“Una vita sociale intessuta di falsa cortesia (che chiama ‘rispetto della privacy’ il disinteresse), e di glaciali silenzi tra le persone che si imbattono fisicamente le une nelle altre, accigliate e immerse nei propri pensieri (e nei propri smartphone)”. Su ilLibraio.it Simonetta Tassinari, insegnante e scrittrice, racconta la difficoltà dei genitori di oggi a parlare con i propri figli (e non solo): “Non siamo più capaci di raccontare ai nostri ragazzi di noi perché non siamo più capaci (o forse non lo vogliamo) di riflettere su di noi”

Un recente articolo del Corriere della Sera, prendendo spunto da un’evidente mancanza di comunicazione profonda tra genitori e figli, il che significa, spesso, assenza di dialogo che non sia quello semplicemente di base (“A che ora vengo a prenderti” o “Ti vanno bene le cotolette per cena”), dunque  anche di dibattito e di confronto dialettico, mentre suggerisce (sensatamente) di approfittare dei ritagli di tempo per inserire momenti di confidenza e di vera conversazione con i propri figli, ad esempio durante il tragitto quando li si accompagna a scuola, trascura di notare come la perdita della dimensione comunicativa sia, in realtà,  un dato di fatto generalizzato.

Non si parla con i propri figli? In effetti si potrebbe affermare che non si parla  più con nessuno, altro che uomo come “animale linguistico”, come credeva Aristotele! Una vita sociale intessuta di falsa cortesia (che chiama “rispetto della privacy” il disinteresse) , e di glaciali silenzi tra le persone che si imbattono fisicamente le une nelle altre, in treno, sull’autobus, per strada, lungo le scale di uno stesso condominio, accigliate e immerse nei propri pensieri, oppure con il cellulare attaccato all’orecchio, o nell’atto di digitare un sms, di certo ha perduto il vero senso (e il gusto) del comunicare.

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I ritmi di lavoro, la competitività, la labilità dei legami, un egoismo di fondo spacciato per individualismo ( più accettabile e, in apparenza, meno gretto) hanno preso il posto, in pochi anni,  del costume, che sembrava tutto nostro, anzi addirittura connotativo del nostro Paese, della chiacchiera e del pettegolezzo, dei “clan” amicali e familiari, della curiosità talora ossessiva verso la vita altrui, che adesso, magari visionando un film della gloriosa stagione della “commedia all’italiana”, ci suscita perfino nostalgia.

Serrati a doppia mandata nel nostro guscio, e benché questo possa sembrare contraddittorio, non abbiamo tuttavia perduto il desiderio, anzi l’insopprimibile aspirazione a essere compresi e apprezzati dal nostro prossimo. Tale esigenza, presente indifferentemente a ogni età, è ancora più avvertita in personalità in formazione come quelle dei bambini e dei ragazzi, i quali hanno la necessità di un sistema sempre aperto di conferme, rassicurazioni, informazioni, trasmissione di emozioni e di sentimenti, per definire la propria identità. Hanno bisogno di cura e di gesti, ma anche di parole, che di loro essenza sono più chiare, più ricche e più distinte dei pensieri, hanno un carattere collettivo e intersoggettivo e restano, scavano, fecondano, si richiamano alla memoria e producono effetti anche a distanza di tempo.

Ma l’emergenza autentica non è tanto il riconoscerlo, bensì il  prendere atto che gli atomi vaganti che siamo diventati non ne sono più capaci. Non siamo più capaci di raccontare ai nostri figli di noi perché non siamo più capaci (o forse non lo vogliamo) di riflettere su di noi. Non siamo più capaci di ascoltare loro perché viviamo noi stessi nel qui e ora, abbiamo il terrore dell’introspezione, fuggiamo; e nel nostro egoismo, presupposto “individualismo”, non ci assumiamo la responsabilità e l’oneroso compito di trasmettere, attraverso l’insostituibile pratica della parola, simboli che sopravviveranno alla scomparsa del semplice ricordo immagine.

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Nella nostra comunità, che si avvia a diventare socialmente e tragicamente “muta” in presenza delle persone “vere”,  e che di conseguenza produce anche genitori “muti”, sono sparite, in sovrappiù, anche la naturalezza e la spontaneità nell’esercitare il ruolo di padre e madre, il che si riverbera, ovviamente, sul rapporto con i propri figli. Tutto viene dipinto come tremendamente difficile e ansiogeno (oltre che tremendamente costoso), da parte della Rete, dai programmi televisivi, sovente dai medici stessi; quasi quasi viene suggerito ai neogenitori, tra le righe,  che sarebbe il caso di iscriversi a un corso di formazione per cambiare il pannolino, preparare una pappa, introdurre il vasino, passare all’alimentazione solida;  che dire, poi, delle tabelle di peso e altezza, degli standard da rispettare, dell’attrezzatura  che si ritiene “minima” per il bambino e che occupa almeno metà casa?

E se non ci fossero dunque, in tutto ciò, almeno per un verso, impaccio e impressione di inadeguatezza?

Nel medesimo articolo si sostiene (anche in questo caso in modo senza dubbio condivisibile), che, essendo ormai tramontata la vecchia “predica”, per così dire, strutturata, magari impartita nella stanza migliore di casa, perfino con solennità, non solo sarebbe opportuno approfittare degli scampoli di tempo per tentare un approccio dialogato con i figli, ma limitarne la durata e usare il linguaggio “short” al quale i ragazzi sono più avvezzi.


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Mi verrebbe da scrivere che short sarebbe meglio di niente, ma che, in fondo, è come consigliare di fare ginnastica isometrica o meditazione, oppure di scorrere la propria pagina Facebook, durante una coda, per ottimizzare l’attesa; e mi verrebbe da aggiungere che, anche in questi consigli, si intravede  sotto sotto, malgrado le buone intenzioni, l’idea di una prestazione genitoriale da infilare nelle pieghe. Ci si può solo augurare che il dialogare in famiglia mentre si fa la corsetta domenicale, o si va a ritirare la pizza, non divengano un’ulteriore tabella da riempire, uno step da superare, un ennesimo corso di formazione dal quale ottenere una qualifica….

Quanto alla fine delle vecchie “prediche” di una volta, perché assumere in via definitiva che siano completamente da buttare? Personalmente mi  è toccato ascoltarne parecchie; da parte dei miei genitori (ognuno con un suo stile e immagini di riferimento); da parte di una nonna e di una zia che vivevano con noi (la prima portata per i sermoni e quasi apocalittica, la seconda più bonaria); tutto sommato, mi sono state impartite prediche anche da parte di ogni adulto che fosse in confidenza con la mia famiglia, senza contare le mie estati in paese, sulla collina romagnola, dove, a partire  dai nostri parenti anziani fino al salumiere,  dal giornalaio al parroco,  tutti  si sentivano in dovere di dire qualcosa,  e di fornire ammaestramenti, a noi bambini degli anni Sessanta e Settanta.


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Perché anche una “predica”, per quanto in quel momento possa sembrare inutile, noiosa o perfino dannosa a chi l’ascolta, concede un’identità e costruisce una memoria della persona che la tiene;  da una sgridata, da una semplice chiacchierata e perfino da   un rimprovero  trapelano le nostre speranze, le aspettative  e le paure, la personalità e l’educazione che, a nostra volta, abbiamo ricevuto; una “predica” è un comunicare che non è mai unilaterale, essendo comunque imperniata su una tematica comune, magari non condivisa nei suoi esiti e nelle sue diramazioni, ma condivisa; e, perciò, diventa  scambio. Se poi non volessimo chiamarla “predica”,  bensì “conversazione motivata”, sarebbe bene ricordare che soltanto attraverso la parola, sebbene questa richieda indubbiamente uno sforzo superiore rispetto all’accendere la tv o all’attivare la wireless, si attribuisce una colorazione emotiva ai ricordi, e che sono proprio  ricordi del nostro passato  a darci la sicurezza di essere sempre la stessa persona pur a distanza di anni, così come sono i ricordi che ci rendono componenti di una famiglia, figlio o padre. Briciole o avanzi di tempo non posso bastare; possono essere un surrogato, come la cicoria al posto del caffè; ma sempre di cicoria si trattava.

“Specificatamente umani” sono solo  l’agire assieme e il parlare, afferma Hannah Arendt.

Cominciamo dall’uno o dall’altro, almeno con i nostri figli.


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L’AUTRICE * – Nel 2015 Simonetta Tassinari ha pubblicato La casa di tutte le guerre, romanzo ambientato in Romagna nell’estate 1967.
È da poco tornata in libreria, sempre per Corbaccio, con La sorella di Schopenhauer era una escort, un libro per i genitori, per i ragazzi, per chi non è genitore e non è neanche un ragazzo, per i curiosi, per chi vuole sorridere, e leggere, della scuola italiana. Un ritratto divertente della generazione smartphone-munita.
L’autrice è nata a Cattolica ed è cresciuta tra la costa romagnola e Rocca San Casciano, sull’Appennino. Vive da molti anni a Campobasso, in Molise, dove insegna Storia e Filosofia in un liceo scientifico. Ha scritto sceneggiature radiofoniche, libri di saggistica storico- filosofica e romanzi storici.

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