“Volevo raccontare l’infelice che sembra quasi non avere il diritto all’infelicità. Molti di quelli che lavorano per la realizzazione di un sogno, e che poi il sogno non lo realizzano, pensano che l’affermazione sia il superamento dell’infelicità, ma non è così. Non esistono delle ragioni sociali ed economiche che garantiscano il superamento del tema più importante di tutti: il benessere psicologico”. Daniele Mencarelli, intervistato da ilLibraio.it in occasione dell’uscita di “Brucia l’origine”, racconta il nuovo romanzo (che definisce “politico e sociale”) e sé stesso, tra senso di vergogna, gratitudine (un esercizio che l’uomo non dovrebbe mai smettere di praticare”), l’amore materno e un pensiero per le nuove generazioni: “Se guardo a un ragazzo di vent’anni e al dolore che inizia a montare rispetto a ciò che affronta durante la sua esistenza, forse il rischio più grande è quello che questo giovane pensi di essere il primo a vivere questo dolore, che quasi lo abbia inventato lui. E invece quel dolore accompagna l’uomo da sempre”. Parla, tra le altre cose, di poesie e del suo rapporto con la scrittura: “Mi piace raccontare dei personaggi che hanno nel loro mondo interiore il nemico da superare” – L’intervista
Daniele Mencarelli ha abituato lettori e lettrici a romanzi che indagano l’essere umano alle prese con situazioni difficili. Che sia l’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – La casa degli sguardi (Mondadori, 2018) -, un reparto di psichiatria – Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2022) – o un padre con un figlio autistico – Fame d’aria (Mondadori, 2023).
Questa volta, in Brucia l’origine (Mondadori), Mencarelli sceglie il tema delle origini, e in particolare del doloroso ritorno di un uomo di successo nel suo quartiere (il quartiere Tuscolano, a Roma), dove si parla in romanesco e la vita procede a una velocità diversa.
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Gabriele Bilancini, il protagonista, è “tra i designer emergenti più quotati al mondo”, è un “tipo da Mercedes” e il suo progetto ha preso forma: una poltrona da minimo seimila euro. Eppure, qualcosa non va. Non si sente di appartenere a quel mondo. E quando torna finalmente a Roma, e vede la sua famiglia e gli amici d’infanzia… si trasforma in Gabrie’ e sente di non appartenere nemmeno a quest’altro mondo.
Un mondo che si è fermato nel passato, dove le giornate sono identiche a quelle trascorse durante l’infanzia: dopo il lavoro/scuola ci si siede al bar del sor Antonio e si scherza e litiga con gli amici di sempre: Lello, Francesco, Cristiano e Vanessa, invecchiati, eppure fermi nel loro passato e nella loro amicizia. E più Gabriele li osserva, più si rende conto di essere andato avanti, di essere diventato qualcun altro. Una scoperta dolorosa, che rende altrettanto doloroso affrontare quei pochi giorni carichi di malinconia e ricordi.
Mencarelli racconta una storia densa di emozioni, non sempre positive ma estremamente reali e tangibili. Racconta la periferia italiana, tra grandi temi e scene di vita quotidiana ma, soprattutto, pone al centro la felicità al di là di ogni classe sociale o scelta di vita.
Mencarelli, all’inizio di Brucia l’origine c’è un pranzo familiare, un’immagine quasi d’altri tempi. Come mai?
“Parto dal presupposto che le nostre esistenze sono un intreccio costante di elementi presenti, intrecciati a elementi archetipici. Il nostro è un Paese che, per tradizione e per cultura, si ritrova attorno al tavolo, in un ambiente di convivialità per festeggiare e onorare una ricorrenza, come nel caso specifico: i quarant’anni di matrimonio dei genitori di Gabriele. E guardando la nostra tradizione letteraria, noi siamo un Paese che fa del luogo familiare, e di tutti i riti legati a questo luogo affettivo, un’asse portante”.
Quello della tavola è un elemento ricorrente nel romanzo.
“Sì, nel libro è fondamentale il ruolo della tavola, delle pietanze, del ritorno a un mondo d’origine in cui la seduzione passa anche per i sapori, per le pietanze che il protagonista si è lasciato alle spalle andando a vivere a Milano. Non solo nel mio romanzo, in generale. Siamo molto legati ai nostri territori, non solo linguisticamente, che è l’aspetto che a me affascina di più, ma anche per tutto quello che riguarda la produzione enogastronomica, i nostri sapori, i profumi… Ogni luogo ha le sue eccellenze e, in qualche maniera, noi siamo legati a tutti i riti che nascono da queste”.
Allo stesso tempo, però, il protagonista osserva quasi dall’esterno la sua famiglia e la giudica. Una sorta di sospensione della realtà, come uno scrittore che osserva e si distacca per poter descrivere al meglio ciò che vede…
“Prima ho parlato di rito: il rito prevede l’osservanza di un culto. Ma il trasferimento di Gabriele a Milano, ciò che ha attraversato, la vita del presente che lo vede come un affermato designer a livello mondiale, hanno finito per trasformarlo e allontanarlo da quella ritualità”.
Ci spieghi meglio.
“Gabriele trova tutti i riti collegati al culto stesso come degli esercizi vuoti, come qualcosa che non corrisponde più a una sua reale – mi scuso per il gioco di parole – realizzazione. Partecipa al culto da ‘miscredente’ perché non appartiene più a quel mondo e, come scopriremo, non appartiene nemmeno al mondo borghese che lo ha accolto. È un ragazzo sospeso…”.
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Lei parla di una specifica situazione di malessere: essere infelici nonostante il successo economico. Perché ha scelto di soffermarsi proprio su questo stato d’animo?
“Credo che questo sia un romanzo profondamente politico e sociale. Se vogliamo, Gabriele è il paradigma che tutti quanti noi abbiamo come traguardo, come realizzazione della nostra vita. Il paradosso è che lui è effettivamente un ragazzo che è riuscito, grazie al talento e a una dose di fortuna, laddove altri non ce l’hanno fatta. Come il suo amico: Francesco era uno straordinario calciatore, che ha sfiorato il sogno della realizzazione, e poi è caduto senza riuscire ad andare avanti”.
Insomma, l’altra faccia della medaglia.
“Esatto, è proprio una specie di alter ego. Volevo raccontare l’infelice che sembra quasi non avere il diritto all’infelicità. Molti di quelli che lavorano per la realizzazione di un sogno, e che poi il sogno non lo realizzano, pensano che l’affermazione sia il superamento dell’infelicità, ma non è così. Non esistono delle ragioni sociali ed economiche che garantiscano il superamento del tema più importante di tutti: il benessere psicologico e il benessere nel rapporto con i mondi che abbiamo a disposizione”.
L’ambientazione del romanzo serve a raccontare le differenze tra i personaggi…
“Nel corso degli ultimi 25 anni, e questo è un dato sociale e politico, ci siamo impoveriti, ci siamo incattiviti, i ragazzi di quel quartiere sono espressione di un mondo che non solo si è cristallizzato, ma è anche retrocesso”.
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Una domanda secca: la letteratura è politica?
“Sempre, anche quando parla d’amore”.
Come nelle sue poesie?
“Lo è perché tende a costruire valori o disvalori. Quindi sì, assolutamente”.
Parlando di benessere psicologico, un elemento che caratterizza tutti i suoi romanzi: è uscita la seconda stagione di Tutto chiede salvezza (serie tv tratta dall’omonimo romanzo, nda). Si aspettava un tale successo per la serie?
“Quando ho scritto i primi tre romanzi, partendo da dati della mia vita, la riflessione che ho fatto è stata quella di non voler raccontare il tema del disagio psichico, ma di provare a proporre dei temi che oggi sono schiacciati, come i diritti sociali o i temi dell’esistere. Nel nostro tempo l’uomo vive quasi a sua insaputa, viviamo nell”analfabetismo esistenziale’. Quindi, quello che secondo me è stato apprezzato, prima con il Premio Strega Giovani, poi con il successo del romanzo e infine delle due stagioni della serie, è il fatto che il protagonista, Daniele, trovandosi dentro un contesto di cura del disagio psichico, in fondo non fa altro che proporre una riflessione sull’esistenza, che da sempre incute timore”.
E la letteratura, in quest’ottica, che ruolo ha?
“La letteratura, l’arte esistono per condividere e trasformare ciò che è complesso in qualcosa che, dialetticamente, può essere affrontato ed esorcizzato. La poesia, che è la mia lingua d’elezione, mi ha fatto scoprire una consanguineità dentro questi temi. E se penso a un ragazzo di vent’anni e al dolore che inizia a montare rispetto a ciò che affronta durante la sua esistenza, forse il rischio più grande è quello che questo giovane pensi di essere il primo a vivere questo dolore, che quasi lo abbia inventato lui. E invece quel dolore accompagna l’uomo da sempre perché, se guardiamo la Storia, questi temi profondi sono la radice stessa della civiltà umana”.
Ma qualcosa quindi oggi è cambiato?
“Oggi l’uomo ha accelerato i ritmi della propria esistenza, ma è sempre stato insoddisfatto. E dall’insoddisfazione ha creato tutto quello che vediamo. Viviamo in un’epoca che ha reso le domande del ‘sempre’ improvvisamente illecite: la morte, il dolore, il destino, il tempo, l’assenza, la mancanza di Dio… Tutti elementi che ho molto a cuore”.
Anche Gabriele si pone molte domande: è un caso che le risposte arrivino da due persone anziane, il sor Antonio e il padre di Gabriele?
“Queste due figure portano la loro memoria: il sor Antonio è quello che porta una memoria storica rispetto al quartiere popolare nel quale vivono i protagonisti. Quello che invece fa il padre di Gabriele è restituire una memoria esperienziale rispetto all’uomo in quanto tale. È una figura dotata di una saggezza molto semplice, elementare, ma che riesce a restituire lucidità al figlio. E la lucidità è un valore, che in certi momenti, quando siamo divorati dalla paura e dall’angoscia, è importante recuperare”.
Mentire è forse l’azione che definisce meglio il personaggio di Gabriele. Cosa si nasconde dietro questo comportamento?
“Nei miei libri non c’è mai una vera figura antagonistica. Mi piace raccontare dei personaggi che hanno nel loro mondo interiore il nemico da superare. Gabriele mente perché la via della verità prevede coraggio, prevede uno sforzo che lui non riesce a compiere. Questo comportamento non lo rende disumano, anzi profondamente umano, simile a tutti noi, perché tutti abbiamo vissuto l’incapacità di dire quello che sentivamo veramente”.
C’è un però…
“Gabriele sa anche che quella verità che lui allontana, prima o poi dovrà essere affrontata. Non potrà vivere in eterno sospeso fra i due mondi”.
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Quanto è centrale, invece, la gratitudine?
“È l’altro grande elemento che stritola il protagonista. Gabriele è grato alla sua famiglia perché gli ha permesso di realizzare il suo sogno, al quartiere in cui è cresciuto perché lo ha amato… e la nostalgia lo corrode. È un personaggio che ha tanti grazie da dire e questo lo fa sentire ancora più un traditore quando mente”.
Crede che oggi ci si dimentichi troppo spesso di dire grazie?
“Credo di sì. Lo scrivo e lo dico spesso, a cinquant’anni, è uno degli esercizi più importanti dell’esistenza. Ho avuto dei poeti, dei maestri in tanti ambiti umani, professionali, familiari e la gratitudine è un esercizio che l’uomo non dovrebbe mai smettere di praticare”.
C’è una persona a cui avrebbe voluto dire grazie, senza riuscirci?
“Sì, è uno zio materno. È il fratello di mia madre ed è stato un secondo padre, una figura che, in qualche maniera, mi ha addestrato all’arte dell’ironia, tipicamente romana, e al culto dell’allegria come unica grande soluzione rispetto ai grandi problemi della vita. Non è un caso che i poeti cantino e abbiano tanto cantato l’allegria come vero momento di salvezza”.
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In un’intervista ha parlato di Ultima preghiera di Giorgio Caproni come la poesia che l’ha avvicinata a quest’arte. Parlando di narrativa, invece, quali sono i libri che porta nel cuore?
“Se devo citare le letture che mi hanno più sconvolto, non posso non pensare all’intensità che ho scoperto nella prosa di Flannery O’Connor con Il cielo è dei violenti (minimum fax, traduzione di Gaja Cenciarelli). Se devo citare un autore italiano penso a Pier Paolo Pasolini, da un lato Petrolio (Garzanti), questo romanzo mai finito, e dall’altro a un film come Accattone, perché è meraviglioso. Se posso, vorrei citare anche una raccolta di poesie”.
Quale?
“Poesia in forma di rosa (Garzanti) dello stesso Pasolini perché, come Caproni, dedica alla madre i versi più tragici e, direi, ‘fusionali’ rispetto a un rapporto viscerale. Queste poesie le sento molto vicine, pensando a mia madre, che ha 83 anni”.
Com’è il suo rapporto con sua madre?
“A cinquant’anni mi dico che sono un uomo che riuscirà a sopravvivere alla morte della madre. Oggi lo affermo, ma fino a qualche anno fa ancora non ci credevo. La madre è una figura centrale e io non sono più un uomo che confligge e combatte contro ciò che è inevitabile. Molti poeti hanno cantato questo amore, che può anche diventare malversato come nel caso di Tania (la mamma di Gabriele, nda); oggi difendo questo rapporto senza più giudicarlo”.
Riferendosi alla scrittura di altri suoi romanzi, ha parlato di “essere chiamati, essere scelti dai libri”: è stato così anche per Brucia l’origine?
“Sì, perché in tanti anni di lavoro in Rai, di conoscenza del mondo del cinema, della televisione, prima della letteratura, ho incontrato tante persone, anche pubbliche, che dovrebbero rappresentare il paradigma della felicità acquisita. Poi li guardi da vicino e ti rendi conto che sono come tutti gli altri: che hanno ancora tanto da risolvere con loro stessi. Sono persone che non hanno problemi economici, ma non sono manifesti da invidiare o da prendere a esempio per una felicità possibile da raggiungere. Vivere al di sotto della soglia di povertà è causa di infelicità, ma non avere questo problema non significa essere felici”.
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Fotografia header: Daniele Mencarelli, nella foto di Claudio Sforza