“Scelgo tutto (titolo del nuovo romanzo del regista Valerio Mieli, ndr), all’inizio significa volere tutto, cioè non saper rinunciare. Più avanti, però, prende il significato opposto: scegliere tutto ciò che ti capita, dire sì alla vita così com’è. Sono due visioni opposte, che hanno entrambe una loro validità…”. Su ilLibraio.it l’autore ne parla con la scrittrice Ilaria Gaspari. Al centro del dialogo (in cui ha ampio spazio il tema dell’immaginazione), un romanzo di formazione che spariglia le premesse del genere – ovvero, che esista un’unica vita a cui prepararsi, vivendo…
Scelgo tutto è una storia doppia: la storia di Cosimo, che di vite ne vive non una ma due. Perché come tutti noi conosce la seduzione delle sirene che ci sussurrano che la vita non può che essere altrove; e conosce però anche la prosa dei giorni, la fatica di crescere, l’usura del vivere. I dolori inevitabili e quelli autoinflitti: che sono reali nella vita attuale tanto quanto in quella immaginata.
Perché, forse, non è poi così importante stabilire quale esistenza sia più vera dell’altra. L’autore di questo romanzo di formazione che spariglia le premesse del genere – ovvero, che esista un’unica vita a cui prepararsi, vivendo – Valerio Mieli, è regista di due film molto amati dal pubblico, Dieci inverni e il più recente Ricordi?.
Si cimenta, con Scelgo tutto (La Nave di Teseo), nella costruzione di un romanzo insieme vertiginoso e schietto, tenendo insieme il gusto per la narrazione e quello per le domande paradossali, per le ipotesi impossibili, tutti i condizionali e gli e se… in cui inciampiamo continuamente vivendo, nella forza plastica delle immagini della vita di Cosimo, fra i boschi e le strade della sua cittadina del centro Italia e il richiamo seduttivo di città lontane, fra le smanie della fantasticheria e il richiamo delle lontananze, e la scoperta sorprendente che attraverso un trucco pericoloso come può esserlo un desiderio esaudito la vita trovi un modo per addomesticare anche i cuori più inquieti.
Com’è stato tornare a confrontarsi con la scrittura, dopo un film come Ricordi??
“In realtà anche quando lavoro a un film passo molto tempo a scrivere, prima di cominciare a girare. Ma la grande differenza è fra scrivere qualcosa che è pensato per essere letto così com’è – un libro, ad esempio – e scrivere qualcosa che invece verrà trasformata attraverso l’interpretazione”.
E le è pesato?
“Mi è pesato, ma mi è anche piaciuto: la difficoltà maggiore è stata abituarmi a questo senso di libertà totale, all’idea di poter creare da zero dei mondi, dei personaggi, senza avere il riferimento di interpreti in carne e ossa, e di poter poi scegliere degli ambienti in cui farli muovere senza dover prendere accordi pratici, senza i limiti della produzione – e questo è molto bello ma anche un po’ una vertigine. Soprattutto per qualcuno che ha difficoltà a scegliere”.
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Infatti… era qua che volevo arrivare. Il tema del libro ci riguarda tutti – certo, ci sono persone più indecise di altre, ma tutti siamo chiamati, vivendo, a scegliere. Confrontandosi con questa materia e strutturando in questo modo la storia, possiamo dire che si è trovato moltiplicare le scelte, a elevarle a potenza, facendone delle meta-scelte anche narrative?
“Altroché, se possiamo! In effetti, avevo la possibilità di raccontare ancora più scelte possibili, aumentare ancora le opzioni; in un primo tempo l’avevo fatto, però poi mi rendevo conto che c’erano delle storie che riuscivo a far progredire, altre che si inceppavano: capitava che il personaggio suonasse falso, perché stava andando fuoripista. E così questo è diventato il mio criterio, per sfoltire e arrivare a due sole alternative…”.

L’APPUNTAMENTO – Torna ad Andria il Festival della Disperazione, la manifestazione letteraria che, con risvolti seri e ironici, celebra il potere trasformativo di questo sentimento. Un eterno affanno è il tema di questa IX edizione, che vedrà numerosi ospiti salire sul palco del Seminario Vescovile di Andria per l’occasione, come Valerio Aprea, Francesco Pannofino, Maria Grazia Calandrone, Valerio Lundini, Antonella Lattanzi, Nicola Lagioia e molti altri. Tra loro anche lo scrittore e regista Valerio Mieli, che il 4 luglio alle ore 20, esplorerà il tema delle possibilità che la vita ci offre con l’incontro Esiste una strada per essere fel,ici? ispirato al suo ultimo romanzo Scelgo tutto (La nave di Teseo).
Forse è questo, che succede anche nella vita, no? Quella di avere tutte le porte aperte, tutte le possibilità a disposizione, è un’idea angosciante, vertiginosa. Ma anche vivendo, poco a poco ci accorgiamo che certe porte in teoria sono aperte, ma poi ci respingono, non ci corrispondono…
“Sì, è vero, e penso che sia proprio a questo che la storia approda. D’altra parte, se il tema della scelta è il tema centrale del libro — sta nel titolo — quello che forse mi interessava di più, e che gli è legato, è il tema dell’immaginazione. Se Ricordi? era fatto solo delle immagini mentali dei personaggi, questo libro è fatto delle proiezioni dei personaggi. Una cosa che facciamo costantemente non è solo chiederci come sarebbe stato se, o coltivare dei rimpianti; è immaginarci altrove, in un’altra situazione, costruire quelli che chiamiamo, peraltro, film mentali: come saremmo, cosa potremmo fare. In un certo senso – me ne sono reso conto a libro finito – questo romanzo è la controparte di Ricordi?, che era un film sul passato. Qui al centro c’è invece il futuro”.
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Come le è venuta l’idea di scriverlo così, dividendo in due la pagina?
“Mi è venuta subito, ma per una questione molto pratica; di leggibilità, semplicemente”.
Ha scritto prima tutta una versione e poi tutta l’altra?
“Ho fatto, per cominciare, molti schemi. Venendo dalla sceneggiatura, sono abituato a un vincolo molto stretto: a non cominciare a scrivere se non so, prima, che cosa scriverò. Avevo insomma molto chiaro dove andare a parare, con l’idea che le storie potessero stare in piedi da sole, che fossero leggibili indipendentemente l’una dall’altra: cioè, volendo, potevano essere due romanzi. Non ho iniziato dall’inizio ma dal centro: la prima cosa che ho scritto per esteso era il cuore del romanzo, la parte centrale — che spesso anche nei film è quella a cui do più importanza, anche se so che è una prospettiva un po’ controcorrente. Lo so perché so che poi, come nelle relazioni, uno magari si ricorda il primo incontro, o la volta che ci si è lasciati: ma, credo, quello che conta davvero sono i tanti anni in cui si sta insieme”.
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Ha preso la domanda esistenziale per eccellenza – che vita scelgo? – e l’ha trasformata in una risposta immaginativa…
“… e credo che questo sia anche il motivo per cui ho smesso di fare filosofia. Tendo a ricondurre le domande a storie: e mi sembra di aver trovato delle risposte possibili, risposte che, almeno, valgono per me. Ma non sono nell’ultima frase, nel finale, nel bilancio o nel “senno di poi”; sono nel dispiegarsi dei due racconti paralleli”.
Ma questa ricerca di risposte “narrative”, questo cercare l’universale nel particolare, anziché in una legge fissa, dogmatica, sembra, di per sé, frutto di un autentico atteggiamento filosofico.
“L’idea era quella di fare un esperimento. Prendere un personaggio, inserirlo in due ambienti diversi, come si fa con le Drosophila nei laboratori, e vedere che tipo di essere ne viene fuori. Perché funzioni davvero, però, non si può barare. Quando un personaggio devia da ciò che è, lo senti. Lo senti anche nella lingua: la scrittura si fa involuta, artificiosa. Come nella vita, quando uno esagera per convincersi”.
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Quindi l’esperimento ha funzionato?
“Mi pare di sì. Almeno, a me pare di essere approdato a delle conclusioni coerenti. Poi, non so se mai lo rileggerò dall’inizio alla fine, a distanza di tempo; non so se gli scrittori lo facciano, se si rileggano i propri libri… Io non lo rileggerei, credo, per paura di trovare degli errori”.
Nemmeno io mi rileggerei mai, per la stessa ragione. Nelle esistenze alternative di Cosimo, si intrecciano gli incontri: è un romanzo che risponde a una domanda esistenziale, una domanda al singolare, abbiamo detto, ma è anche un romanzo di relazioni, di personaggi.
“Ci tenevo che al centro della storia, stavolta, non ci fosse la storia d’amore. O meglio: che ci fosse, ma non come il fulcro di tutto. Perché è solo una parte della vita. Lo so, nella mia filmografia c’è spesso l’amore, ma qui volevo concentrarmi sul senso più ampio dell’immaginazione: sull’idea che invece di vivere solo la nostra vita, passiamo il tempo a immaginarne altre. Ma, se impariamo ad accettarlo senza farci schiacciare dai rimpianti, può diventare un modo per arricchire la vita reale. Che è sempre affollata di persone. E infatti è un libro corale, sì, ed è la prima volta che lavoro così sui personaggi, perché quando hai degli attori i personaggi li costruisci anche insieme a loro, è anzi meglio che nascano dalla collaborazione e non dalla pura scrittura; a me piace molto lavorare insieme agli attori, ma è innegabile che poi il personaggio appartenga molto più a loro, che gli prestano viso, corpo, voce, che a te che l’hai scritto. Qui, invece, ho dovuto costruire, da solo, la complessità dei singoli personaggi, il loro carattere. È stata un’avventura”.
E cos’ha scoperto?
“Mi sono accorto che ho dovuto lavorare più assiduamente proprio su quelli che mi parevano più familiari, come Marie, l’artista, che mi sfuggiva: non volevo che fosse un cliché, mi sono rimboccato le maniche e l’ho scritta e riscritta fino a vederla con chiarezza. Poi mi ha aiutato l’umorismo, come nel personaggio di Corrado, che è un saggio ma è anche buffo, e questo mi sembra molto plausibile nella realtà”.
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E il titolo, Scelgo tutto, quando è arrivato?
“Tardi: ne avevo una lista infinita. Ancora una volta, il tema della scelta. Scelgo tutto è una citazione di Santa Teresa di Lisieux: non ho una formazione religiosa, ma mi aveva colpito, e del resto mi rendo conto che, anche solo per la scelta dei temi, questo libro ha degli elementi mistici, sapienziali. Scelgo tutto all’inizio significa volere tutto, cioè non saper rinunciare. Più avanti, però, prende il significato opposto: scegliere tutto ciò che ti capita, dire sì alla vita così com’è. Sono due visioni opposte, che hanno entrambe una loro validità, io credo. E mi piace la semplicità della formula: non volevo scrivere un libro solenne, la solennità non mi appartiene”.
Infatti, questo libro ha qualcosa di molto giovane: non solo l’età del protagonista quando lo conosciamo, ma una forma di schiettezza, di franchezza, anche nello stile. Come se cercasse sempre il nuovo dietro l’apparenza dell’abitudine?
“Mi fa molto piacere questa impressione. E mi fa pensare al mio passato di fotografo. A Roma, dove vivo – e che pure è Roma! – non riesco a fotografare quasi niente. Vedo tutto troppo bene, troppo conosciuto. Quando a un certo punto sono andato in Giappone, invece, scattavo continuamente: tutto sembrava degno di essere fotografato, tutto mi pareva straordinario: era il Giappone, era un palazzo giapponese, un albero giapponese, una strada giapponese… Ma quando poi ho riguardato le foto, erano tutte uguali. Per trovare la distanza giusta, serve l’immaginazione. Lo stesso vale per la scrittura”.
Può permetterci anche, forse, di vivere questa vita, immaginandocene altre mille.
“Esatto. L’immaginazione, se impariamo a addomesticarla e non ce ne lasciamo ossessionare, facendone una condanna, è un’immensa risorsa. So che molte persone vivono una vita e pensano, intanto, all’altra vita che potrebbero fare in quel momento. Lo so perché è successo anche a me, adesso mi pare che si sia attenuato, con il passare degli anni. Alla fine, nel romanzo, le due vite si disegnano a vicenda. Sono reali e immaginate insieme. È un meccanismo narrativo, certo, ma è anche un modo per ricordarci che possiamo restare dove siamo e, nel frattempo, vivere altrove. Con la mente, con l’arte, con la scrittura. Passare tanto tempo a immaginarci le vite che non abbiamo: ma non è detto che sia un male, se non ci impedisce di vivere la vita che in effetti abbiamo. Imparare a godersi anche tutte le vite immaginarie, senza farsi schiacciare dal peso del rimpianto, ma dicendo: vivo questa, in più le altre me le posso immaginare… a me sembra bello. L’immaginazione può anche arricchire la vita presente, purché non la si prenda troppo sul serio”.
Oltretutto, la vita immaginata ha il vantaggio di non essere faticosa come quella reale.
“È la protezione incredibile che ti offre questo uso dell’immaginazione. Infatti non capisco come fanno le persone che non riescono a capire che, se realizzare tutti i desideri è impossibile, esiste però la possibilità di immaginarli realizzati. Anche perché, come dice quella citazione naturalmente attribuita a Oscar Wilde: Ci sono solo due tragedie nella vita: una è non ottenere ciò che si desidera, l’altra è ottenerlo”.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice di ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.
Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
Guanda a marzo 2024 ha pubblicato il suo secondo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità. Da poco è tornata in libreria con il racconto lungo L’hotel del tempo perso – Non rubare, un giallo a tinte filosofiche che omaggia Agatha Christie e le sue atmosfere, uscito in una nuova collana Rizzoli ispirata ai dieci comandamenti.
Fotografia header: Valerio Mieli, foto di Lorenzo Scudiero (Il Cinema in Piazza - Fondazione Piccolo America)