“Non lasciarmi sola” (2004) ha segnato una svolta nella carriera poetica di Claudia Rankine. A partire da quel libro la scrittura poetica si fa qualcosa di sempre più inclassificabile: saggio, racconto, discorso visivo e multimediale… – L’approfondimento sullo stile, i temi (dal razzismo alla riflessione sulla maternità, passando per quella sui mezzi di comunicazione artistica) e le opere della grande poetessa e scrittrice statunitense di origini giamaicane

Un vecchio televisore: nessun segnale, il vecchio frustrante tv noise. È questa l’immagine che scandisce Non lasciarmi sola. Una lirica americana di Claudia Rankine (66thand2nd, traduzione di Isabella Ferretti).

La pervasività della cultura mediatica che convive con l’impossibilità, il fallimento del mezzo: ci sono troppe immagini, eppure alcune non si vedono, o si vedono troppo, o sono dimenticate: quello schermo sta lì – fin dalla copertina – a significare sia l’anestetizzazione di una cultura che l’urgenza di ripensare forme di comunicazione artistica, a disegnare un nuovo linguaggio anche visivo.

Copertina del libro Non lasciarmi sola

Non lasciarmi sola (2004) segna, non a caso, una svolta nella carriera poetica di Rankine: a partire da questo libro la scrittura poetica si fa qualcosa di sempre più inclassificabile: saggio, racconto, discorso visivo e multimediale. E contemporaneamente si tratta dell’opera che forse più di tutte sintetizza e riassume in sé il percorso creativo dell’autrice: il tema del razzismo, presente nella raccolta d’esordio, Nothing in Nature is Private (1995), e poi approfondito nel bellissimo Citizen (2014) e ancora nel recente Just Us. An American Conversation (2020), in cui il focus dell’indagine si sposta dalla pelle nera (di cui Citizen raccontava microaggressioni, identità, violenze, processi di soggettivazione e assoggettamento) a quella bianca; o ancora il dolore, la disperazione, l’alienazione e i tentativi di resistenza che danno forma al personaggio di Jane nelle poesie contenute in The End of the Alphabet (1998), passando per la riflessione sulla maternità e sui mezzi di comunicazione artistica di Plot (2001), senz’altro il libro stilisticamente più sperimentale di Rankine (e che non a caso guardia a varie esperienze d’avanguardia) e il cui layout già inizia a suggerire una ricerca che coinvolga la struttura stessa dei suoi libri.

Proprio con Non lasciarmi sola, infatti, Rankine abbandona il linguaggio talvolta oscuro di Plot a favore di una dizione più lineare, aprendosi a una sperimentazione tutta diversa, costruita sulla problematizzazione stessa dei mezzi di espressione poetica (a partire dal sottotitolo: Una lirica americana) attraverso la costruzione di un’opera davvero multimediale e multidiscorsiva, che si scontra e problematizza la nozione stessa di lirica e che si affida spesso ai mezzi dell’ironia, del paradosso, dell’antifrasi, del controcanto.

Nei testi di Non lasciarmi sola troviamo infatti un accumulo di soggetti diversi che nella loro irriducibilità formano la società americana contemporanea. È un io, quello di queste poesie, che molto spesso si presenta come prodotto di una cultura consumista e paranoica, la cui identità sembra essere data piuttosto dai prodotti che si posseggono o dalle medicine antidepressive che si assumono: “Il mio sciacquone del bagno, la mia acqua calda, il mio condizionatore, la mia assicurazione sanitaria, mio, mia, mio, tutti i miei mio, mia, mio erano made in America. Ecco come vivevo. O come non vivevo. Ero un prodotto, anzi ero come un prodotto, un prodotto di Walt Disney e simile ai personaggi animati della Disney”.

La tragicità si fa talvolta farsa (“To have a new iMac or not to have it?”) perché l’esperienza o la possibilità stessa di fare esperienza sembra annullarsi a favore di “una sequela di istantanee Kodak”, in cui la realtà assume valore solo se può essere teletrasmessa, commercializzata, pubblicizzata.

Per alcuni versi le prose, le poesie e le immagini di Non lasciarmi sola raccontano quella stessa realtà di No Logo di Naomi Klein, quella cultura anestetizzante racconta da Don DeLillo in Rumore Bianco, quella disperata solitudine di Requiem for a dream.

Ma la solitudine che dà il titolo al libro di Rankine coinvolge anche altri piani: quello privato della malattia che costringe al letto, che porta a fare i conti con la morte, che cancella la memoria, che inibisce la socialità. O quello sociale e politico del razzismo, caratterizzato da forme paranoiche post 11 settembre o da polarizzazioni fra l’io e gli altri che richiedono alla scrittrice una sorta di etica della realtà riversata in un’andatura cronachistica della prosa funzionale a rendere giustizia ai fatti (e non a caso più di 30 pagine sono di note), ma denunciando, al contempo, che i fatti nudi non parlano, hanno bisogno di essere interpretati: è il caso, per esempio, della prosa dedicata a Lionel Tate, il dodicenne nero che nel 1999 ha ucciso una bambina di sei mentre giocavano al wrestling. Il bambino è stato trattato, in tribunale, come un adulto e condannato alla prigione: il fatto di cronaca, oltre a essere una testimonianza da opporre a un vuoto flusso mediatico, serve anche come pretesto per una riflessione sul razzismo del sistema giudiziario americano e sulla necessità della ricerca del senso attraverso non solamente la lettura dei fatti, ma la loro interpretazione.

La modalità riflessiva è una costante di questo libro che riguarda non solo la lettura degli episodi, ma anche l’utilizzo stesso delle forme, la contrattazione di una propria postura soggettiva (e la responsabilità di questa postura) per raccontare una realtà, ma soprattutto per raccontare ed entrare in relazione con gli altri – per rompere, dunque, il muro della solitudine, per non restare sola (e verrebbe quasi da dire che una delle tecniche più frequenti di questa scrittura è quella cinematografica del controcampo). Così il fatto primario dell’esistenza si configura come un “essere per l’altro”, non a caso il nesso primario di relazione fra il soggetto e il mondo è quello della somatizzazione degli stati d’animo che coinvolge una relazione attiva ed empatica fra io e alterità: “Dai una definizione di solitudine. / Sì. / È quello che non possiamo fare gli uni per gli altri. / Cosa significhiamo gli uni per gli altri? / Qual è il significato di una vita? / Perché siamo qui se non gli uni per gli altri?”.

Fotografia header: GettyEditorial 16-07-2021

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