“Che sia difficile, nessuno lo nega. A tratti impossibile, altroché. Ma in molti si sta facendo strada un atteggiamento che non solo non ci aiuterà a superare questi – si spera – ultimi mesi di difficoltà, ma non permetterà di fare l’unica cosa sensata una volta che l’emergenza sarà finita: trarre, da questo grande dolore, la nostra maggiore forza”. Su ilLibraio.it la riflessione di Enrico Galiano, insegnante e scrittore, che in questi difficili settimane di terza ondata si rivolge in particolare agli adulti, e invita a riflettere sulle persone con disabilità

Non so voi, ma io da un po’ sto cominciando a sentire un’aria strana. Non so da dove venga, né perché ci sia, ed è perfino difficile darle un nome. La vedo ogni mattina negli occhietti a metà fra tristi e assonnati di ragazze e ragazze in quei nove riquadri di loro che mi concede google meet. La percepisco in post e commenti di genitori arrabbiati e delusi che, se di figli ne hanno anche solo più di uno, cominciano giustamente a dare di matto a star dietro alle videolezioni e alle spartizioni dei giga disponibili. La avverto nell’umore di colleghi sconsolati che ormai, alla domanda “come va?”, riescono a rispondere solo “eh.”

Un silenzio insolito percorre questi giorni di terza ondata, dove i flutti cominciano a essere troppo grandi per non farsi buttare sotto, o forse noi cominciamo a essere troppo stanchi per cercare di stare ancora a galla: e così oscilliamo continuamente fra gli estremi, in uno strano impasto di rabbia e rassegnazione, di apatia e grido.

Alcuni ragazzi, poi, li vedi chiusi a chiocciola nei loro gusci di inedia, microfono spento tutta l’ora, presenti assenti; genitori che fanno sit-in di sciopero contro la dad brutta e cattiva, e altri che ormai hanno abbandonato la nave, e se il figlio si sveglia ogni giorno alle undici tanto meglio, così non devo preoccuparmi più; insegnanti a cui scende una lacrimuccia ogni volta che accendono il pc al mattino, e altri che pregano non si ritorni più in presenza fino a settembre.

Tutte queste anime diverse sono facce di un sentimento unico. Unico e pericoloso, che ha un nome ben preciso: piangersi addosso. Sottile, sotterraneo, non riguarda tutti: ma c’è. O almeno, io lo sento forte e chiaro.

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Che sia difficile, nessuno lo nega. A tratti impossibile, altroché. Ma in molti si sta facendo strada un atteggiamento che non solo non ci aiuterà a superare questi – si spera – ultimi mesi di difficoltà, ma non permetterà di fare l’unica cosa sensata una volta che l’emergenza sarà finita: trarre, da questo grande dolore, la nostra maggiore forza.

Anche perché va contemplata almeno l’ipotesi: e se non finirà mai? E se dovesse ricapitare qualcosa di simile? Dobbiamo dircelo chiaramente: questo rischio c’è, citando qualcuno che forse ricordate.

Uso la metafora della disabilità, perché è secondo me la più vicina a quello che intendo dire: se parli con una qualsiasi persona che si è ritrovata, nel mezzo del cammin della sua vita, a subire una malattia o un incidente che l’ha costretta in una condizione di disabilità, molto spesso ti dirà una cosa simile a questa: “Arrivi a un punto in cui devi decidere: o reagisci e diventi più forte, o ti lasci andare e ti butti via”.

Non c’è una terza via. O ti tiri su all’insegna del nonostante, o ti butti giù in una selva oscura di se: se fosse andata così, se si potesse fare questo…

E così è per noi, ora. Forse non tutti sulla stessa barca, è vero, perché c’è chi ha la fortuna di navigarsela su uno yacht e chi sulla tavola di legno di Rose DeWitt Bukater: ma di sicuro dentro la stessa tempesta. Ed è per questo che la cosa più pericolosa ora è lasciarsi andare. Cedere alle sirene dell’autocompiangersi.

E non parlo dei ragazzi. O meglio non solo, perché loro molto spesso sono il riflesso di quello che vedono fare a noi. Parlo proprio di noi: adulti, genitori, insegnanti. È il momento di dare l’esempio, quello vero. Stringersi più forte e reagire. Arrabbiarsi, certo, quando le cose non vanno come dovrebbero. Ma dismettere la politica degli alibi, del non se ne può più, e capire che dobbiamo andare avanti con quel che abbiamo.

Che è poco, a volte niente. Ma è quel che c’è, e non ci sono alternative al rimboccarsi le maniche e darsi da fare.

Non so se lo sto dicendo più che altro a me stesso, ma per restare sulla metafora della disabilità credo che mai come ora ci serva rileggere e ripetere la frase che Alex Zanardi disse, una volta risvegliato su un letto d’ospedale senza entrambe le gambe: “Quando mi sono svegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”.

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoi e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti ora è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande (Garzanti).

Alla pagina dell’autore tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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