Nell’era della webdipendenza e del viaggio virtuale, attraversare il globo alla scoperta dei suoi angoli più o meno remoti è diventato un’occupazione alla portata di tutti, ma non ha messo in discussione il viaggio sulla pagina scritta… – L’approfondimento

Alla tenera età di centocinquant’anni appena compiuti, la gloriosa Società geografica italiana non organizza più spedizioni nei luoghi più sperduti del Pianeta come ha fatto con successo nel corso della sua lunga storia, dal cuore dell’Africa al Passaggio a Nord Ovest. La sua missione oggi è principalmente scientifica e divulgativa e il suo patrimonio più importante è racchiuso nella splendida sede di Villa Celimontana a Roma: un archivio di centinaia di migliaia di volumi e carte di straordinario valore documentario.

Nell’era della webdipendenza e del viaggio virtuale, dei voli low cost e dell’avvento del turista da resort, attraversare il globo alla scoperta dei suoi angoli più o meno remoti è diventato un’occupazione alla portata di tutti ma non ha messo in discussione il viaggio sulla pagina scritta, che resta una tappa fondamentale per chiunque sia in cerca conoscenza ed emozioni d’autore. Se comprensibilmente il mercato delle guide di carta è in flessione, la passione per il travel writing, per i grandi libri di viaggio e avventura sembra tutt’altro che spenta: basti pensare alla storia del mondo ricostruita Sulle Mappe da Simon Garfield (Ponte alle grazie, traduzione di M. Bottini e S. Placidi) alla guida ai luoghi più curiosi e misteriosi dell’Atlas obscura di Joshua Foer, Dylan Thuras ed Ella Morton (Mondadori, traduzione di T. Albanese e G. Cecchini); o a classici come Quando viaggiare era un piacere di Evelyn Waugh (Adelphi, traduzione di D. Mezzacapa),  Latinoamericana, il diario per un viaggio in motocicletta di Ernesto “Che” Guevara (Feltrinelli, traduzione di P. Cacucci e G. Corica), In Patagonia di Bruce Chatwin (Adelphi, traduzione di M. Marchesi), libro culto per generazioni, In un Paese Bruciato dal Sole. L’Australia di Bill Bryson (Guanda, traduzione di S. Viviani), vero e proprio inventore dell’umorismo di viaggio, Strade Blu di William Least Heat-Moon (Einaudi, traduzione di I. Legati), in viaggio sulle vie secondarie d’America (quelle segnate appunto con quel colore sulle mappe a stelle e strisce) che è diventato addirittura il nome di una celebre collana di narrativa di Mondadori.

Dietro il viaggio c’è poi spesso una storia o un vero e proprio romanzo come nel caso della Tempesta perfetta (Rizzoli, traduzione di M. Bocchiola), nella ricostruzione del viaggio antartico di Shackleton o alla catastrofe sull’Everest raccontata in presa diretta da Krakauer in Aria sottile (Corbaccio, traduzione di L. Perria): un genere di libri per cui è stato coniato dal giornalista americano John Thierney, il termine explornography, una sorta di passione pornografica per le grandi imprese dell’esplorazione e soprattutto per le grandi tragedie della mitologia alpinistica e marina, per la quale i lettori sembrano chiedere con rinnovata insistenza di leggere attraverso il buco della serratura, descrizioni meticolose di fatti, personaggi ed emozioni dell’avventura. E questo fa una certa impressione in un mondo dove muoversi da una parte all’altra del pianeta è più facile che trovare parcheggio sotto casa, ma in cui evidentemente lo spazio e la voglia per viaggiare con i sogni conservano ancora una forza straordinaria.

Il Corriere della Sera ripropone in questo periodo in edicola il ciclo dei Pirati di Mompracem di Emilio Salgari. Ora una delle prime cose che ti insegnano di Emilio Salgari è che i luoghi tropicali e i personaggi affascinanti che descrive, l’autore veronese, non li aveva visti nemmeno da lontano. Particolare tutto sommato irrilevante per giovani e meno giovani lettori che si accingono a immergersi nelle avventure di Sandokan il coraggioso, dell’astuto Yanez e della bellissima perla di Labuan. Intanto perché è noto che gli scrittori si dividono a spanne in due categorie: quella di coloro che – come si suol dire – viaggiano con la fantasia (ma  che viaggiano in realtà sui libri o sui documenti altrui) e quelli che raccontano se stessi (e quanto hanno osservato più o meno personalmente). E poi perché per i molti che hanno visto l’ormai pur datata traduzione televisiva o cinematografica salgariana, Sandokan non può che avere i tratti di Kabir Bedi, Yanez quelli Philippe Leroi, e soprattutto il Borneo era in realtà il Kerala indiano (uno dei luoghi delle riprese).

Che i luoghi siano quelli autentici, o presunti tali, insomma, poco importa. Più interessante notare invece che i romanzi di un narratore per lo più snobbato dalla critica siano stati e continuino a essere una lettura frequentatissima (e in qualche caso determinante) per intere generazioni di lettori e di autori dalle caratteristiche più lontane dimostrando come uno scrittore “per ragazzi”, giudicato addirittura diseducativo, abbia in realtà continuato nel tempo a diffondere una forte suggestione, che rientra forse tuttora nell’immaginario popolare e risponde soprattutto a una precisa e mai defunta esigenza di evasione fantastica.

La scrittura di viaggio in Italia ha una grande tradizione che si potrebbe far risalire molto lontanamente al Milione di Marco Polo per arrivare ai reportage di Guido Piovene, passando per le opere dell’orientalista Giuseppe Tucci, la Tenda Rossa di Umberto Nobile (Mondadori) e La metà del mondo vista da un’automobile. Da Pechino a Parigi in 60 giorni di Luigi Barzini (Touring), e ancora per scrittori come Tiziano Terzani, autore di magistrali reportage come In Asia e di memoir straordinari come Un indovino mi disse (Longanesi), il triestino Paolo Rumiz (È oriente, Trans Europa Express, Appia, tutti editi da Feltrinelli) e Stefano Malatesta, di cui è appena uscita un’antologia dei migliori articoli giornalistici, e che ha firmato affascinanti affreschi di luoghi lontani come Il grande mare di sabbia che ci schiude storie di uomini e donne nelle grandi distese desertiche o Il cammello battriano e Il cane che andava per mare (Neri Pozza), dove ricorre una sorta di elegante eccentricità – da cui l’autore evidentemente è tutt’altro che esente – che è la stessa appunto di alcuni grandi viaggiatori del passato come di alcuni leggendari personaggi siciliani.

Con Malatesta approdiamo in avamposti come Dunhuang, un’oasi sperduta tra la Mongolia e il Tibet, tappa iniziale della Via della seta per i mercanti provenienti dalla Cina e quella finale per chi partiva dal Mediterraneo: parte di una cultura, fiorita per mille anni e poi scomparsa sotto la sabbia. Per arrivarci l’autore ha seguito le antiche strade carovaniere, sulle tracce di geografi, avventurieri e pellegrini. È stato a Kashgar, il più grande mercato dell’Asia centrale e nelle valli dell’Himalaya, dove è nato il mito di Shangri-là. E incontriamo personaggi straordinari: dal conte Laslo von Almasy, noto come “Il paziente inglese”, a Fabrizio Mori, l’archeologo che ha rivelato il meraviglioso ciclo delle pitture rupestri della Libia; da Wilfred Thesiger, il primo uomo che ha attraversato il Rub al-Khali, il deserto più spaventoso del mondo, a Winston Churchill, che combatté nel deserto del Sudan contro i seguaci del Mahdi, e ad Alexander Korda, che con i suoi film, ha lasciato impressa per una generazione l’immagine dell’Africa coloniale.

Storie e personaggi sono quelli che l’inviato di guerra di Repubblica, ha incontrato direttamente come viaggiatore e ricostruito con la fantasia del narratore e spesso come attento esploratore di libri di cui è cultore appassionato. Un uomo d’altri tempi, con i modi e i gusti di un gentiluomo anglosassone. Negli anni Trenta lo si sarebbe trovato a suo agio in qualche club londinese o in un salotto della Royal Geographic Society intento a raccontare le proprie avventure in Africa, Medio o Estremo Oriente.

Ma un vero viaggiatore deve saper ascoltare e interpretare anche il silenzio dei luoghi più lontani. Come ha scritto Ryszard Kapuscinsky, “i mass media si dedicano più volentieri a eventi mondiali clamorosi, rumorosi, e troppo poco esplorano il silenzio. Il silenzio è un segnale della tragedia e spesso del crimine. Il silenzio è necessario ai tiranni e agli occupanti”. È quel silenzio che si ritrova in ognuna delle guerre dei poveri che il lo scrittore polacco ha raccontato magistralmente nella La prima guerra del football e altre guerre di poveri (Feltrinelli, traduzione di V. Verdiani). È il silenzio prima della guerra scatenata da una partita di pallone (quella tra Salvador e Honduras nel 1969), è il silenzio dopo il “rumore sordo” della battaglia, è il silenzio assordante che attraversano i giornalisti in una città del Congo sotto il coprifuoco prima dell’assassinio di Lumumba. È insomma il silenzio, o la tregua armata tra un’ora e quella successiva di queste guerre del terzo e del quarto mondo, che Kapuscinsky sa raccontare come pochi altri, portando al lettore i fatti attraverso il respiro e il passo di autentico narratore.

Giornalista anomalo nel panorama internazionale, Kapuscinsky nasce in un paese polacco che oggi si trova entro i confini della Bielorussia, ed è stato per natura un inquieto pellegrino del mondo: nel 1958, poco più che venticinquenne, parte per l’Africa e prosegue poi il suo percorso attraverso l’America latina e il resto del mondo iniziando a raccontare paesi lontani e quasi sconosciuti come il Ghana, il Congo, il Sudafrica, l’Algeria, l’Honduras, il Salvador. Ma è anche la persona più lontana che si possa immaginare dal cinico cacciatore di scoop o dalla starlette del divismo giornalistico; eppure è sempre stato nel posto giusto al momento giusto, o meglio nel posto sbagliato al momento sbagliato. Perché il fiuto per il silenzio appunto lo ha portato dove accadevano o stavano per accadere alcuni dei grandi eventi e delle maggiori tragedie dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina.

Come autore di libri in Italia ha tardato a trovare un largo pubblico ma col tempo sono diventati inevitabilmente dei classici titoli come Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate e Imperium (entrambi Feltrinelli, tradotti da V. Verdiani) che affondano sapientemente nella storia il tentativo di capire il presente di Paesi dimenticati ritrovarti e ricostruiti con pazienza e lucidità dall’autore. E il successo è poi arrivato con libri come Ebano (Feltrinelli, traduzione di B. Verdiani) forse proprio quando è diventato più forte il desiderio di capire cosa succede oltre i confini nazionali come avviene oggi perché maggiore è l’incertezza sul futuro dell’intero scenario internazionale e perché è sempre vero quanto dice Kapuscinsky dei Paesi del terzo e del quarto mondo – e cioè che per ottenere attenzione e visibilità hanno bisogno di spargere sangue, o di brandire armi di distruzioni micidiali – ma è anche vero che la minaccia di spargere sangue è un virus che ha contagiato anche Paesi prosperi e potenti che pretendono di assumere in qualche caso il monopolio della verità o della moralità universale.

«L’arte di viaggiare pone una serie di interrogativi il cui studio potrebbe modestamente contribuire alla comprensione di ciò che i filosofi greci indicavano con la bella espressione eudaimonia, ovvero felicità». Con la leggerezza e l’affabilità che lo contraddistinguono Alain de Botton ha scritto un manuale prezioso per riscoprire il fascino del viaggio e di ciò che lo circonda. Aspettativa, luoghi, mezzi di trasporto, curiosità, arte, sono queste gli elementi fondamentali di una riflessione articolata in cinque fondamentali tappe del pensiero: partenza, motivazioni, paesaggio, arte e ritorno. Ognuna di queste è affrontata da de Botton con l’aiuto di una guida particolare che conduce alla scoperta di spazi reali e di luoghi dello spirito e della mente. In compagnia di Huysmans e del suo romanzo Controcorrente (Garzanti, traduzione di C. Sbarbaro), l’autore affronta il tema di aspettative e delusioni immancabilmente legate al viaggiare; con la poesia di Baudelaire e i quadri di Hopper coglie la forza evocativa dei luoghi di transito e dei mezzi di trasporto; grazie agli sguardi di Flaubert e di Humboldt scopre l’affascinante urbanistica di Amsterdam e la bellezza di Madrid. I versi di Wordswoth impregnati dall’aura di pacata serenità della campagna inglese sono invece i veicoli per ragionare di pace interiore, mentre le descrizione dei sublimi deserti del Sinai nel biblico libro di Giobbe evocano una profonda meditazione sulla fragilità umana. Mescolando l’apparente banalità del quotidiano alle intuizioni di questi ed altri grandi artisti, scrittori e pensatori di ogni tempo, Alain de Botton, l’autore di Le consolazioni della filosofia (Guanda, traduzione di A. Rusconi), non solo ci invita a riscoprire la bellezza del viaggio ma ci aiuta anche a cogliere la bellezza dei luoghi consueti e familiari, spesso invisibile ai nostri occhi distratti.

le consolazioni della filosofia de botton

Possono scrittori, artisti e filosofi rivelarsi ottimi compagni di viaggio? De Botton non ha dubbi e affida a guide illustri del passato il compito di scandire partenze e ritorni, grandi aspettative e piccole ma cocenti delusioni. Luoghi, speranze, curiosità, evocazioni e ritorni che un viaggio tra le righe di un libro può rendere affascinanti e indimenticabili.

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