Disastrose relazioni sentimentali, instabilità economica, una bambina da crescere da sola: con il romanzo “La Costanza è un’eccezione” torna in libreria Costanza Macallè, il personaggio nato dalla fantasia di Alessia Gazzola. Questa volta la protagonista è alle prese con un mistero risalente alla Venezia di fine Seicento… – Su ilLibraio.it un estratto dal quinto capitolo

Dopo Questione di Costanza e Costanza e i buoni propositi, arriva in libreria per Longanesi il terzo romanzo dedicato a Costanza Macallè firmato da una delle autrici italiane contemporanee più amate, Alessia Gazzola: La Costanza è un’eccezione vede la protagonista della serie, che incarna molte delle difficoltà dei Millennial, ma anche la determinazione a superare gli ostacoli della vita, alle prese con un mistero risalente alla Venezia di fine Seicento.

Nel nuovo romanzo della serie, la protagonista ha lasciato la paleopatologia, ma la paleopatologia non ha lasciato lei. E, anzi, torna a farsi viva con la classica offerta che non si può rifiutare: un importante incarico per scoperchiare e studiare antiche tombe veneziane non è nulla al confronto con l’opportunità di lavorare fianco a fianco con Marco.

Marco, il padre di sua figlia Flora. Marco, che ha appena interrotto un fidanzamento epocale, proprio alle soglie dell’altare. Marco, che ora è sospeso in una sorta di limbo emotivo dal quale Costanza vorrebbe sottrarlo. Ma ci vuole l’occasione giusta, ci vuole il momento e soprattutto il posto giusto. E Venezia è lo scenario perfetto per questa nuova avventura di Costanza Macallè, sempre altalenante tra dramma e commedia, tra irrinunciabile romanticismo e inevitabile pragmatismo.

Per lei arriva anche un nuovo incarico: scoprire le origini di un’antica maledizione, ricostruire la genealogia di una delle famiglie più ricche, nobili e chiacchierate di Venezia sin dal Seicento. Nonostante i secoli che le separano, le vicende di Costanza, oggi, e della giovane Cassandra, nel Seicento, raccontano sentimenti simili, dolori e
gioie, speranze e delusioni che fanno da controcanto all’immutabile e malinconica bellezza di Venezia. Si sa, nei fatti di cuore la costanza non è una regola, ma l’eccezione…

Alessia Gazzola La costanza è un'eccezione

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo il quinto capitolo:

Repubblica Serenissima di Venezia, 24 gennaio 1678

Giacomo Almazàn aveva speso un’enormità per il suo palchetto nel Teatro di San Giovanni Grisostomo. Un palchetto tra i più cari: per altezza e posizione nella grande sala a ferro di cavallo, era degno di un principe.
Tutti sapevano che, costruendo l’undicesimo teatro di Venezia, i Grimani volevano varcare una nuova soglia di lusso e splendore. San Giovanni Grisostomo nasceva per essere il teatro più straordinario di Venezia, ma un’operazione del genere richiedeva investimenti. Chi era interessato all’impresa aveva la possibilità di acquistare il diritto di affitto di un palchetto riservato, una vera novità: nessun teatro offriva una simile possibilità.
Per farlo, c’era da pagare il cosiddetto regalo. E Giacomo Almazàn lo aveva fatto senza battere ciglio. All’inizio dei lavori di costruzione, il regalo gli era costato quindici volte l’affitto per un anno. E non era certo esonerato dal pagare altri soldi per ciascuno spettacolo in musica cui avesse desiderato assistere.
Quel costo, tuttavia, annunciava eccezionalità sotto ogni aspetto e quando in città Giacomo annusava anche solo un lieve sentore di esclusività, in lui si propagava l’impulso di correre, per non rimanere fuori. Non poteva non aggiudicarsi un palco, tutta la gente che  contava se ne sarebbe accaparrato uno. Era simbolo dell’èlite di cui faceva parte, che agli altri piacesse o no. Dio solo sapeva se non c’era stata una guerra, per quei palchi. Ma c’era riuscito.
Se era vero che a Venezia i patrizi erano tutti uguali per nobiltà ma differenziati dal censo, lui non era nobile, non ancora, ma il censo lo differenziava da tutti. Eccome. Di fronte all’importanza sociale del palco, il costo era un aspetto secondario e, in ogni caso, poteva ampiamente permetterselo. Aveva saldato conti ben più salati per i vestiti e i monili delle figlie ma, d’altra parte, le figlie stesse erano i suoi gioielli.
Oggi lui era uno degli uomini più ricchi di Venezia eppure, dentro di sé, sentiva che il risultato, ottenuto in appena tre generazioni, evidente a tutti e invidiato da molti, non bastava. C’era ancora un traguardo da raggiungere e non avrebbe esitato a servirsi delle due incantevoli fanciulle che si stringevano alle sue braccia robuste, una per lato, infreddolite malgrado le mantelle bordate di pelliccia. Avevano attraversato la Salizada San Geremia fino al ponte delle Guglie e da lì erano saliti a bordo di una gondola che li stava portando al teatro, sulle acque scure del Canal Grande fino al Rio di San Grisostomo.
Le aveva avute da una fiamminga che sembrava nata per generare figli e invece era morta nel dare alla luce Lucrezia quando Cassandra, la maggiore, aveva poco più di un anno.
Le due bambine furono affidate a balie e domestiche e le vedeva tanto di rado che ogni volta gli sembravano cresciute grazie a una magia, un miracolo o un artificio. Si era così ritrovato padre di due ragazze, beneducate ed estremamente timide – dote che trovava encomiabile. Belle, flessuose e morbide, perché sulla sua tavola abbondava ogni ben di Dio. Iridi e capelli erano della stessa tonalità miele scuro. Lui, bruno e irsuto, e la sua cara moglie, chiara come un angelo, mischiandosi avevano generato colori ibridi. Le ragazze avevano la pelle bianca solo nei mesi invernali, poi bastava il primo sole di marzo e diventavano ambrate come due andaluse. A modo suo, Giacomo Almazàn le amava teneramente.
Scesi dalla gondola, si lasciarono alle spalle i muri rosa della chiesa e si ritrovarono nel campo di fronte al teatro, fitto di gente abbigliata nei modi più eleganti, gran parte della quale mascherata, giacché si era nel pieno del Carnevale.
Giacomo si compiacque di percepire, nei confronti delle sue figlie, gli sguardi di apprezzamento dei giovani eredi delle famiglie più in vista e le occhiate di velato disprezzo delle madri. La loro altezzosità lo turbava appena: la società veneziana stava cambiando velocemente e si rendeva sempre più permeabile alla linfa economica apportata da famiglie come la sua. I mercanti in grado di prosperare al punto da equiparare le proprie ricchezze a quelle delle famiglie fondatrici di Venezia ormai quasi superavano in numero queste ultime. C’era già stato il precedente dei Labia, di origine spagnola proprio come loro. Nobili per soldo, li chiamavano.
Varcarono la soglia del teatro: era ora di vedere per cosa aveva speso così tanto.
Di fronte a lui si innalzavano cinque ordini di palchi. Ne contò trentuno per ciascun ordine, ognuno dipinto d’oro. In fondo al boccascena, un sipario affrescato raffigurava Venere e Amore.

La platea era vuota, fatta apposta per riunirsi e ballare. Un monumentale lampadario, da solo alto quanto un palazzo, scendeva dal soffitto ma, nonostante contenesse numerose torce, non era sufficiente a illuminare per intero la vastità della sala che pertanto rimaneva buia, forse più di quanto stimato da chi lo aveva progettato. Con tutti i soldi che avevano incassato, che diamine, i Grimani avevano risparmiato sulle candele.
Ci furono le danze, dapprima. E le sue ragazze danzarono, morigerate e composte, due sante, due madonne. Giacomo aveva invitato Jan Benassar, fratello della sua compianta moglie Isabel, il suo più caro amico. Ne facevano di affari insieme, lui e Jan. La Costanza trionfante, che avevano acquistato insieme, stava per rientrare da Malaga con un bastimento carico di lana, e altro oro sarebbe fioccato nelle loro casse.
Jan non danzava con gli altri e si manteneva in disparte. Giacomo si chiese se qualcosa lo turbasse, ma poi una macchina che tirò su il lampadario lo distrasse. Tutti si affrettarono a raggiungere il proprio palchetto, perché se già prima la luce era scarsa, in assenza del lampadario il teatro scivolava piano piano in un buio degno del regno degli Inferi.
Giacomo Almazàn cinse le figlie e fece un cenno all’amico.
Era ora di mostrare loro il palco: la chiave d’ottone che ne schiudeva la porta apriva anche a un piacere nuovo, sottile, che aveva a che vedere con la soddisfazione ma che andava oltre, sfiorando, anzi proprio abbracciando, la vanità. La serratura oppose resistenza, Giacomo si stizzì appena. Jan si offrì quindi di provare al posto suo, a volte  con le chiavi si perde la pazienza e quelle diaboliche creature di metallo lo capiscono e si compiacciono.
La porticina si aprì e Giacomo attese la meraviglia delle figlie: la vista sul palcoscenico era talmente perfetta che sembrava fossero i soli a beneficiarne, quasi che lo spettacolo fosse destinato a loro soltanto. Furono serviti semi di zucca abbrustoliti, ciambelle, acqua aromatizzata all’anice e all’arancia e intanto il sorriso sul volto di Giacomo Almazàn sembrava incancellabile. Solo Jan riuscì a convertire quel sorriso in una smorfia di dispetto, quando gli domandò: «Hai concluso con Corner?»
« Non ancora. Ma sono disposto a qualunque cosa pur di fare di suo figlio mio genero. »
Quando Giacomo pensava alla richiesta formale che avrebbe dovuto presentare ai magistrati dell’Avogaria affinché esaminassero la posizione di sua figlia Cassandra e ne decretassero l’idoneita` a sposare un patrizio e a generare altri patrizi, era percorso da un brivido. E se fossero andati troppo indietro negli anni o troppo a fondo e avessero voluto saperne di più su suo nonno? Quello che era stato accusato di essere una spia dell’ambasciatore di Spagna ai tempi della congiura, anche se nessuno era mai riuscito a dimostrarlo. O, peggio ancora, su quel gabbamondo di Valentin, il figlio di suo fratello Andreas, che era morto tanti anni prima lasciandogli quel nipote terribile di cui prendersi cura…
Il sipario venne alzato, Venere sparì dalla loro vista per lasciare spazio alla Reggia di Vitellio. La scena, illuminata a olio, brillava in tanta oscurità. Era allestita la prima assoluta del Vespasiano di Carlo Pallavicino – non che l’aspetto artistico gli interessasse minimamente.
Lo spettacolo esordiva con la rappresentazione di un sanguinoso combattimento tra parti avverse. Giacomo lo trovò di cattivo gusto ma d’altra parte, si disse, non è quello lo scopo per cui essere qui. Si godeva quell’abitacolo buio come fosse la reggia di un re.
Fu una serata lunghissima, tra un atto e un altro si danzava ancora. Le sue ragazze sembravano stanche, ma non dovette insistere per spingere Cassandra tra le braccia del giovane Corner. La sua primogenita era sveglia, bastava uno sguardo e capiva come comportarsi. Lucrezia, invece, accampò mal di testa, chiese dell’acqua, si disse infastidita dalla luce bassa, dalla ressa, dai rumori e dagli odori. Sembrò indifferente anche quando apparve Giunone sul suo carro trainato da pavoni, una visione straordinaria.
« Sommo Giove, dove sei? » chiedeva la dea. E Giove appariva, ma a Giacomo nulla importava di Vespasiano, Tito e Domiziano né di tutti gli dei dell’Olimpo. Studiava e formulava le parole da dire a Corner, bisognava andare al sodo.
Lucrezia gli chiese di rimanere nel palco. Seguitava a non sentirsi bene. Il padre le consegnò la chiave della porta. « Resta chiusa dentro. Non voglio che nessuno ti importuni. » Lucrezia annuì, il padre non aggiunse altro.
Accadde alla fine delle danze, quando la sala andava svuotandosi perché ogni famiglia faceva ritorno al proprio palchetto.
Si levò un grido e la gente urlò a sua volta.
Giacomo Almazàn vide sua figlia Lucrezia volare giù dal palco come un angelo tragico e scomposto, e schiantarsi con un tonfo orribile sul pavimento di legno su cui poco prima Cassandra aveva volteggiato felice.
Per molto tempo i maligni si chiesero, scherzando crudelmente, se Almazàn fosse più addolorato per la perdita della figlia o del palchetto, dal momento che non ci rimise mai più piede.

(continua in libreria…)

Longanesi & C. F 2022 – Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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