Dire Novecento equivale a dire modernità industriale. Ma è proprio vero che è solo grazie al moderno se l’Occidente si è lasciato alle spalle una preistoria falsamente utopica? Se lo chiede Giuseppe Lupo, autore de “La modernità malintesa”, un saggio alla scoperta della narrativa di fabbrica, dagli anni trenta del secolo scorso a oggi – Su ilLibraio.it un estratto che tratta l’opera di autori come Giovanni Verga, Pier Paolo Pasolini, Luciano Bianciardi e Umberto Eco

Dire Novecento equivale a dire modernità industriale. Ma è proprio vero che è solo grazie al moderno se l’Occidente si è lasciato alle spalle una preistoria falsamente utopica? Se lo chiede Giuseppe Lupo, che firma per Marsilio il saggio La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana.

Lupo, che insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università Cattolica di Milano e che collabora con Il Sole 24 Ore, ha pubblicato per Marsilio romanzi come L’ultima sposa di Palmira, Gli anni del nostro incanto, e Tabacco Clan).

giuseppe lupo la modernità malintesa

Studioso della stagione del boom economico, l’autore di La modernità malintesa ripercorre il “paradigma interpretativo del moderno”, dando voce alle sue figure più rappresentative, da Vittorini a Testori, da Fortini a Mastronardi, da Calvino a Pasolini.

Nel suo nuovo libro Lupo fa luce sul controverso rapporto fra umanesimo e scienza nella narrativa di fabbrica e nei periodici aziendali del secondo dopoguerra – da Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri a Memoriale di Paolo Volponi, dalla rivista Pirelli a Civiltà delle Macchine –, percorso al termine del quale si approda al “realismo liquido” odierno, dominato dalla fine di quel proletariato che un tempo pareva marciare compatto e oggi sembra invece fragile e desueto. Se persone comuni ed élite intellettuali hanno reagito spesso con disagio e diffidenza a oscillazioni e problematiche che il vento del progresso ha portato con sé, forse è arrivato il momento di invertire la rotta.

Innovazione tecnologica e nostalgia della tradizione, ambizioni capitaliste e promesse di mondi incontaminati: questa, per l’autore (che ha curato, sempre per Marsilio, Moderno Antimoderno di Cesare De Michelis, e che ha scritto di diversi saggi sulla cultura del Novecento), è l’eredità che il Novecento ha trasmesso all’immaginario culturale del nostro tempo.

Quello di Lupo è dunque un viaggio alla scoperta della narrativa di fabbrica, dagli anni trenta del secolo scorso a oggi, dal sogno di Olivetti all’odissea dell’Ilva, alla nuova frontiera della duplicazione digitale dei prodotti –, tra visioni, modelli, sospetti e giudizi spesso severi e corrosivi.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

TRE CENTENARI

Nel 1922 moriva Giovanni Verga e nascevano Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi. Per quanto non sia evidente alcun tipo di collegamento, esiste un invisibile legame tra loro che si manifesta nella maniera in cui tutti e tre vivono il rapporto conflittuale con il tema della modernità. Verga lo sviluppa obbedendo a una concezione astorica, dove i mutamenti politici ed economici di cui egli stesso è stato testimone – il processo di unificazione nazionale conclusosi nel 1861 e l’inizio dell’industrializzazione – vengono interpretati come elementi nocivi agli equilibri di quella parte di umanità su cui si focalizza la sua attenzione di scrittore. «Questo racconto», specifica il 19 gennaio 1881 a congedo dei Malavoglia, «è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere, e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.»

Scritte a Milano, queste parole formalizzano il teorema dell’immobilismo meridionale: il miraggio del benessere diventa causa di degenerazione personale e familiare, per cui sarebbe più conveniente accettare il destino anziché tentare la sorte.

Verga raffigura una condizione umana incapace di reagire al fatalismo, perdente nella lotta darwiniana per la conquista di una migliore posizione nella scala sociale e ciò fissa l’identità di un’Italia minore, condannata a non trovare nei territori della Storia le risorse morali e materiali per redimersi dalla condizione di subalternità. Questa interpretazione del non progresso non soltanto diventa la chiave di lettura dell’intera questione meridionale, ma rischia di trasformarsi in una prospettiva metodologica destinata a fare proseliti nella nutrita compagine siciliana che forma il cosiddetto anticanone risorgimentale, da cui fuoriesce il solo Vittorini, il più antisiciliano tra gli scrittori siciliani.

C’è un dato eloquente. Nel momento in cui Verga si accingeva a comporre le sue opere migliori, respirava il clima di quella Milano che celebrava la propria identità di capitale morale ospitando, dal 1° maggio al 1° novembre 1881, la prima grande esposizione industriale di una nazione nata una ventina d’anni prima e proprio in ragione di questo primato si era guadagnata l’etichetta di «città più città d’Italia». Apparentemente è difficile credere a una visione antimoderna nel cuore della nascente modernità, eppure questo indicano le opere più importanti dello scrittore catanese: nessuno dei personaggi riuscirà a sottrarsi a un destino da perdente e agli uomini che popolano le sue pagine, per quanto essi si sforzino, sarà negata l’occasione per riscattarsi moralmente, oltre che economicamente.

Cambiando epoche e scenari, questa sorta di avversione alla modernità la troviamo pari pari osservando le reazioni di Pasolini e Bianciardi di fronte al passaggio da un’Italia agricola a un’Italia industriale e con il conseguente affermarsi di una società prigioniera dello sviluppo tecnologico e della logica dei consumi. Ciò non vuol dire che il loro atteggiamento si possa sovrapporre a quello di Verga, ma entrambi rientrano in quella schiera di intellettuali che Umberto Eco avrebbe inserito tra gli apocalittici (e non negli integrati) nel saggio uscito nel 1964, più inclini a battersi contro le trasformazioni della società, avvenute tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, nemici non tanto del benessere, quanto delle deviazioni che la civiltà delle macchine poteva arrecare nel quotidiano di chi apparteneva a un’Italia umile e poi, pur continuando a farne parte, sentiva l’urgenza di acquistare i beni della società di massa.

Può interessarti anche

Pasolini e Bianciardi sono autori che rientrano in quella compagine, in cui sono compresi anche Lucio Mastronardi e Paolo Volponi, etichettata da Gian Carlo Ferretti come «letteratura del rifiuto», tanto sospettosa nei confronti della civiltà dei consumi da chiamarsi fuori.

Sono ampiamente note le reazioni di entrambi nei confronti del boom economico. In Pasolini coincidono con la ricerca di un «paese innocente», che quasi sempre assumeva la fisionomia dell’humilemque Italiam, un mondo periferico, appenninico e dialettale, friulano o romanesco poco contava, di gran lunga preferito all’idioma parlato da Mike Bongiorno nei programmi televisivi, su cui Umberto Eco, sul primo numero della rivista «Pirelli» del 1961 e poi in Diario minimo, ebbe a scrivere una vera e propria fenomenologia in virtù della quale chiarire il rapporto fra massificazione del linguaggio e massificazione dei modelli culturali.

Frequentando l’Italia delle periferie e del dialetto, Pasolini costruì una forma di epos premoderno che raccontava una nazione rurale e incontaminata, sopravvissuta all’avanzare del moderno coltivando la dimensione della marginalità. «Io sono una forza del Passato» recitano i versi contenuti in Poesia in forma di rosa del 1964. «Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle Chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / dimenticati sugli Appennini o le Prealpi.»

In altre forme ma con identico risultato, Bianciardi manifesta la propria antimodernità attraverso il furore distruttivo con cui il protagonista della Vita agra combatte la propria, personale battaglia contro una Milano efficiente e iperproduttiva. Costui è un personaggio eccentrico: un intellettuale di provincia, di origini maremmane, approdato a Milano con l’obiettivo di vendicare con una bomba sotto il palazzo della Montecatini la strage di operai avvenuta nella miniera di Ribolla, vicino Grosseto, ma poi costretto a mettere da parte il suo progetto perché fagocitato dai ritmi della frenesia lombarda. Nella Vita agra non soltanto si azzera ogni percezione del mito del progresso, ma il dissenso più violento sfocia in una tanto folle quanto dissacratoria distopia, definita «neocapitalismo a sfondo disattivistico e copulatorio»: un vero e proprio decalogo che si oppone alla filosofia dell’utile, del pragmatico, del funzionale in nome di un odio che si rivolge soprattutto all’indirizzo della morale borghese.

Mentre in Verga la sfiducia nel progresso affonda nei retaggi di una tradizione storico antropologica, in Pasolini e in Bianciardi interferisce con il sostrato ideologico-politico che ha nutrito di contraddizioni e di paradossi il cuore di un Novecento nato come il secolo della modernità e passato invece alla Storia, almeno in Italia, come il periodo di maggiore conflittualità nei confronti del moderno.

Al contrario di quanto comunemente si creda, un sentimento antimoderno resta vivo e diffuso nell’immaginario culturale e morale del nostro tempo, dove le macchine assumono spesso la fisionomia dei mostri e la tanto vagheggiata «età dell’oro», con le sirene d’una arcadia a portata di mano, con le false promesse di mondi incontaminati, rappresenta ancora uno dei miraggi a cui erroneamente si continua a guardare perfino nell’epoca in cui l’industrializzazione tradizionale è confluita nel sistema economico delle multinazionali.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Libri consigliati