In “Digressione”, Gian Marco Griffi ribalta i cardini del tempo e dello spazio per costruire un romanzo vertiginoso, visionario e fuori da ogni schema. Dopo “Ferrovie del Messico”, l’autore piemontese torna con un’opera ambiziosa e labirintica, dove Benito Mussolini finisce a pascolare asini, Asti diventa il centro dell’universo e un libro misterioso genera infinite storie e deviazioni. Un’epopea postmoderna fatta di linguaggi, paradossi e personaggi indimenticabili, che sfida la linearità e reinventa il romanzo come mappa esistenziale…

Immaginate che la Storia (sì, proprio lei, la Storia con la S maiuscola) – stanca di roteare su sé stessa come una vecchia giostra o un fanciullesco girotondo, tra reincarnazioni buddiste e ammonimenti marxisti – decida all’improvviso di uscire dai propri cardini. Una deviazione subitanea, una licenza poetica, una fuga dai binari del destino ricorsivo.

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E se quella deviazione portasse Benito Mussolini, morto fucilato il 28 aprile 1945 a Giulino, a un placido esilio sull’isola d’Elba, intento ad allevare asini e, forse, rimpianti? E se nel frattempo la brulla provincia italiana – non la Milano scintillante né la Roma monumentale, ma l’umile Asti – diventasse il centro dell’universo, baricentro gravitazionale di un ecosistema letterario vivo e pulsante?

Eccovi dunque giunti nei territori improbabili (e affascinanti) di Digressione, il nuovo romanzo-fiume di Gian Marco Griffi pubblicato da Einaudi Stile Libero. Un libro che non si accontenta di raccontare un’altra storia“: le racconta tutte, e lo fa con una visionarietà ipnotica, febbrile, inarrestabile…

Digressione di Gian Marco Griffi

Dopo il successo di Ferrovie del Messico – romanzo epico e carsico edito nel 2022 da Laurana, semifinalista del Premio Strega 2023 – l’autore piemontese classe ’76 torna con un’opera che sfida ogni categorizzazione: Digressione è infatti una macchina narrativa labirintica, una bibliopolis vivente fatta di voci pulsanti e corridoi che non portano da nessuna parte – o forse dappertutto.

Un romanzo-mondo (termine tanto ambiguo quanto indubbiamente calzante) che scaturisce da un bizzarro patto tra Wallace, Bolaño, Pynchon e Dick siglato in un dimenticato bar del centro con tre bicchieri di grignolino e una copia consunta dell’Aleph come sottobicchiere.

Il cuore pulsante di questa impresa narrativa è sicuramente Arturo Saragat, giovane protagonista segnato da un dolore profondo e silenzioso. A differenza del funambolico Cesco Magetti di Ferrovie, tormentato da un acuto e tangibile mal di denti, “Artù” è colpito da un male ben più subdolo: il senso di colpa. Un peso che si insinua dopo un episodio cruciale, un momento di resa morale consumato nel parcheggio di un Carrefour, dove il male ha avuto campo libero e lui ha voltato lo sguardo altrove.

Quel vuoto e quella mancata opposizione diventano una ferita aperta che i discorsi rincuoranti (e talvolta distratti) della madre Anna non riescono a lenire. Men che meno aiuta l’assenza totale del padre Giacomo, estroso e lunatico botanico che un giorno ha mollato tutto per andare a studiare piante esotiche e fiori iridescenti in Sudamerica, lasciando solo sparuti messaggi dietro di sé come un novello Pollicino. Alla deriva, Arturo si aggrappa a due presenze che, più che offrirgli salvezza, lo trascinano in un viaggio ancora più profondo dentro sé stesso: una ragazza e un libro.

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La ragazza è Angelica, visione intermittente che attraversa la sua vita come una cometa: lungi dall’essere una dantesca Beatrice, la giovane è più una figura sfuggente alla quale aggrapparsi durante il pellegrinaggio postmoderno che si apre vivido all’orizzonte. E come la Tilde di Ferrovie del Messico, anche Angelica incarna una presenza doppia: è figura reale e insieme allegorica, carne e simbolo, enigma e mancanza. Una ragazza che – dal primo incontro a scuola, con uno stropicciato fiore di carciofo in mano – si muove in uno spazio liminale, appartenendo all’immaginazione del protagonista e alle trame rocambolesche del mondo.

La copertina del libro Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi

L’altro appiglio – se così si può chiamare – è un libro, o meglio un assemblaggio stravagante di due testi: Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México (esatto, proprio lui) e L’armamento delle truppe a cavallo tartare. Rilegati insieme in un misterioso faldone verde e donati da Tommaso Sconocchini – ragazzo taciturno, goffo e “sfigatello” – questi si rivelano un oggetto tanto magico quanto inaffidabile: annotato, pasticciato e violato da generazioni di lettrici e lettori, il tomo si presenta come una mappa labirintica che più che orientare confonde; un atlante esistenziale che invece di indicare il cammino ne moltiplica le deviazioni (o digressioni).

A partire da questo misterioso volume – già elusivo MacGuffin di Ferrovie del Messico, oggetto della ricerca forsennata di Cesco – Griffi costruisce un iperromanzo in cui la forma stessa si disgrega e si ricompone.

Come i grandi romanzi postmoderni oltreoceano che hanno fatto scuola, anche Digressione utilizza il simulacro come perno stabile attorno a cui far ruotare la trama, detonatore caotico di mille possibilità. Dalla videocassetta clandestina (o samizdat) in Infinite Jest di David FosterWallace, che costituisce il centro di gravità di una narrazione allucinata e ultra-intrattenente, alla palla da baseball in Underworld di Don DeLillo, filo conduttore in un grandioso mosaico dell’America contemporanea: anche in Digressione, la presenza arcana di Historia/Armamento è il principio centrifugo sovrano. E laddove in Ferrovie l’assenza del volume era il motore narrativo, in queste pagine è proprio la presenza del libro – reale, tangibile, maledettamente ingombrante – a causare la proliferazione testuale.

Non è più un elemento da rincorrere, ma un portale aperto, da cui si riversano – senza tregua – storie, linguaggi, paradossi, visioni, in un buco nero narrativo. Queste sono le infinite ramificazioni, gli scarti stilistici, le incursioni grottesche e liriche, le digressioni che danno titolo e sostanza al romanzo.

Come un globo terrestre miniato a mano – oggetto che nel romanzo, sotto forma dei Mappamondi Vercingetorige, ha una presenza quasi mitologica – Digressione rappresenta un atlante dell’immaginazione, un tentativo ossessivo di rappresentare “tutto ciò che esiste, più una parte cospicua di ciò che è esistito e non esiste più, di ciò che esiste pur non essendo mai esistito, e di ciò che non esiste, non è mai esistito e mai esisterà”.

Mappamondi Vercingetorige

Il logo della Mappamondi Vercingetorige in Digressione

Una formulazione che pare una parafrasi vertiginosa tratta dalle cosmologie letterarie di Borges e della sua “babelica” biblioteca, unita alla componente surreale delle grandi ucronie à la L’uomo nell’alto castello di Philip K. Dick. Ogni personaggio, anche il più laterale (dal dentista killer all’allevatore di asini), porta con sé un universo potenziale: anche i nomi – Zeno Fissasegola, Calixto Escalera Del Pilar – sembrano provenire da un archivio parallelo della lingua, dove la nomenclatura si fa narrazione. Allo stesso modo dei celebri Tyrone Slothrop e Roger Mexico de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, anche i personaggi griffiani sono vettori già da una prima presentazione di un senso alieno (forse smarrito o mai trovato).

Un altro elemento citazionistico ben marcato è la disseminazione lungo tutto il testo di elementi brandizzanti come Esselunga, Carrefour, Nutella. Non un semplice esercizio di stile o un rimando wallaciano a un universo schizofrenico e sempre più “tiktokkante“, ma l’ancoraggio a una quotidianità tutta italiana, tanto banale quanto pericolosamente magica: Griffi ha un talento raro nel cogliere le microstorie dietro le pieghe del reale, dove un parcheggio diventa un punto di svolta esistenziale, una marmellata di fichi si trasforma in un rito salvifico e un grosso e polveroso librone dà adito a uno sciorinarsi incontrollabile di Storie.

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La lingua, corpuscolare e ricorsiva, si fa modulare come una sinfonia, costruita su frasi che si rincorrono e si trasformano, saltando di volta in volta da un idioma all’altro, dall’alto al basso, dal sacro al profano.

Dallo spagnolo criptico e magico dei grandi protagonisti di Bolaño al brusco e terroso dialetto Veneto, la Digressione è letterale e continua, dando forma a un esperimento linguistico che sfida la linearità narrativa, prendendo le deviazioni come principio etico.

Con Digressione, Griffi si conferma una delle voci più imprevedibili della letteratura italiana contemporanea: se Ferrovie del Messico è stata l’esplosione, Digressione è inequivocabilmente l’onda d’urto: più lunga, più lenta, più profonda.

Il suo universo continua ad espandersi, e a noi lettori non resta che seguirlo, pagina dopo pagina, smarrendoci e ritrovandoci.

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