Margaret Atwood (con Douglas Preston) tiene le fila e contribuisce alla tessitura di “Quattordici giorni”, un romanzo a più mani (che coinvolge, tra gli altri, Dave Eggers, John Grisham, Erica Jong, CJ Lyons, Celeste Ng, Tommy Orange e Scott Turow). Sul modello del Decameron, il libro è il racconto di una comunità di inquilini di un caseggiato del Lower East Side di New York che, costretti a casa dal lockdown, decide di ritrovarsi sul rooftop ogni sera, per raccontarsi delle storie… Attraverso la voce di 36 autrici e autori, gli inquilini affrontano “quattordici giornate” della nostra clausura globale recente, attraversando traumi personali e collettivi – Su ilLibraio.it un estratto, firmato da James Shapiro (professore di letteratura inglese e comparata alla Columbia University, specializzato in Shakespeare), in cui è centrale la figura del Bardo
New York, 2020: appena stabilita nel palazzo come portinaia, Yessie, una giovane donna figlia di emigrati rumeni, trova nel suo appartamento La Bibbia del Fernsby, una specie di diario del precedente custode dove sono annotati i nomi di tutti gli inquilini, informazioni sulla loro vita e sul loro carattere. Alla fine, alcune pagine bianche sono a disposizione “per il prossimo amministratore”. I condomini si riuniscono tutte le sere, verso il crepuscolo, sul terrazzo, per scambiarsi due parole prima di andare a dormire. Ben presto, queste serate si trasformano in vere e proprie sessioni di racconti: ognuno, a turno, prende la parola e narra una storia, reale o di invenzione.
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Yessie decide così di registrare segretamente per quattordici giorni i racconti di ogni inquilino, per poi trascrivere tutto sul suo quaderno. Le serate passano in un crescendo di tensione, finché un’ultima sanguinosa storia di vendetta non chiarirà inaspettatamente tutti i dettagli rimasti in sospeso sulla misteriosa custode.
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In Quattordici giorni (Ponte alle Grazie, traduzione di Guido Calza), Margaret Atwood (grande autrice canadese che il 18 novembre compirà 85 anni) e Douglas Preston tessono una trama composta dai contributi di alcuni tra i migliori autori contemporanei, a ognuno dei quali è affidata la scrittura della storia di un inquilino del palazzo.
Un “romanzo collaborativo”, “un Decameron dei nostri tempi”, che dà voce all’urgenza umana di raccontare e raccontarsi, celebrando così il potere delle storie e dei libri che le contengono.
Tra i protagonisti dell’opera, Dave Eggers, John Grisham, Erica Jong, CJ Lyons, Celeste Ng, Tommy Orange e Scott Turow.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto, firmato da James Shapiro (professore di letteratura inglese e comparata alla Columbia University, specializzato in Shakespeare)
di James Shapiro
«La mia storia risale alla prima estate del 1592, quando Shakespeare, non ancora trentenne, faticava ad affermarsi. Da circa tre anni si manteneva a Londra recitando e scrivendo commedie, dopo aver lasciato la moglie Annie e i tre figli piccoli a Stratford-upon-Avon.
«Non sappiamo molto della vita di Shakespeare a quei tempi – dove abitasse, con chi dormisse – ma abbiamo un’idea di come si stesse sviluppando la sua carriera. Nel 1592, l’irascibile Robert Greene mise in guardia i colleghi drammaturghi da ‘un corvo spuntato dal nulla, che si fa bello con le nostre piume, e col suo cuore da tigre avvolto nella pelle di un attore suppone di non essere da meno del migliore di voi nell’imbastire con eloquenza versi sciolti, e nella sua vanagloria si considera colui che sconquasserà la scena del paese’. Il risentito Greene dipinge un vivido ritratto dello Shakespeare emergente, un attore divenuto autore, che deve il suo recente successo a quanto stava imparando – o rubando, secondo Greene – dai principali drammaturghi autori del suo tempo.
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«La vita di un attore freelance – veste in cui Shakespeare aveva mosso i primi passi in teatro – non era semplice. I sei o sette azionisti che componevano ciascuna delle compagnie elisabettiane, spartendone spese e profitti, assumevano nel migliore dei casi una dozzina di ‘prestatori d’opera’ per rimpolpare i propri ranghi, per lo più raddoppiando le parti, in base alle necessità della rappresentazione del giorno. Ragazzi adolescenti, tipicamente apprendisti (i tirocinanti non pagati del tempo) recitavano le parti femminili. La paga giornaliera di un attore freelance, un solo scellino, non era granché. Ma in un anno buono, un prestatore d’opera affidabile poteva arrivare a guadagnare da dodici a quattordici sterline: più di un manovale a giornata, meno di un insegnante.
«Dal momento che ogni giorno veniva messa in scena una commedia diversa, con una ventina di spettacoli nuovi in repertorio ogni anno e altrettanti vecchi successi, gli attori che avevano la fortuna di lavorare alla giornata dovevano riunirsi al mattino per provare la commedia in programma; poi, dopo l’intervallo del pranzo, si teneva la recita pomeridiana. Era una esistenza precaria, aggravata dalle periodiche chiusure dovute alla peste o a un giro di vite del governo ogniqualvolta una commedia faceva scandalo. Una delle lettere del tempo più tristi, fra quelle giunte fino a noi, è di Richard Jones, un attore esperto, che chiede un prestito per potersi unire a una compagnia in partenza per il continente, ‘perché qui non mi danno nulla, a volte uno scellino al giorno, a volte proprio niente, così che vivo in miseria’.
«Dodici sterline all’anno bastavano a Shakespeare per pagarsi vitto e alloggio. Ma lui aveva molte altre bocche da sfamare, oltre alla moglie e ai tre figli rimasti a Stratford-upon-Avon. L’anziano padre si era a tal punto indebitato che non poteva più uscire dalla casa di famiglia in Henley Street per paura d’essere arrestato. Perciò è plausibile che toccasse a Shakespeare, il primogenito, il sostentamento dei genitori e delle tre sorelle minori. Di conseguenza gli occorrevano più soldi, e ciò lo spinse a intraprendere una seconda, e non meno precaria, attività: quella di drammaturgo. Mentre gli altri attori si riposavano dopo una lunga giornata di lavoro, Shakespeare si dedicava alla scrittura.
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«Le compagnie erano disposte a riconoscere la modesta somma di sei sterline all’autore di una commedia, della quale reclamavano poi tutti i diritti, compresi quelli di edizione. Nell’Inghilterra elisabettiana esistevano molte corporazioni, ma non ce n’era una che si occupasse dei diritti d’autore. Era quasi impossibile per un autore che lavorava in proprio mantenersi coi proventi di qualche commedia all’anno, e quasi nessuno degli scrittori del tempo ci riusciva, o ci riusciva a lungo. Si dimostrava più conveniente scrivere in collaborazione, per quanto, spartite fra due o più autori, quelle sterline non fossero granché.
«In meno di quattro anni, suppergiù fra il 1589 e il 1592, Shakespeare fu autore o coautore, quanto meno per alcune scene, di Arden of Feversham, La prima parte della contesa fra le due famose casate di York e Lancaster, La vera tragedia di Riccardo duca di York, La bisbetica domata, La commedia degli errori, Enrico VI, Edoardo III, I due gentiluomini di Verona e Tito Andronico. Non sappiamo in che ordine vennero scritte, e forse in un paio di casi la prima stesura risale a qualche anno prima o dopo. La paga per tutto questo scrivere ammontò a poco più di quel che guadagnava come attore: forse quindici sterline l’anno.
«Ma le ore del giorno non bastavano a Shakespeare per guadagnare più di così. L’unico modo per tirare avanti era diventare socio e dividere i profitti con il proprietario del teatro, unendosi dunque ai ranghi di coloro che sfruttavano gli attori e i commediografi. Ma prima bisognava che lo invitassero a entrare in una compagnia, e non ci sono prove che nel 1592 gli fosse giunta una qualsiasi proposta. Anche se fosse successo, possedere una quota di quella che era di fatto una società per azioni avrebbe richiesto un investimento di almeno trenta sterline, una somma che Shakespeare con tutta probabilità non possedeva. E per quanto stesse diventando bravo a scrivere, la strada era ancora sbarrata da drammaturghi più celebri, che avevano prodotto grandi successi di botteghino e le cui nuove commedie erano richiestissime: il già citato Greene, Christopher Marlowe, George Peele, Thomas Lodge, Thomas Kyd, John Lyly e Thomas Watson.
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«Ciononostante se la cavava abbastanza bene, per quanto potesse fare un freelance sovraccarico di lavoro, che si barcamenava fra due impieghi a tempo pieno. Tutto questo finì improvvisamente nel 1592, quando la peste arrivò in una Londra che non aveva assistito a un focolaio simile dai tempi della Peste nera del 1348. Dapprima le autorità chiusero i teatri fino a settembre, poi fino a dicembre, aspettandosi che il freddo annientasse la pestilenza. Invece l’epidemia perdurò. Malgrado i teatri avessero brevemente riaperto quando i decessi settimanali erano scesi sotto il numero di trenta, nel febbraio 1593 vennero richiusi, quando la conta dei morti raggiunse le centinaia. Nell’agosto di quell’anno, ogni settimana i londinesi fecero il possibile per dare sepoltura a milleottocento vittime della peste.
«Quel mese Philip Henslowe, proprietario del Rose Theatre, scrisse al genero, il famosissimo tragediografo Edward Alleyn, che ‘la moglie dell’attore Robert Browne e tutti i suoi figli e parenti erano morti, e le porte di casa erano state chiuse’. Quanto a Browne, si trovava in tournée sul continente quando la sua famiglia era stata distrutta. La casa sarebbe rimasta sprangata per quattro settimane, con dentro i sopravvissuti in quarantena, e le parole ‘Signore abbi pietà’ dipinte in rosso sulla porta. Sentendo la notizia, Shakespeare dovette tirare un sospiro di sollievo per non aver portato con sé i familiari nella città del contagio. L’estate del 1593 dovette somigliare alla fine del mondo, quanto meno alla fine del mondo del teatro.
«Le difficoltà che dovette affrontare il giovane Shakespeare in quel periodo furono spaventose. In un momento di tale incertezza non poteva scrivere opere teatrali sperando nella buona sorte, giacché venivano scritte pensando a una particolare compagnia o persino a determinati attori famosi. Chi gliele avrebbe pagate? Le compagnie che avevano lasciato la città per esibirsi più al sicuro in provincia non chiedevano nuove commedie, ma si limitavano a mettere in scena le opere predilette dal pubblico in tutte le città che consentivano loro di esibirsi. Né Shakespeare poteva guadagnare un solo penny recitando, a meno di andare a sua volta in tournée, per compensi notoriamente bassi. Se lo avesse fatto, si sarebbe negato l’opportunità di collaborare con altri autori, oltre che di consultare i volumi che gli servivano come materiale per le sue opere. E tuttavia rimanendo nella Londra infestata dalla pestilenza metteva a repentaglio la propria vita. Senz’altro dovette pensare, vedendo i flussi e riflussi del numero delle vittime, nonché le riaperture dei teatri con le inevitabili richiusure, che fosse ormai tempo di andarsene, di lasciare la città prigioniera della peste e trovare un modo più proficuo di mettere a frutto il suo talento.
«Avrebbe potuto rinunciare alla vita dello scrittore e tornare nello Warwickshire, dedicarsi all’insegnamento o lavorare nel guantificio del padre. Invece decise di tenere duro e rimanere a Londra, dove scrisse un paio di poemetti popolarissimi – Venere e Adone e Lucrezia Violata – e li dedicò al Conte di Southampton, che per convenzione gli avrebbe riconosciuto un compenso di qualche sterlina per opera. Entrambe le opere vendettero straordinariamente bene e furono più volte ripubblicate, ma a godere dei profitti non fu Shakespeare, bensì i suoi editori. Se è vero che i poemetti gli procurarono lodi e attenzione, la loro pubblicazione non gli fruttò che una somma assai modesta. Se la pestilenza che ebbe inizio nel 1592 e durò per quasi due anni si fosse protratta ancora a lungo, difficilmente Shakespeare avrebbe avuto un futuro in teatro o avrebbe potuto mantenersi come autore.
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«Il mese in cui compì trent’anni – aprile 1594 – il numero di morti di peste calò finalmente sotto i trenta a settimana, e i teatri londinesi riaprirono. Ormai erano defunti oltre dodicimila cittadini, dei centocinquantamila circa che popolavano Londra prima che scoppiasse l’epidemia. Le principali compagnie in cui Shakespeare doveva aver lavorato come attore o per le quali aveva scritto – Queen’s Men, Sussex’s Men e Pembroke’s Men – avevano molto sofferto per la lunga chiusura. Quando ricominciarono le rappresentazioni, se n’erano andati sia Marlowe che Greene. Watson era stato fra i primi a morire, molto probabilmente di peste, uno dei quasi duecento londinesi caduti vittime della malattia nell’ultima settimana di settembre del 1592. Peele aveva rinunciato all’attività di commediografo, e altrettanto avevano fatto Lodge e Lyly. Kyd era in fin di vita. E quasi tutti erano fra i trenta e i quarant’anni.
«Insomma rimase Shakespeare, e nessun altro drammaturgo degno di nota. Gli attori superstiti si riorganizzarono. Una delle nuove compagnie era il Chamberlain’s Men, che si fregiava del miglior attore drammatico (Richard Burbage) nonché del miglior attor comico (Will Kemp). Ora dell’estate del 1594 si era unito ai loro ranghi un altro socio: l’attore e commediografo William Shakespeare (che unitamente a Burbage e Kemp compare nel registro dei compensi per una rappresentazione a corte in quell’anno). È difficile che Shakespeare avesse potuto permettersi di versare l’anticipo necessario per entrare nella compagnia. Forse gli era stato abbuonato, o forse aveva offerto in cambio alcune opere. I Chamberlain’s Men fecero bene ad assicurarsi la collaborazione del più bravo tra gli autori di teatro ancora vivi, e per di più capace di recitare. E Shakespeare non dovette mai più vendere una sua pièce. Nel 1594 era una novità assoluta che un autore freelance diventasse socio a tutti gli effetti, e la sua situazione continuò a essere infrequente anche in seguito; nondimeno si rivelò una scelta proficua per i Chamberlain’s Men. E giovò molto all’astro nascente del teatro, godere della sicurezza economica. Nel giro di un anno Shakespeare aveva completato due delle sue opere più note, Romeo e Giulietta e Sogno di una notte di mezza estate. Nel decennio seguente, risparmiato dalla pestilenza, continuò a scriverne due o tre all’anno, tutte decisamente migliori di quelle che aveva prodotto in proprio. Nel 1598 gli fu proposto di acquistare una quota del Globe Theatre.
«Se la furibonda Yersinia pestis portata dai topi e dalle pulci si fosse abbattuta sopra un certo fangoso vicolo di Southwark invece che su un altro, oggi il nome di Shakespeare sarebbe relegato a qualche nota a piè di pagina, e celebreremmo Thomas Watson come il massimo commediografo inglese, o magari venereremmo un altro esordiente ormai anonimo. Alcuni si ritrovano con la salute, il mestiere e la famiglia annientati da una pandemia; altri hanno più fortuna. Lascio a voi spiegare il motivo per cui questa storia alternativa di Shakespeare non sia diventata un meme del Covid-19».
© 2022 The Autors Guild Foundation
© 2024 Adriano Salani Editore s.u.r.l. – Milano
Brano tratto da “Shakespeare in Plague Times” story © 2024 by James Shapiro
(continua in libreria…)
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