre, in un centinaio di pagine appena, un’apertura ampia, e senza sbavature, sull’imprevedibile incertezza di ciò che attende al di là del cambiamento: “Ho aperto il grande portone e lei era lì che mi aspettava. – Grazie fratellino, – ha detto”.

Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt

Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt

Bouquet contemporaneo di un incontro senza spine, il florilegio di Eric-Emmanuel Schmitt profuma di integrazione. E non solo quella fra generazioni diverse (ambientato nella Parigi degli anni sessanta, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano – traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Tascabili e/o – tratteggia il legame d’amicizia fra l’annoiato Momo, ragazzino ebreo schiacciato dalle pressioni del boriosissimo padre e, per l’appunto, Monsieur Ibrahim, gioviale musulmano che, nel prendersi a cuore le radicate malinconie del bambino, gli regalerà un picaresco viaggio alla scoperta delle chiavi del sorriso) ma, soprattutto, quella, fra culture: perché, nel profondo degli insegnamenti, siamo tutti corolle di uno stesso fiore. In un sorprendente intreccio di generi (dalla fiaba moderna al racconto di formazione, passando per il romanzo d’avventura) l’autore coglie, in cento pagine e poco più, un’esperienza di lettura dai fogliami vividi e colorati, rigogliosa nelle peripezie ma profonda e quanto mai germinante nelle riflessioni. Una narrazione che non può appassire.

Amore di Hanne Ørstavik

Amore di Hanne Ørstavik

C’è tutta la lentezza di un movimento ghiacciato a trattenere le derive solitarie dell’Amore di Hanne Ørstavik (traduzione di Luigi Spagnol, Ponte alle Grazie), già autrice di A Bordeaux c’è una grande piazza aperta e finalista al National Book Award 2018 per la letteratura in traduzione. “Quando sarò grande andiamo via in treno. Fino a dove si può (…) Stare insieme tutto il tempo, non arrivare mai”. E sembra proprio non arrivare, nel distante rapporto fra Vibecke e Jon (una madre e un figlio da poco trasferitisi in un paesino nel nord della Norvegia), il momento del disgelo: sarà forse la coltre di neve che tutto ghiaccia e tende o, ancora, l’arrivo nottetempo di un disturbante Luna Park ma, nel luogo minimale della narrazione della Ørstavik (giusto centoventisei pagine, ma dalla condensazione totale e dalla verità straziante) ogni emozione pare decadere nell’attesa che il freddo s’arresti. Fintantoché, nel mentre tutto assidera, i protagonisti divengono iceberg, e quell’unica parola, che di calore racconta, paralizza inesorabilmente sull’abbrivo di copertina.

milk and honey di Rupi Kaur

milk and honey

Nel latte e miele affondano come pietre le poesie di Rupi Kaur (tre60, traduzione di A. Storti) autrice canadese di origine sikh (come da tradizione gurmukhi, tutte le parole del testo sono scritte in minuscolo, per sottolineare che non esiste differenza fra le lettere) e poetry influencer (nonché performer letteraria) da quattro milioni di seguaci sulla piattaforma Instagram. Già, perché nell’esplorazione dell’universo femminile, i quattro capitoli della raccolta della Kaur – “il ferire”, “l’amare”, “lo spezzare”, “il guarire” – rappresentano non solo una vera e propria eredità spirituale per ogni essere umano che senta l’esigenza di maturare consapevolezza sulle complessità del femminino, ma altresì una contemplazione onesta e immediata delle infinite prospettive dell’essere donna (dal sesso all’amore, dalla tenerezza alla violenza, dal latte al sangue). Corredata da grafiche digitali e illustrazioni a fil di ferro (la Kaur è altresì un’abile disegnatrice che, nella sottigliezza del tratto, lega con precisione parole e sensazioni), milk and honey – così come la successiva the sun and her flowers (sempre per tre60) – svela al lettore una nudità vitale e ricostituente, dissodando il terreno, in un’ora di lettura o poco più, per fertili profondità di riflessione.

La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin

La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin

Di narrazione breve trattando, la forma antologica della raccolta La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin (Bollati Borlinghieri, traduzione di Federica Aceto) è il perfetto esempio di come uno storytelling rapido e diffuso possa rappresentare l’universo di un autore con la stessa efficacia di una produzione dalla maggiore lunghezza. Nata nel 1936 a Juneau, Alaska, Berlin cresce fra il Texas e l’America del Sud, collezionando impressioni di sgangherate roulotte, lavanderie a gettoni, donne delle pulizie e sigarette mai spente: e proprio della periferia americana la Berlin traduce la voce, parlando di volta in volta al lettore con l’accento di donne (e uomini, ma in minor misura) che, della vita vera – o, quantomeno, dell’auto-fiction – sono le protagoniste. Ecco allora che, nello sfogliare le pagine dei racconti selezionati, dalla voce dei personaggi sembra trasparire, elegante e inquieto, il flusso di diapositive di una storia reale, ma inventata, che tanto sa di stile quanto di sincerità. Perché, quando i racconti di un autore permangono al ricordo, è allora che il ricordo di un autore si fa racconto.

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