Scritto nel 1937 dal premio Nobel John Steinbeck, “Uomini e topi” è un piccolo enorme capolavoro della letteratura americana e mondiale, insieme a “Furore”. Il realismo poetico dell’autore ha in quest’opera la sua sintesi perfetta: nello stile asciutto e netto che lo contraddistingue, Steinbeck racconta un episodio di vita dell’America rurale, che diventa allegoria di tutta l’emarginazione degli ultimi. Tutto risuona di minaccia e di fallimento nelle pagine: aleggia sui protagonisti il senso di una tragedia inevitabile. Una storia cruda di amicizia e di impegno, di “dolore e pena”

“Nell’aria c’era un ronzio di mosche, il pigro brusio del meriggio. Dall’esterno giungeva un clangore di ferri di cavallo contro il piolo e le grida degli uomini che giocavano, incoraggiavano, deridevano. Ma nel granaio c’era silenzio, e brusio, e ozio, e caldo”.

Non si può rileggere Uomini e topi senza ricordare le parole con cui a John Steinbeck è stato conferito il premio Nobel: “Per le sue scritture realistiche ed immaginative, che uniscono l’umore sensibile e la percezione sociale acuta”.

Scritto nel 1937, Uomini e topi è un piccolo enorme capolavoro della letteratura americana e mondiale, insieme a Furore. E quelle parole, che sintetizzano la motivazione del riconoscimento, lo fotografano pienamente.

uomini e topi John Steinbeck

Il realismo poetico di Steinbeck ha in questo breve romanzo la sua sintesi perfetta: nello stile asciutto e netto che lo contraddistingue, Steinbeck racconta un episodio di vita dell’America rurale che diventa allegoria di tutta l’emarginazione degli ultimi. Al centro il mondo dei braccianti, che viaggiano da un ranch all’altro in cerca di lavoro.

George Milton e Lennie Small sono due disgraziati, che lavorano spaccandosi la schiena, caricandosi sacchi d’orzo dalla mattina alla sera, a sud di Soledad, California. Si muovono insieme, George piccolo e sveglio, Lennie un gigante rimasto bambino, dalle braccia che penzolano flosce mentre cammina: la loro è un’amicizia rara, il loro un destino già scritto. Perché nell’America della grande depressione c’è povertà e sopraffazione, un senso stagnante di violenza repressa, il sentimento di una disperazione straziante.

In un mondo in cui tutti hanno paura dell’altro, George e Lennie stanno uniti, la mente e il corpo, il piccolo a fare da protettore, da guida, da fratello al bestione che ama accarezzare le cose belle e morbide, un innocente dalla forza smisurata. Hanno un sogno, che si raccontano all’infinito, come una cantilena, una ninnananna che tranquillizza Lennie.

“Di’ della casa, George,” supplicò Lennie.

“Va bene, avremo una casetta e una stanza tutta nostra. Una stufetta di ghisa bella panciuta, e d’inverno la accendiamo e la lasciamo bruciare. Terra non ce ne sarà molta, così non dovremo lavorare troppo. Magari sei, sette ore al giorno. Non dovremo sollevare l’orzo per undici ore al giorno.”

Mettere da parte un piccolo gruzzolo è l’obiettivo di tanti, ma poi la fatica e la frustrazione spengono tutto: i soldi si bevono, si spendono nei bordelli, i sogni si dimenticano. Sono convinti di essere diversi, George e Lennie, di poter contrastare l’ineluttabile. Uomini e topi è un romanzo di sogni impossibili, o infranti: accanto a chi, come i due protagonisti, vede davanti a sé la fantasia di un pezzo di terra, qualche coniglio da allevare, e una vita dignitosa da vivere, c’è chi ha visto le sue ambizioni infrangersi. La moglie di Curley, manesco e sbruffone figlio del padrone, aveva accarezzato l’irreale prospettiva di una carriera nel cinema, un luccichio che quotidianamente ha davanti agli occhi come un’allucinazione, mentre gironzola tra la polvere del ranch con i sandaletti piumati e il rossetto, unica donna tra tutti quei braccianti, una malizia seducente che sembra quasi avere la potenza di una tentazione biblica.

Sono miraggi di libertà, paradisi impossibili, perché tutti sono impigliati in quella landa di sacrificio, miseria e di umiliazione. Nei romanzi di Steinbeck nessuno va in Paradiso, non c’è spazio per il sogno americano. La sua “percezione sociale acuta” è la denuncia di un mondo di prevaricazione e bisogno, l’occhio attento alla vita degli sfruttati, di quei lavoratori stagionali che sono schiacciati dalla vita, non appartengono a nessun posto, non hanno nulla e nessuno se non loro stessi, come George e Lennie, come tanti disperati ancora oggi, manodopera a poco prezzo, che si affannano invisibili.

Per gli emarginati non c’è niente da fare, i loro progetti sono destinati a un esito cattivo, come quelli dei topi e degli uomini della poesia di Robert Burns, da cui Steinbeck ha preso il titolo originario (On mice and men), e che non hanno altro che dolore e pena.

Tutto risuona di minaccia e di fallimento nelle pagine di Uomini e topi: aleggia sui protagonisti il senso di una tragedia inevitabile, il presentimento di un dramma, in un’atmosfera carica e gonfia di tensione come prima di un temporale.

Con l’andamento di un pièce teatrale, e con la scelta di ambientazioni semplici dalla scenografia essenziale, dal granaio, al dormitorio, all’alloggio dello stalliere di colore, che vive segregato ed evitato dagli altri braccianti, i protagonisti entrano in scena a interpretare ognuno la propria storia di solitudine, l’incomunicabilità dei propri pensieri, senza speranza né redenzione.

Tradotto da Michele Mari per Bompiani (dopo la prima traduzione di Cesare Pavese), Uomini e topi è una storia cruda di amicizia e di impegno, di “dolore e pena”, un episodio emblematico di lotta dell’uomo contro la vita e un esempio memorabile di narrazione psicologica, come solo “l’umore sensibile” di Steinbeck poteva costruire, dove la pietà di George e l’innocenza di Lennie emergono con una potenza quasi mitologica, che li rende universali ed eterni.

“Avremo conigli di tanti colori, vero George?”
“Certo che ne avremo,” disse George insonnolito. “Conigli rossi e blu e verdi, Lennie, a milioni.”
“E di quelli a pelo lungo, George, come ho visto alla fiera di Sacramento.”
“Come no, a pelo lungo.”

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