A un anno dal debutto, la collezione di racconti di Tetra torna con una nuova quartina, che vede protagonisti i racconti di Ilaria Gaspari, Giulio Mozzi, Paolo Di Paolo ed Elisa Ruotolo: su ilLibraio.it un estratto da “Turiste della catastrofe” della scrittrice e filosofa Gaspari, una vicenda dal sapore apocalittico. La trama? Due amiche sfinite dal lavoro e dalla frenesia del nostro presente decidono di vivere un’esperienza avventurosa: un viaggio nel tempo…
Arriva a 20 numeri (a un anno dall’uscita della prima quartina) la collezione di racconti di Tetra, che punta a riunire le voci di alcuni tra i migliori autori e le migliori autrici italiane contemporanee.
Protagonisti della quinta uscita sono Luce di Elisa Ruotolo, Il giorno in cui la letteratura morì di Paolo Di Paolo, Turiste della catastrofe di Ilaria Gaspari e Vite parallele e fantastiche di Pellagra Bongiovanni e Teresa Bandettini di Giulio Mozzi.
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Su ilLibraio.it, proponiamo in particolare un estratto dal racconto di Ilaria Gaspari, che vede protagoniste due amiche sfinite dal lavoro e dalla frenesia del nostro presente.
Gaspari si abbandona alla narrazione di una vicenda dal sapore apocalittico: spinte dalla necessità condivisa di fermarsi e regalarsi qualche giorno di riposo da trascorrere insieme, infatti, le due protagoniste decidono di andare in vacanza e vivere un’esperienza tutta nuova e particolarissima: un viaggio nel tempo.
Un’avventura che promette di essere indimenticabile… ma che cosa accade quando la meta stabilita è la Pompei del 79 d.C. durante la settimana di ferragosto?
Nel racconto l’autrice, collaboratrice de ilLibraio.it, con la capacità di scardinare le coordinate spazio-temporali, ipotizza, in maniera tanto realistica quanto inquietante, le possibilità offerte dalle nuove tecnologie…
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Turiste della catastrofe
di Ilaria Gaspari
“La Catastrofe di Pompei appartiene ad un altro genere: più limitata e concentrata, essa offre il raro e colto diletto della distruzione di una città popolosa, ricca, tra elegante e burina, né romana né greca; una città poco imperiale, un po’ come San Remo, magari durante il festival, o come Ostuni. Pompei ha il vantaggio di offrire in educato accoppiamento il grandioso dell’eruzione, il magnifico della lava, lo splendore degli incendi e il fragore dei crolli, e insieme il patetico dei fuggiaschi sopraggiunti dalla nube di cenere, le case domestiche consumate e distrutte, giovani amori stroncati, cristiani periti senza martirio – anche se non ce n’erano si può sempre metterceli, perché non possiamo non dirci Cristiani – pagani che invocano i loro dèi ormai in decadenza”.
Giorgio Manganelli
“Crederanno le generazioni a venire […] che sotto i loro piedi sono città e popolazioni, e che le campagne degli avi s’inabissarono?”.
Publio Papinio Stazio
Silvarum Liber III
Se sono sopravvissuta alla mia morte – circostanza, converrete, più unica che rara, per quel che ci è dato sapere – è stato soprattutto per via della mia stanchezza. Una stanchezza quasi irresistibile, esagerata, che mi prese alla fine di un inverno di qualche anno fa. Le avvisaglie non erano mancate; da tempo mi sentivo svuotata di tutte le energie, disillusa, distrutta.
Avevo un gran bisogno di una vacanza. Negli ultimi mesi avevo lavorato talmente tanto che mi capitava di risvegliarmi con i capelli fradici di sudore. Saltavo a sedere sul letto come se avessi una molla nella schiena, cercavo di calmare il respiro ma avevo il fiato grosso. L’aspetto più inquietante di quei risvegli era che perdurava in me l’angoscia di non poter completare il lavoro che nel sogno interrotto dovevo consegnare. Mi ci volevano minuti buoni perché mi ricordassi che era piena notte, che stavo dormendo e quindi non aveva nessuna importanza che avessi scritto quattromila caratteri spazi inclusi entro il volgere dell’ora: in piena notte, le ore non hanno nessun senso. E nemmeno il conteggio delle battute, l’ansia di chi deve impaginare il pezzo e tutto il resto. Tentavo allora di rimettermi a dormire, e succedeva che mi ritrovassi in un nuovo vicolo cieco. Un treno da prendere, una valigia che non voleva saperne di chiudersi. Ce n’era sempre una, dormire era più faticoso che star sveglia. Lavoro più nel sonno che nella vita, dicevo di giorno quando qualcuno mi chiedeva come stessi, ma la verità era che se lavoravo nel sonno era perché nella vita ero costantemente in ballo.
«Io non mi riposo da sei mesi esatti» mi diceva la mia amica Delfina, e buttava giù un altro sorso di Long Island. In quel preciso momento, in realtà, stavamo cercando con qualche efficacia di tirare il fiato in capo a una settimana terrificante, per tensione, sforzo, affaticamento. Quello che non osavamo confessarci, era che dietro tutto quel dispendio di energie, noi eravamo smarrite. Lavoravamo per non sentire il rumore di fondo, per stordirci, per non pensare. Un cliché trito e ritrito; del resto, succede spesso che le cose vere, nella vita, somiglino fin troppo ai luoghi comuni.
Era dai tempi della seconda pandemia, oltre cinque anni prima, che non andavamo più in vacanza. Delfina dirigeva un’agenzia di comunicazione e vestiva solo capi eterni, come diceva lei. Per capi eterni intendeva vestiti sulle cui etichette ci fossero almeno tre cifre, la prima delle quali non poteva essere un uno, e di rado era un due. Valeva anche per le magliette, sissignori, anche se vederla in maglietta era cosa piuttosto rara, e non perché avesse qualche remora contro l’abbigliamento informale. La sera che decidemmo della vacanza tracannando Long Island, lei si era presentata in pigiama alla piccola enoteca tutta divanetti e luci soffuse dove ci eravamo date appuntamento. In pigiama, avete capito bene: naturalmente era un pigiama couture, naturalmente sotto l’orlo bordato di seta cruda spuntavano delle décolleté dal tacco assassino, ma pigiama rimaneva.
Sosteneva che la sera era concesso tutto, sempre ammesso che si scegliessero capi di qualità; meglio se eterni, secondo la sua espressione che con il caratteristico gusto per la sintesi intendeva accentuare da un lato la versatilità, dall’altro l’estrema resistenza di quegli abiti costosissimi di cui si era riempita il guardaroba. Che non era propriamente un armadio, ma una stanza intera. Cabina-armadio, la chiamava lei, anche se le sue dimensioni non avevano nulla dell’angusta metratura delle cabine. E per quanto fosse uno spazio immenso, per quanto fosse stipato di gonne a matita, camicie, giacche e cappotti, pantaloni di ogni foggia e maglioncini di cachemire, non conteneva l’interezza della sua collezione, da cui, a cadenza variabile fra il mese e il semestre, espungeva i pezzi che non la convincevano più. Io ne sapevo qualcosa: non avrei avuto niente da mettermi, se con la sua generosa pietà di regina lei non mi avesse eletta a principale destinataria dei suoi scarti.
Io però non ero in grado di osare quanto lei. Lei che con la massima disinvoltura discettava sul bon ton dell’abbigliamento e rivendicava che il pigiama, la sera, indossato fuori casa non solo era concesso, ma era anzi una scelta spiritosa. Di sicuro lei era talmente autorevole, nei gesti, nel tono, in ogni singolo movimento della più piccola articolazione del suo corpo, che il cameriere scortandola a tavola non fece una piega. Era quel tipo di persona di cui si dice, con rispetto talvolta venato di incredulità, che può permettersi qualsiasi cosa. Ed era proprio così: a ben guardare, rispetto all’estensione della gamma di capricci che si sarebbe potuta concedere di coltivare, era piuttosto morigerata.
Con un sospiro, nel frusciare del suo pigiama da sera, si lasciò cadere sulla poltroncina rivestita di velluto verde scuro.
«Non ne posso più» e mi fu subito chiaro che, una volta tanto, non stava esagerando. Aveva gli occhi rossi dietro le lenti larghe degli occhiali. Addirittura, prima che le servissero il suo drink, mi resi conto che la palpebra sinistra le tremava: vibrava di stanchezza, di sfinimento, forse di tutto il nervosismo accumulato.
Delfina aveva pochi ma incrollabili punti fermi, nella vita. Uno era che la miglior vendetta, sempre, fosse fatturare. Non era chiaro di cosa sentisse il desiderio di vendicarsi; forse, nella frenesia della fatturazione ininterrotta, se l’era scordato pure lei. Sta di fatto che aveva accumulato un patrimonio notevole, e non smetteva di stupirmi l’idea che l’ammontare di quella piccola fortuna fosse in gran parte da ricondursi al rancore.
L’altro era che le ferie sono per gli incompetenti, perché non si fattura mai con tanta delizia come quando i tuoi concorrenti hanno chiuso baracca e burattini per esiliarsi su qualche isola di sabbia bianchissima a bere latte di cocco mentre finti indigeni suonano strumenti tribali. Aveva orrore delle vacanze organizzate, e anche per questo motivo se ne era tenuta lontana per tanti anni, e con una naturalezza senza scalfitture.
Ora, però, iniziavo a intravedere una crepa in quella superficie troppo liscia per non essere parte di un piano ben congegnato – come la sua guancia levigatissima, grazie alle settimanali micro-iniezioni di un costoso estratto del veleno di non so quale serpentello, procedimento essenziale alla realizzazione del suo progetto complessivo: rendere impossibile agli interlocutori indovinare la sua età, avvolgerla di un mistero talmente fitto da tramutarla in un enigma insolubile. Anche per questo, oltre che per scaricare più efficacemente il suo perenne sovraccarico di energie, si sceglieva le amicizie in una fascia d’età che, malgrado la sua fosse incalcolabile, doveva certo esserle inferiore. Non ho mai saputo quanti anni ci separassero, ma sospettavo che fosse almeno un lustro, se non due.
La sua indulgenza crescente nei confronti dell’ipotesi vacanziera, in realtà, aveva a che fare con il terzo punto della sua filosofia personale: fidarsi della tecnologia. Sempre e comunque, sempre e dovunque. Se qualcosa ti fa risparmiare tempo, sostiene Delfina, è una cosa buona.
Lei però della tecnologia non voleva solo fidarsi, voleva mettersi alla prova dimostrando di non aver paura delle applicazioni più pionieristiche.
Erano mesi che mi ripeteva questa novità assoluta, di cui ancora si parlava poco, se non in qualche strillo entusiastico su siti per appassionati di esperienze estreme. È una cosa che va fatta prima che diventi mainstream, chiosava ogni volta con voce flautata. Per lei, mainstream significava tutto il peggio che si potesse concepire. Significava le torme di turisti che avevano trasformato La Rambla di Barcellona in un fiume nauseante di malvestiti, una sfilata di orrori con i marsupi e i calzoni corti e le scarpe brutte, fra due muri angosciosi di espositori di souvenir improponibili. Significava ascelle impertinenti e fastidio e neonati che strillano sull’aereo fino a farti desiderare il rumore del trapano o del martello pneumatico come inedita ipotesi di sollievo. Significava, soprattutto, essere costrette a orecchiare conversazioni noiosissime, come quella che in quel momento fluiva al tavolo accanto al nostro. Delfina seppe servirsene, per portare acqua al suo mulino.
«Ma ti rendi conto che questi stanno parlando dei vantaggi dell’assicurazione sanitaria da quaranta minuti? E io che mi aspettavo una storia piccante, qualche dettaglio da rivendermi poi nei miei racconti alla cena, noiosissima a sua volta, dove devo andare domani, con l’amministratore delegato di quell’azienda di giocattoli virtuali, che ancora non si è capito in cosa sono diversi dalle app che usiamo dalla mattina alla sera, ma insomma, ecco… e questi, sono quaranta minuti che origlio perché gli ho dato il beneficio del dubbio, perché ho sperato di scovare una pepita nel loro discorso, e invece niente! Assicurazioni sanitarie! Ora vado a dirgliene quattro, non ci si approfitta così di una poveretta che sta solo cercando di farsi i fatti loro!».
Cercai di arginare il suo sproloquio. Invano, naturalmente. Delfina non la fermavi con la gentilezza. Nemmeno con la violenza, a dirla tutta. Quando attaccava così, potevi scordarti di arrestare l’imponente flusso verbale. Non ti restava che ascoltarla.
«Mi dicevi della vacanza…» azzardai con tutta la timidezza del recente tentativo, sconfitto, di placarla.
Colse l’amo. Forse era stata lei, dopotutto, a porgermi l’esca; aveva intavolato la geremiade apposta, per portarmi a seguirla.
«Sì, è una cosa che va fatta, prima che scendano i prezzi e sia alla portata di bifolchi come questi, che poi te li ritrovi nel 1492 a parlare di sciatalgia…».
«1492? Ma tu ci credi?».
Ci credeva eccome…
(continua in libreria…)