Margaret Atwood è una strega del nostro tempo, una scrittrice magica, amante delle pozioni, che riesce a mescolare dolore, morte, ironia, vecchiaia. Nella raccolta di racconti “Vecchi bambini perduti nel bosco” esplora la vita adulta, e quel passaggio tra la gioventù e quel qualcos’altro che c’è dopo di essa e che non sempre è facile accettare. Con malinconia, divertimento e un pizzico di distopia…

Raccontare la vecchiaia non è facile, come non è facile darle un nome che non risulti, quando non offensivo, di sicuro poco educato. Vecchiaia, anzianità, terza età, senilità.

Può essere solitaria, può essere decorosa, dignitosa, serena, per i più fortunati anche dorata. È, però, un periodo che tendiamo a nascondere, a non esporre, come se il suo arrivo non fosse stato programmato da tempo, come se ci prendesse sempre alla sprovvista.

Essere anziani e non fare più piani, non avere progetti. Essere anziani e aver perso le persone che si amavano, con cui si passava il tempo.

Avere la sensazione che niente abbia senso. Che il tempo che scorre non abbia valore, se non perché sta erodendo fino all’ultimo istante il nostro passaggio sulla terra.

Ci sono alcuni autori e autrici che sono riusciti a raccontarla: magistralmente Elizabeth Strout, con le sue amate protagoniste di più libri, Olive Kitteridge, e Lucy Burton. Nei cicli di storie a loro dedicate, la vedovanza e la vita oltre quella soglia sono raccontate con ironia e spietatezza.

Ne Le nostre anime di notte (NN editore, traduzione di Fabio Cremonesi) di Kent Haruf, c’è una speranza, un sollievo, nella dolce malinconia del dolore e dei vasi da notte, ed è riposto negli altri e nella gioventù.

In Vecchi bambini perduti nel bosco (Ponte alle Grazie, traduzione di Guido Calza) quel sollievo viene fatto a pezzi e bruciato in un falò, nel puro stile dell’autrice, Margaret Atwood.

vecchi bambini perduti nel bosco di margaret atwood

Annata 1939, Atwood è una delle scrittrici canadesi più conosciute al mondo. Tradotta in cinquanta paesi, ha scritto narrativa, poesia e saggistica, nel 2000 ha vinto il Booker Prize per L’assassino cieco (Ponte alle Grazie, traduzione di Raffaella Belletti) ed è amata anche per un genere letterario a lungo poco frequentato: la narrativa speculativa.

In Italia è tornata a essere un’autrice molto letta e discussa dopo che il suo Il racconto dell’ancella (Ponte alle Grazie, traduzione di Camillo Pennati) è diventato una serie TV di culto.

Margaret Atwood, tra le altre, è ritratta in Morgana, il podcast di Michela Murgia e Chiara Tagliaferri che proprio all’autrice canadese dedicò la prima puntata. Lì viene ricordato che la scrittrice è una lontana discendente di Mary Webster, accusata di stregoneria dai puritani nel Connecticut del 1680.

Con lei, come si può immaginare, niente è mai solo come sembra.

In questo volume Atwood ha raccolto alcuni suoi racconti apparsi su riviste e raccolte e li ha suddivisi in tre sezioni.

I personaggi più presenti sono Nell e Tig, una coppia a cui ci si affeziona immediatamente. Il loro matrimonio è sereno, vivo e ironico. Hanno una relazione equilibrata, attenta e per niente noiosa; hanno figli, amici, una vita rurale e una metropolitana. Li conosciamo da giovani, intorno ai quarant’anni, e attraversiamo con loro diverse fasi della vita, dai corsi di primo soccorso, alla gestione di un’eredità, alla morte di uno dei due coniugi. Un racconto ne insegue un altro, caoticamente e senza ordine cronologico, alla ricerca di qualcosa, una spiegazione, un criterio in ciò che accade nella vita.

E se è un piacere seguirli nelle loro vicende quotidiane, nel conoscere i due anziani vicini, John l’irascibile irlandese, e Francois, il francese sognatore, nel ripescare un paio di pantaloni da yoga in un laghetto, nello scrivere un’ode a un amato gatto morto; invecchiare con loro e veder perdere chi si ama diventa un’esperienza straziante. Così intima da provare vergogna nel leggerla. Quasi viene da sollevare lo sguardo da quel dolore, da quella mancanza, per lasciare che se la sbrighino tra loro, come se quel percorso di separazione dalla vita non appartenesse a tutti noi.

La vecchiaia, la consunzione che questa implica e la morte sembrano essere il tema portante (e importante) della raccolta — alternate a deliziose sciocchezzule, come un salvataggio di umani da parte di alieni polipo che devono inteattenerli raccontando loro fiabe reinterpretate; o il racconto metaforico della trasmigrazione di un anima da una lumaca ghiotta di lattuga a una giovane malcapitata umana; o una divertentissima seduta spiritica per intervistare l’amatissimo George Orwell dal mondo dei morti, tramite una medium di nome Verity che, da queste esperienze, si sveglia sempre con una gran fame.

Ben più seria è la novella Freeforall, ambientata in un futuro vicino, e non così tanto alternativo, in cui un virus trasmesso tramite saliva e copula, ha ridotto l’umanità in tante microscopiche comunità intente a organizzare matrimoni giusti e sani, e a rinchiudere i malati nei tremendi Freeforall.

All’interno della raccolta i richiami alla pandemia da Covid-19 sono molteplici. Margaret Atwood la usa come spunto narrativo, come innesco per le sue storie che poi si tramutano in orripilanti distopie che ci mettono sull’attenti. Cosa aveva dichiarato l’autrice, in fondo, quando negli Stati Uniti un sovrintendente di una scuola voleva censurare il suo Il racconto dell’ancella?

“Nel mio libro non ho messo niente che l’essere umano non abbia già fatto. Forse non è un bel ritratto ma è il nostro ritratto”.

Ecco, è proprio questo che agghiaccia della scrittura e del genio di Atwood: la limpidezza con cui traccia il ritratto, unendo i puntini, accennando le linee e dandoci la sensazione di viverla quella distopia, o quantomeno di non esserne così distanti.

In Malefici materni, Atwood appare invece in tutta la sua stregoneria.

Tra mortai pestati con forza, indici puntati e combattimenti aerei di fattucchiere millenarie, racconta un delicato rapporto madre-figlia, basato sulla menzogna, su racconti mitologici e presentimenti giusti.

Una giovane donna, che da adolescente diventa adulta, e madre di un’adolescente che, a sua volta sta attraversando l’età delle rispostacce, proprio come lei diversi anni prima.

“Non credo adesso di ricordare più come si esce stizziti da una stanza: è un talento, ma pare che le adolescenti odierne non lo coltivino. In compenso continuano a mettere il muso e sorridere sprezzanti, come facevo anche io”.

Lo racconta la protagonista, e in questi piccoli affreschi di vita quotidiana vediamo un pezzo della scrittrice, che si fonde con le sue personagge.

Margaret Atwood in una foto di Leonardo Cendamo (foto: Getty Editorial)

Cosa ci resta di chi abbiamo amato? Cosa ci rimane della vita che abbiamo vissuto?

“Mettere in ordine. C’è molto da mettere in ordine. Si accumulano tante cose, anno dopo anno. Poi c’è una miniesplosione, e tutti gli oggetti che sono stati raccolti – le lettere, i libri, i passaporti, le fotografie, le cose predilette conservate in cassetti e scatole o scaffali – tutto si sparpaglia nella scia di un razzo in partenza o di una cometa o di un’onda di energia o di un respiro silenzioso, e le vedove devono spazzare e suddividere e regalare e tramandare ed eliminare. I pezzi di un’anima disseminati qui e là”.

E quel che resta, a Nell, a Tig, e a noi che la leggiamo, è una malinconia fisica, che stringe lo stomaco e fa pizzicare gli angoli degli occhi e quella sensazione di essere tutti solo bambini perduti nel bosco.

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Fotografia header: Margaret Atwood Getty Images foto di Maria Moratti 13.10.23 con copertina

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