Dopo “Chiamami col tuo nome”, “Cercami” e “L’ultima estate”, André Aciman, maestro dell’eros, torna con un nuovo romanzo, ispirandosi a “Le lettere di una monaca portoghese” del 1669, dove la protagonista scrive della passione, e della straziante agonia, per un ufficiale francese che l’ha disonorata e poi abbandonata. Con “Mariana”, l’autore si cala ancora una volta nei crepacci del cuore, in quel suo misto intrico di nostalgia, rabbia e autoanalisi, per dare voce al senso di vuoto nell’abbandono – L’approfondimento

Scriveva Umberto Saba: “Morire è nulla; perderti è difficile. Difficile e lacerante perdere non solo l’amato, ma il suo stesso pensiero, l’idea di lui che la mente aveva forgiato. In confronto la morte è nulla”.

Forse non era nemmeno amore, quello di Mariana per Itamar.

Giovane studentessa dell’accademia d’arte, Mariana incontra Itamar subito, la prima sera. Lui ci sa fare, fa ridere lei e tutti, è un ammaliatore, la guarda e decide di averla. Lo decide anche Mariana, lungi dall’essere la creatura sedotta.

È un niente, una cosa di poco tempo, sesso tra due ragazzi nella camera di lei, qualche serata insieme: è un niente per lui, sicuramente, che passa subito a quella dopo, un nome come un altro, salutando Mariana con un gesto del capo, come una vecchia conoscenza, con l’indifferenza di chi ha avuto e adesso guarda avanti. Sarebbe stato un niente anche per Mariana, se avesse potuto giocare il gioco dell’amore con le sue carte, facendo a modo suo, pensando di avere tempo, anche per stufarsi di Itamar. Invece il suo tempo finisce inaspettatamente, senza nemmeno una spiegazione.

mariana

La Mariana di André Aciman (Guanda, traduzione di Valeria Bastia) è una donna archiviata, perché aveva una data di scadenza senza saperlo, e il suo tempo è scaduto, di colpo, lasciandola a lottare in un caleidoscopio di dolore, sfacciata e sofferente.

“Lo sapevi.
Certo che lo sapevi. Lo sapevi fin dall’inizio.
E lo sapevo anch’io. Ma non volevo vedere.
Perché avevo troppa paura di scoprire come sarebbe stato vivere anche un solo giorno senza di te”.

Ci sono processi che una volta innescati non si fermano, e quello dei se e dei ma è il più subdolo. Perché l’amore non è sentimento di cuore, è ossessione di testa, e costruisce scenari, si racconta storie alternative, cerca colpevoli. Itamar il seduttore, che ha giocato sporco, che ha ingannato: fa bene crederlo, ma poi Mariana lo sa che non è così, nessuna menzogna, solo narcisismo e disinteresse, quel disincantato “è fatto così” che giustifica tutto, anche il suo star male e dunque, avanti e indietro nelle tortuosità della mente, la colpevole è lei.

L’amore perso ha il suo complice sadico nel senso di colpa e di inadeguatezza: essere meglio, più brillante, più bella di quella prima, di quella dopo, scelta, lei, perché vincente. È un logorio devastante, il peggiore che una donna riesce a confezionare nel proprio animo, quel continuare a grattare affinché la ferita non possa rimarginarsi. Perché quel dolore è un pezzo di lui, tiene compagnia. Perderlo è difficile, ci si attacca anche a questo, alla crosta da torturare.

Mariana va avanti, in mezzo alle ombre, costruendosi una quotidianità fatta di pellegrinaggi nei luoghi di Itamar, di reliquie da ammonticchiare, di appostamenti per incontrarlo, casualità costruite per farsi male, per vedere la nuova bionda, la prescelta, per assicurarsi un A presto, attorno cui immaginarsi una promessa, l’illusione che possa ancora toccare a lei, anche per poco. Un turno sulla giostra di Itamar, anche uno solo.

“Odio averti permesso di tramutare la mia vita in un’orribile domenica senza sole che implora l’arrivo del crepuscolo”.

L’ossessione è quella, e non è immaginazione, romanticheria, è corpo, odore, che rimane impigliato, attaccato alla pelle. L’amore è anche oscenità, quella di cui ci si scopre capaci inaspettatamente, che ha fatto sentire liberi, attori consumati di gesti e parole che non ci si aspettava di contenere. Ci si scopre nuovi, usciti da un torpore di cui non si era consapevoli, e questa scoperta porta gratitudine, sì, gratitudine, anche quella, e sorpresa. Ma non si torna indietro, e l’avanti non c’è più: si resta incastrati nel presente, soli, in preda alla gelosia e alla più dolorosa mancanza, quella di se stessi senza limiti.

Solitudine è la parola centrale, perché lo spazio resta vuoto, e il tempo si misura in un prima di Itamar e in un dopo Itamar. E tutto ha senso solo nel pensiero di lui, che diventa amore solo adesso, nella fissazione.

“A una parte di me piace avere il cuore infranto, lo so. C’è qualcosa di così tangibile nell’avere il cuore infranto, forse addirittura di sano e affidabile – quand’è stata l’ultima volta che ho provato qualcosa di altrettanto reale? All’asilo. Saperlo, però, mi rende forse meno idiota?”.

André Aciman non risparmia nulla, in questo groviglio amoroso che è la testa di chi soffre, e lo fa con compassione ma anche con violenza, senza edulcorare, come sa fare quando parla di desiderio: è il momento più basso, e più profondo, quello di Mariana che mendica l’odore di Itamar, strusciandosi sulla sua pelle una volta, l’ultima volta, senza pudore. “Due secondi, dai, sbottona la camicia”.

Non c’è mai pudore nell’attrazione raccontata di André Aciman. Da Chiamami col tuo nome a Cercami e a L’ultima estate, l’eros di Aciman è un abisso spietato nel quale le regole sono sospese, e non resta che immergersi, per ritrovare l’immagine di noi più osceni e liberi.

La rievocazione della storia con Itamar genera una riflessione che è una lettera, che non sarà mai spedita, perché alla fine non è scritta per lui: Aciman si cala nei crepacci del cuore, in quel suo misto intrico di nostalgia, rabbia, autoanalisi per dare voce al senso di vuoto nell’abbandono.

Un senso che non ha età né genere: nell’utilizzare la forza espressiva e intima dell’epistola, André Aciman si ispira a Le lettere di una monaca portoghese del 1669 dove la protagonista Mariana scrive della passione, e della straziante agonia, per un ufficiale francese che l’ha disonorata e poi abbandonata.

Il tormento non ha epoca, non ha fede, non ha colore, non conosce evoluzione: André Aciman, maestro dell’eros, dimostra come uguale è la sofferenza, uguale il bisogno di indagine e di comprensione della propria mutevolezza, uguale la solitudine dove ci si ritrova dopo l’amore, intrappolati in un supplizio senza fine, un dolore autoinflitto nel continuo riandare indietro perché proprio quel dolore, concreto e grossolano, è necessario, unico lascito senza il quale tutto è perduto.

“Ti darei tutto quello che ho per un’altra notte come la prima. Forse stavo esagerando, chissà, ma mi sono sentita meravigliosamente bene nel dirlo”.

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