William Burroughs (5 febbraio 1914 – Lawrence, 2 agosto 1997) viveva come scriveva: in bilico tra un urgente annientamento e il desiderio di raggiungere un paradiso perduto. Figura controversa, ha sempre raccontato i propri abusi e i propri drammi, rendendo la sua vita un romanzo e ispirando, così, adattamenti di successo (da “Il pasto nudo” di David Cronenberg al più recente “Queer” di Luca Guadagnino). Ripercorriamo la vita e le opere dell’acido paroliere: dalla Beat Generation agli scandali, dalla fuga in Messico all’abuso di droga, fino al successo grazie ai suoi crudi romanzi…
La vita (e l’opera) di William Burroughs, scrittore capace di “calzare” le etichette più esoteriche: acido paroliere, sciamano metropolitano, frenetico frugatore degli antri liminali della coscienza alla ricerca di aspetti scabrosi da “vomitare” sulla pagina bianca.
Un curriculum di tutto rispetto quello del dissoluto Bill (all’anagrafe William Seward Burroughs II), nato a Saint Louis il 5 febbraio 1914 e affermatosi come uno degli scrittori più importanti della Beat Generation e, per estensione, della letteratura americana del secondo Novecento.
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Burroughs fu l’anima di un movimento complesso, letterario e non, incarnato – tra gli altri – da Jack Kerouac, Lucien Carr, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti. Menti disallineate ma con coordinate tanto ferme quanto rivoluzionarie: il rifiuto delle norme imposte è primario; l’innovazione stilistica è centrale; la sperimentazione sregolata di ogni sostanza alterante (al di là delle conseguenze psicofisiche; al di là della legge, divina o terrena che sia) è quantomeno necessaria.
Autori che alimentarono come vampa inestinguibile, direttamente o indirettamente, la controcultura sessantottina (dalla ferma opposizione alla guerra del Vietnam alla leggendaria Woodstock). Il tutto, protratto da un’anticonformista “gioventù bruciata“, nella quale l’acido alchimista di Saint Louis mira a identificarsi da ben prima della fisiologica ribellione adolescenziale.
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“Da piccolo volevo fare lo scrittore perché gli scrittori erano ricchi e famosi”, racconta l’autore statunitense nella raccolta di saggi La calcolatrice meccanica (Adelphi, traduzione di Andrew Tanzi): “Se ne stavano in panciolle a Singapore e Rangoon a fumare oppio nei loro abiti di seta pongee gialla. Tiravano di coca a Mayfair, penetravano paludi proibite con un fedele ragazzo indigeno e vivevano nel quartiere indigeno di Tangeri fumando l’hashish e accarezzando languidamente una gazzella domestica”.
Ha le idee tanto chiare quanto estreme il giovanissimo Burroughs, che durante la propria vita riuscirà – spesso e volentieri, suo malgrado – a trasformare in azioni concrete le astratte fantasie giovanili. Prima, però, gli inizi: torbidi, difficili, burroughsianamente sregolati.
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GLI INIZI E GLI ECCESSI
Nato in una famiglia benestante, celebre per l’invenzione delle calcolatrici meccaniche, Burroughs si distingue subito come una proverbiale “pecora nera“. Nonostante la dispendiosa formazione ad Harvard, dove studia letteratura e antropologia, la sua vita prende subito una via dissestata, diversa da quella “comoda” e lineare autostrada predisposta con cura dai genitori, percorribile tranquillamente con il pilota automatico.
Anche la propria vita amorosa e sessuale, contraddistinta da un’omosessualità per alcuni ambigua e altalenante, non viene mai accettata dal nucleo famigliare. Solo blandamente tollerata.
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Così come inizialmente tollerate sono le svariate dipendenze, tra le quali svettano morfina ed eroina. Questi primi incontri sono raccontati in Junky (Adelphi, traduzione di Andrew Tanzi), primo romanzo di William Burroughs, dove alterna tortuose discese nella droga a limpide risalite grazie alla scrittura. Una massacrante “altalena” che lo porta prima a perdere il sostegno familiare, poi a compiere i lavori più disparati per finanziare la propria “scimmia”, e infine a stringere pericolosi rapporti con la criminalità organizzata.
Burroughs vive un periodo buio, cupo, di completo smarrimento. Eppure, come in ogni discesa, c’è un fondo da toccare prima di poter risalire, un punto di non ritorno capace di spingere chiunque a confrontarsi con i propri demoni. Burroughs, però, non è ancora giunto al fondo dell’abisso; la caduta continua, lenta e inesorabile, come una lunga notte senza alba.
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Il punto di non ritorno è da rintracciare nel 1943 quando, trasferitosi in Messico con la seconda moglie Joan Vollmer (in un sodalizio a base di stupefacenti e alteranti), quest’ultima rimane vittima di un tragico incidente. Durante un gioco ispirato a Guglielmo Tell – dove una mela apposta sulla testa di un figurante viene centrata da un abile arciere – un alterato (e dunque non troppo abile) Burroughs spara accidentalmente alla figurante-Joan, uccidendola. Un episodio che perseguiterà l’autore per il resto della propria vita, e che lo spinge definitivamente verso la scrittura, riparo sicuro dai suoi demoni.
Da quel momento, la sua vita si trasforma in un viaggio inquieto, un’odissea senza pace tra l’America Latina, l’Europa e il Nord Africa, sempre al servizio della narrazione. Burroughs racconta paure distillate e violenza lucida, esplorando terre lontane e abissi interiori, spinto da tossiche peregrinazioni.
Sotto sotto, una recondita consapevolezza lo anima: una volta toccato il fondo, si può soltanto risalire.
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DA PASTO NUDO AL SUCCESSO
Autore di diciotto romanzi, sei raccolte di racconti e quattro volumi di poesia (oltre a cinque ulteriori opere che raccolgono interviste, corrispondenze e testimonianze), l’impronta più marcata dello scrittore statunitense nella letteratura mondiale è sicuramente Pasto nudo (Adelphi, traduzione di Franca Cavagnoli).
Un’opera – primo volume di una tetralogia che comprende La macchina morbida (1961), Il biglietto che esplose (1962) e Nova Express (1964) – alla quale Burroughs ne La calcolatrice meccanica dice di essere arrivato “per gradi”, ricomposta abilmente da Ginsberg e titolata da Kerouac a partire da frammenti sparsi, disordinati, mentre lo stesso Burroughs si trovava immerso nella caotica Tangeri, perso tra le spirali della tossicodipendenza e tra i sensi di colpa.
“Un genio“, affermano simultaneamente i due sodali dopo una rapida scansione delle pagine svolazzanti; “un uomo di parola” è quello che potrebbero pensare invece le lettrici e i lettori più attenti, alla luce delle ambizioni giovanili del William-scrittore.
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Quel che è certo, però, è che Burroughs, dopo la rocambolesca fuga dal Messico, chiuso in quella stanza ad auto-descriversi in preda ad allucinazioni imperanti, ha creato un libro assoluto, dirompente, capace di trascendere la mera letteratura. Lacerato tra la necessità della “roba” e il richiamo della carne, Lee (alter ego dell’autore) trascorre le giornate in luoghi pervasi dai miasmi del corpo e dalle fobie della mente, dando voce a una realtà relegata ai margini della società.
Un assunto che deve aver colpito e illuminato anche il regista David Cronenberg, autore di Naked Lunch (traducibile proprio ne Il pasto nudo), film del 1991 che dona una disturbante componente visiva al racconto perturbante di Burroughs. Lo scrittore scapestrato di Saint Louis vede così la sua vita trasposta da terzi in film, dopo averla vista prima d’allora trasposta soltanto in forma romanzo.
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Celebre è infatti la figura di Old Bull Lee, prestanome di Burroughs donatogli dall’amico Kerouac nel suo libro più famoso: Sulla strada (Mondadori, traduzione di Marisa Caramella). “Ci vorrebbe una notte intera per raccontare di Old Bull Lee […] Passava il tempo a parlare e a insegnare agli altri. Jane sedeva ai suoi piedi; io anche; e anche Dean (Neal Cassady, ndr); e in passato anche Carlo Marx (Allen Ginsberg, ndr). Avevamo tutti imparato da lui”.
Una guida, modello il cui “esempio” risiede nel primario intento di non essere esemplare, di generare una frattura nella logica lineare e nel buon costume. Uno scrittore eccentrico capace, attraverso i suoi romanzi e la sua vita (diventata essa stessa un romanzo), di influenzare le generazioni passate e, come vedremo a breve, presenti e future.
LO STILE E L’INFLUENZA DI BURROUGHS
Nel 2024 il regista Luca Guadagnino (autore di celebri adattamenti cinematografici a partire da altrettanto celebri romanzi, uno su tutti Chiamami col tuo nome) presenta in anteprima mondiale, in concorso alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Queer. Un film (in uscita in Italia a febbraio 2025) – con protagonista Daniel Craig – basato interamente sull’omonimo romanzo di Burroughs, ora ripubblicato da Adelphi con la traduzione di Katia Bagnoli.
Tra queste pagine viene presentata la trama amorosa che il “ragnesco” protagonista (l’alter ego Lee) tesse intorno ad Allerton, giovane tanto ambiguo quanto intrigante. Dal Messico a Panama, il romanzo racconta le (dis)avventure dell’alieno Burroughs, tra locali sordidi e bar putrescenti, predatore dissoluto “a caccia” del giusto amante…
L’ennesimo sodalizio tra un’opera di Burroughs e un adattamento transmediale. Un attestato di stima verso la figura dello scrittore, il contenuto dei suoi romanzi e – chiaramente – la loro rivoluzionaria forma, riassumibile grazie a un eterogeneo ventaglio terminologico: frammentata, disgregata, scomposta, dissipata, lacerata.
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“Life is a cut-up” (tradotto, “la vita è un ritaglio”) racconta Burroughs in una sua conversazione con Ginsberg (riportata in un’intervista dal Los Angeles Times), riferendosi alla sua tecnica di dividere in due pezzi di testo e riconfigurarli come collage, lasciando che le giustapposizioni creino un significato nuovo e dirompente. “Fingere di scrivere o dipingere in un vuoto senza tempo è semplicemente… non vero, non in accordo con i fatti della percezione umana”.
Un’opera di segmentazione al di là della realtà percepita che risulta sovente in una commistione di generi: basti pensare all’incasellamento di Burroughs nella fantascienza grazie a romanzi come I ragazzi selvaggi (Adelphi, traduzione di Andrew Tanzi). Qui una vasta insurrezione si estende dagli Stati Uniti all’America Centrale, guidata proprio dai “ragazzi selvaggi”, sottospecie umanoide formata da ragazzi-gatto, ragazzi-serpente, ragazzi che sputano e ringhiano, corrono “come gattini feroci sferrando colpi con rasoi e schegge di vetro”. Un romanzo elusivo verso ogni tipo di possibile etichettamento, che proprio in virtù di questa impossibile categorizzazione – in nome di una prosa sconnessa e feroce – ha ispirato la musica rock del tempo.
Il distruttore di testi Burroughs ha fatto dello smembramento e del successivo ricomponimento del testo un marchio di fabbrica, mezzo per evidenziare le crepe del mondo e dell’Io. Una frammentazione che mette in risalto un ordine impossibile, un’armonia perduta (complici spari, crimini, scandali, abusi) e mai riconquistata.

William Burroughs, autore di Queer, romanzo che ha ispirato l’omonimo film di Luca Guadagnino. Credit: Getty Editorial
Burroughs, eroe della frattura, viveva come scriveva: in bilico, tra l’urgenza del diabolico annientamento e il desiderio di raggiungere un miltoniano Paradiso perduto tanto utopico quanto inaccessibile. Ribelle senza bandiera, celava le ombre di un passato dissoluto sotto una spessa coltre inibente di torpore psicotropo.
La sua scrittura – gesto di sfida e richiesta d’aiuto, scivoloso appiglio di un naufrago – è una continua ricerca di senso, anche laddove un senso e una possibile redenzione sembrano non esserci. L’arte per Burroughs è salvezza, in un mondo in cui l’unica vera possibile decisione è accettare di perdersi.
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