“L’isola dove volano le femmine”, romanzo d’esordio di Marta Lamalfa, trasporta lettrici e lettori ad Alicudi, nel 1903, dove il pane nero di segale cornuta provocò per anni allucinazioni di massa. La protagonista, Caterina, si scontra proprio con queste allucinazioni, che rappresentano la chiave per scappare da un presente sempre più solitario e raggiungere le majare, le streghe che vivono sull’isola e si librano in cielo… – Su ilLibraio.it un estratto dal romanzo

L’isola dove volano le femmine (Neri Pozza), esordio della scrittrice classe ’90 Marta Lamalfa, trasporta lettrici e lettori ad Alicudi, nel 1903, dove il pane nero di segale cornuta provocò per anni allucinazioni di massa, come raccontato anche nel podcast Pane e fantasmi di Amedeo Berta (disponibile su Rai Play).

Il racconto inizia con la protagonista Caterina, che osserva irretita il corpo gelido di Maria, la sua gemella, e pensa che la sua vita cambierà per sempre…

Era infatti la gemella a scegliere i pensieri giusti, a indicarle come vivere. Adesso chi lo farà al suo posto? Se l’è portata via un male cattivo e tutti in famiglia – dalla bisnonna che non ci vede più bene ma capisce tutto, alla madre che ha per la quarta volta un bambino in pancia – pensano sia colpa di Ferdinando, che sconta una pena al Castello di Lipari, e vuole fare la rivoluzione.

E ora che Maria non c’è più, Caterina lavora nei campi di don Nino fino al tramonto, consegna le acciughe sotto sale e aiuta la mamma con le fatiche di casa, aspettando il suo giorno preferito, quello in cui tutti si riuniscono per impastare il pane. Da qualche tempo, però, alle spighe di segale dell’isola sono spuntati dei piccoli corni neri come il carbone, tizzonare le chiamano.

All’inizio non s’erano fidati a mangiare quel pane aspro, ma ora non c’è altro, così anche Caterina butta giù quei morsi duri che hanno l’odore della morte. Forse però in quei bocconi grami c’è la chiave per scappare da un presente sempre più solitario e amaro, e raggiungere le majare, le streghe che vivono sull’isola e si librano in cielo, libere nell’ala scura della notte. Caterina non lo sa, ma non è l’unica a vedere cose che poi sfumano nella nebbia…

L’autrice – nata a Palmi, in Calabria, e che residente a Roma, dove lavora nell’ufficio stampa di un’organizzazione umanitaria – racconta in un’intervista per la stessa casa editrice Neri Pozza che L’isola dove volano le femmine “non si può propriamente definire romanzo storico. Del resto, la teoria da cui parte è di natura antropologica. C’è certamente un contesto e un panorama storico che ne sta alla base, ma al centro c’è l’uomo, coi suoi timori, le sue difficoltà”.

Continua poi accennando al pretesto allucinatorio che dà il via a questa storia di formazione: “Le allucinazioni di cui parlo non sono altro che un mezzo di evasione dalla realtà, come può esserlo ai giorni nostri un film, una serie tv, un libro. Un modo per vivere delle vite diverse. Una possibilità per vivere delle vite diverse. Mi sono chiesta, però, cosa succede se quel confine fra realtà e immaginazione si perde. I personaggi che si muovono all’interno del romanzo non sanno di essere vittime di allucinazioni e credono, per la prima volta nella loro vita di fatiche, che i loro sogni si possano realizzare“.

L'isola dove volano le femmine

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

2.
da sola,
proprio non si sa

A quel tempo, per i settecentotredici abitanti di Alicudi, il mondo era di cinque chilometri scarsi, che nessuno sapeva contare. Insieme a loro, vivevano novecento polli, trentacinque mucche, due tori, trenta maiali, quarantacinque pecore bianche, otto colombi. Per non contare i conigli, che davano solo impiccio e neanche si facevano ammazzare, e i muli, che erano di famiglia. Altro non c’era.

Dopo il mare, c’era solo un disegno che marcava i loro confini, messo là per nascondere il vuoto. Non poteva essere altro, bello com’era.

Qualcuno diceva che oltre il mare ci si poteva andare. Che gli arcudari non erano soli. Che ce n’erano altri, come loro. Forse meglio di loro.

Palma la catananna, in tutti i suoi settant’anni, fuori dall’isola non c’era stata mai. Quando era carusa, una cosa sola s’era fatta promettere da Pinuccio suo: che, se l’avesse maritato, lui un giorno l’avrebbe portata a Lipari. Se si poteva, anche fino a Messina. Ma poi non c’era stato tempo, non c’era stato modo, non c’era stata ragione. I figli erano subito nati, e poi i nipoti, e poi i pronipoti, e la vita era passata. E adesso che c’era tempo, il corpo non bastava più.

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E allora lei, ogni volta che qualcuno riveniva da Lipari, lo fermava per farsi raccontare ogni casa, ogni strada, ogni persona. E ascoltava, a occhi chiusi. E Lipari, tante volte se l’era fatta cuntare che si era convinta ormai di conoscerla. E mentre la raccontava agli altri come dagli occhi suoi, riusciva a dimenticare, a volte, di non esserci stata davvero. E i dettagli che la sua mente aggiungeva le sembravano più reali delle parole degli altri.

Ora che sono passati tre giorni da che sua pronipote Maria è morta, ha pensato che neppure quella povera carusa era riuscita ad andare oltre il mare. E che adesso, dall’alto, finalmente poteva vedere le cose che esistevano fuori. Ora che sono passati tre giorni da che sua pronipote Maria è morta, la mattina, per prima cosa mette un dito sotto al naso di Pino, suo marito, per sentirne il respiro. Ogni giorno si dice che potrebbe essere l’ultimo. Ogni minuto si dice che potrebbe essere l’ultimo.

E quando ancora lo sente vivo, a Pinuccio suo, le si quieta l’animo.

Poi, come ad assicurarsene, controlla anche il suo stesso respiro. E ogni mattina, ancora, lo sente. Sente il cuore, regolare. Sente il male all’anca, da una decina d’anni ormai. Sente da un solo orecchio e non sente più il dito medio della mano sinistra. Sente che alla fine è stata fortunata d’aver visto buona parte dei figli, nipoti e pronipoti diventare grandi.

Quasi li ha fatti apposta, i figli, per la paura di trovarsi sola da vecchia.

Certo, di cose brutte gliene sono successe in vita sua: è morta Rosina, la seconda di tre figli, a quindici anni, e da quel momento Palma non ha più voluto averne d’altri.

Poi è morta anche Caterina, sua nuora, e Vicio, suo nipote.

E ora Maria. Maria che ogni sera le preparava il decotto di alloro per aiutarla a digerire e le diceva di stare attenta a non scottarsi, ogni sera.

Da una settimana che Maria è morta, Palma ci vede meno dall’occhio sinistro.

A lei, a ogni morto, s’aggiunge un malanno.

A ogni morto, si crede meno pronta ad andarsene lei. Ma, soprattutto – è quella la sua paura più grande – non si sente capace di restare sola. Di svegliarsi senza più il respiro di Pino. Non ricorda per nulla la vita senza di lui. Sembra un’eternità, il 1851, suppergiù, quando s’è sposata. Cinquant’anni con lui, neanche venti senza, non ricorda più com’era.

© 2024 Marta Lamalfa
License agreement made through Laura Ceccacci Agency S.r.l.
© 2024 Neri Pozza Editore, Vicenza

(Continua in libreria…)

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