“L’intimità più reale, più profonda, l’ho sempre sentita nel gesto di poggiare la testa sulla schiena di qualcuno che parla; sentir vibrare la voce in un tremito, sentire un altro cuore che si accorda al nostro”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice e filosofa Ilaria Gaspari, dal terzo numero della rivista “Sotto il vulcano”, e che sul suo rapporto con l’udito racconta: “Non sono sorda, ma soffro di una lieve disfunzione cognitiva, l’amusia, che si potrebbe paragonare alla dislessia, legata però alla musica”

Il suono dei ricordi

Dei giorni della primavera 2020, che pensavo non avrei scordato mai, ora ricordo soprattutto due cose – il resto già si sfalda nella memoria. Ricordo il silenzio della strada, che risaltava nel cinguettio di uccelli invisibili. E, nel silenzio, le sirene delle ambulanze. Il mio cane si metteva allora a ululare, quasi volesse unire la sua voce a quella di un branco di lupi; mi hanno detto che è una cosa che i cani fanno spesso, ma intanto la risposta primordiale al richiamo sintetico mi dava i brividi.

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È curioso che i ricordi più intensi che ho di quel periodo siano ricordi sonori – anche perché, da quando si portano le mascherine nei luoghi chiusi, ho l’impressione di sentirci meno. Mi dicono che è una sensazione condivisa: non vedere le labbra di chi ci parla, avere a nostra volta bocca e naso coperti, è come se ponesse un filtro alle conversazioni. Certo, non è con la bocca che ascoltiamo; e come sosteneva Epitteto, il saggio stoico, gli dèi ci han dato una sola bocca e due orecchi perché dovremmo ascoltare il doppio di quanto parliamo. L’orecchio è fondamentale. Assurdo, del resto, viene da ab-surdus: l’inconsistenza logica ha a che fare con una dissonanza, con qualcosa che suona male. E forse questa etimologia comprende pure le assurdità dei pregiudizi sulla sordità: il sito BuzzFeed ha raccolto le domande più digitate in proposito dagli utenti su Google. C’è chi si chiede se i sordi abbiano comunque una voce interiore; chi addirittura dubita che possano pensare. Ma, al netto dei preconcetti e dell’ignoranza, queste curiosità affondano nella difficoltà di immaginare una vita al di fuori del linguaggio. Il fatto è, però, che l’equazione non vale: essere sordi non esclude dalla possibilità di comunicare. La lingua dei segni, oltretutto, è una lingua visiva che di per sé costituisce un arricchimento del linguaggio.

Il poeta David Wright, che ha scritto un’autobiografia imperniata sulla sua sordità, racconta che certe volte, al vedere un alito di vento che scosta le fronde di un albero, è costretto a ricordarsi di non poter udire niente; perché il movimento comunica ai suoi occhi un suono immaginario. Una sinestesia viva, una forma del sentire, prima ancora che una figura retorica.

Le famose “voci di tenebra azzurra” che evoca Pascoli ne La mia sera, le ascoltiamo o le vediamo? Ascoltarle e vederle insieme è qualcosa di diverso dal sommare le due percezioni; è inventarne una terza, più potente della somma delle due: una percezione poetica, che scuote dal profondo.

Per comunicare, non abbiamo solo le “parole alate”, come le chiama Omero, e quanta bellezza nell’idea che la voce soffi minuscoli messaggeri con le ali ai piedi: le parole che abbiamo imparato a ripetere ascoltandole, che ci hanno fatto ridere o paura, le parole che ci cantavano a ninnananna e che assoceremo sempre al riposo. Ci sono suoni che fin da prima che nasciamo fanno parte del paesaggio sonoro che come un giardino faremo fiorire, piantumando nella terra parole e suoni nuovi; l’humus, però, sono questi rumori ben più antichi. Se il tatto è il primo senso con cui esperiamo il mondo una volta che nel mondo siamo stati catapultati, nella vita prenatale già sentiamo: un cuore che batte, e non è il nostro, ma quello della donna il cui utero è la nostra primissima casa, la casa che in un certo senso saremo destinati a rimpiangere per sempre.

Così, un cuore che batte regolare, che ci riporta alla buia, perfetta beatitudine del grembo materno, alla sicurezza cui la nascita ci strappa, rimane poi per tutta la vita un suono di conforto. L’intimità più reale, più profonda, l’ho sempre sentita nel gesto di poggiare la testa sulla schiena di qualcuno che parla; sentir vibrare la voce in un tremito, sentire un altro cuore che si accorda al nostro. Il pentametro giambico, metro tipico della poesia antica, riproduce il ritmo del cuore, ed è infatti un metro che si memorizza facilmente; e guarda caso, in inglese e in francese, imparare a memoria è un’azione che ha a che fare proprio con il cuore: learn by heart, apprendre par cœur. Il battito del cuore è la nostra memoria più antica. La regolarità del suo segnale, che occupa uno spettro costante, lo assimila al rumore bianco – ancora una sinestesia, stavolta non a uso poetico ma scientifico – come quello del mare calmo o dell’asciugacapelli; come le fusa di un gatto.

Forse, allora, l’antica confidenza che abbiamo con il suono del cuore, con il suo propagarsi ondivago nel liquido amniotico, è la ragione per cui tratteniamo tanto facilmente i ricordi sonori; e quella per cui sono così contigui all’emozione. Il suono è costituito da onde di pressione – nel vuoto non esiste, ha bisogno di un mezzo per propagarsi: l’acqua, l’aria. O la terra che vibra, come nei film di avventura, annunciando zoccoli di cavalli al galoppo. Il tuono lo sentiamo dopo aver visto il fulmine: dobbiamo lasciare all’aria il tempo di trasportare il tremito. Ma del resto, la parola emozione, che viene dal francese antico émotion, indica proprio qualcosa di sovrapponibile al suono: un’oscillazione, in senso fisico. Anche l’emozione ha la sua risonanza, fa vibrare il cuore. Come la musica: arte dionisiaca, armonia di suoni che convogliano, trasformano, oscillano nell’animo di chi li ascolta; la musica che fa ballare, che unisce molti corpi in un’unica onda di movimento e di eccitazione. A essere onesta, io questo lo so per una via non proprio empirica; non sono sorda, ma soffro di una lieve disfunzione cognitiva, l’amusia, che si potrebbe paragonare alla dislessia, legata però alla musica. In sostanza non sento il ritmo – batto le mani fuori tempo, canto malissimo. All’uscita dal cinema, rimango ammutolita quando qualcuno loda la colonna sonora del film – non ci faccio mai caso. Cerco di immaginare come sarebbe, avere consapevolezza della musica; mi piacerebbe, anche per un giorno solo, saperlo.

Ma ci sono cose che posso fare comunque. Appoggiarmi alla schiena di qualcuno che parla, cogliere l’onda, il battito del cuore; sentire l’emozione nell’attimo in cui trema e si propaga.

Sotto il vulcano

IL TERZO NUMERO DELLA RIVISTA SOTTO IL VULCANO – In libreria per Feltrinelli il terzo numero della rivista Sotto il vulcano. Idee/Narrazioni/Immaginari, diretta da Marino Sinibaldi e curata per quest’occasione da Andrea Bajani. Il tema è Fuori luogo e l’intento è quello di provare a raccontare come e perché i flussi umani, ma anche il nostro modo di intendere il mondo attraverso mappe e confini, siano di nuovo al centro della discussione per comprendere l’attualità.

Racconti, reportage, interviste, riflessioni personali e analisi sociali, a cura di scrittori, filosofi, artisti, scienziati. Tra i contributi, quelli firmati da Jumpa Lahiri, Maylis de Kerangal, Mircea Cartarescu e dal Premio Nobel Abdulrazak Gurnah. E ancora, le rubriche di Fabio Genovesi, Walter Siti, Ermanno Cavazzoni, Ilaria Gaspari (che proponiamo qui sopra) e Katja Petrowskaja.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, filosofa e collaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Scrive per diverse testate, e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.

Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni

Il suo nuovo libro è A Berlino – con Ingeborg Bachmann nella città divisa (Giulio Perrone editore).

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Fotografia header: Ilaria Gaspari, foto di Chiara Stampacchia

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