Sono anni in cui si scrive molto di padri. Ma nel saggio “Il padre sulla spalle – Debolezza del patriarcato in letteratura”, Giorgio Ficara guarda al passato, e traccia un sorprendente percorso tra i padri di grandi autori e poeti, un viaggio (ricco di esempi) nella contraddittorietà della figura paterna: genitori spesso assenti, sfocati e malinconici, di autori come Sbarbaro, Leopardi, Saba e Kafka…
Si scrive molto di padri, e non solo da parte di scrittori maschi.
Se guardiamo ai primi anni del nuovo secolo, l’impressione è che all’uccidi il padre novecentesco e freudiano, magari con la mediazione di Saba (“Mio padre è stato per me ‘l’assassino’;/ fino ai vent’anni che l’ho conosciuto./ Allora ho visto ch’egli era un bambino,/ e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto”), la narrativa contemporanea ci chieda con insistenza di “perdonare” proprio il suo essere padre, di riconciliarci con la sua intrinseca distruttività di iceberg, magari di angelo della morte, magari, infine, di enigma antropologico.
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Ma, a differenza di Kafka, schiacciato come un insetto, o dello Svevo che nella Coscienza di Zeno riceve dal genitore moribondo il celeberrimo schiaffo, la figura paterna di molti autori – penso a Tommaso Grossi o Alessandro Zaccuri, a Paolo Cognetti o Carmen Pellegrino o Dario Voltolini, ma in fondo anche al recente L’anniversario di Andrea Bajani – non è quella di un cupo, severo borghese benpensante; all’opposto, può essere un solitario avventuroso, troppo avido di vita e in fondo solitario, o magari rispetto al suo ruolo “patriarcale” indeciso e fortemente riluttante.
Stiamo del resto rileggendo, e con un certo gusto, il Philiph Roth del Portnoy riproposto per Adelphi, un libro che fra l’altro sembra volerci insistentemente proporre proprio il “deficit di patriarcato” largamente colmato, nel suo caso, dalla madre.
Forse, però, non di patriarcato si dovrebbe parlare almeno in questo caso quanto di paternità – secondo una distinzione formulata in un classico e fortunato studio dell’antropologo Jacques Dupuis (Storia della paternità, riproposto da Edizioni Paginauno nel 2022): in cui sfata molti miti un po’ ideologici sulla società matriarcale che avrebbe inaugurato per così dire l’umanità in una sorta di Eden primigenio. E tuttavia, rispetto al clan matrilineare, Dupuis conviene su un punto fermo: “L’istituzione della famiglia patrilineare – ci ricorda – non si pone come un atto santo e moralizzatore, è più un atto di predazione sessuale, in linea con la morale delle società primitive, un atto di violenza che arriva a smembrare gli antichi clan matrilineari e a poco a poco dà vita a una nuova società”. Ovvero la nostra, con le sue ambiguità di fondo, e una sorta di memoria sepolta dove si agita la contraddittorietà della figura paterna.
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Lo dimostra assai persuasivamente Giorgio Ficara con Il padre sulle spalle (Einaudi), che ha per sottotitolo un eloquente Debolezza del patriarcato in letteratura. Non è un’opera sistematica, non ambisce alla mappa e all’enciclopedia. La sua dimensione è un alto discorso critico che ha semmai l’ambizione di suggerire le contraddizioni e le alternative, le possibilità, i particolari anche minimi, quelli che forse minano dall’interno una convinzione culturale e ideologica per molti indiscutibile: come del resto afferma il sottotitolo, e l’autore dimostra assai suggestivamente attraverso una riflessione per saggi, da quelli più articolati ad altri racchiusi in un breve ed intenso ritratto.
Se infatti è pur vero, come Ficara scrive nella prefazione, che anche nella letteratura “padri spaventosi hanno dettato la loro legge”, è tuttavia rintracciabile la “ricorrenza contraria, nel nostro stesso canone”, ovvero un altro padre, “appena sfocato e malinconico”, alle prese con una sorta di crisi d’identità, che risolve in modo discontinuo o magari scomparendo. È, il suo, un ruolo che esercita in presenza ma anche in assenza, come accade nei romanzi degli orfani, da Fielding a Dickens. Il padre “debole”, talvolta riluttante, sembra davvero indicare il profilo comune a quelli che per certi versi gli scrittori degli ultimi vent’anni hanno riscoperto.
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Giorgio Ficara non guarda però alla contemporaneità circostante. I suoi padri vanno da Ettore alle Porte Scee a quelli reali ed esistiti dei poeti novecenteschi (Sbarbaro, Montale, Saba, Giudici). La sua fenomenologia letteraria considera i classici ed è tuttavia molto vasta, né i genitori “esistiti” dei poeti moderni differiscono da quelli immaginati da un Virgilio o un Omero perché anch’essi sono stati in maggiore o minor misura ricreati nei testi – e nel caso di Montale si direbbe solo nel testo: il padre Domingo non pare aver una sua vita autonoma se non nell’evocazione del figlio in Voce giunta con le folaghe, dove compare come un’ombra mentre guarda verso il mare “fuor dal buio/che ti teneva, padre, erto ai barbagli,/ senza scialle e berretto, al sordo fremito”, figura per eccellenza riluttante, che “appare e danza nell’alba come un’allucinazione”.
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Siamo a una fastosa galleria tra meraviglia e disinganno: ecco allora Ugo Edoardo Poli, irredentista triestino ed esule, il cui figlio decide di chiamarsi Umberto Saba (in onore forse della governante?), padre in perenne fuga; o il notissimo Carlo Sbarbaro dal “cuore fanciullo” cui il figlio Camillo dedicò quella che forse è la più bella poesia sul padre della nostra letteratura (“Padre, se anche tu non fossi il mio/ Padre, se anche fossi a me un estraneo,/ per te stesso egualmente t’amerei”).
E riecco il grido di Enea risuonare nel Giorgio Caproni della poesia dedicata al padre Attilio: “perché tu o padre mio la terra/ abbandoni?”. Ma soprattutto ecco Monaldo Leopardi, riscattato dalla fama di cattivo e un po’ ottuso letterato, e innalzato a quello che Ficara definisce “l’emblema, o l’iperbole, di ogni padre: chi ama senza condizioni un essere intimo e sconosciuto”: suggerendoci forse il senso dell’intero lavoro. Ma andrà ricordato ancora il ritratto dedicato a Gino Giudici aggredito verbalmente in una piazza di La Spezia da “un creditore che sbraita”, come scriverà il figlio Giovanni, bambino testimone di quel trauma che “non si stringe al genitore maltrattato”, anzi inaugura una sorta di tradimento.
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Questi padri indeboliti, spesso sul punto di scomparire, altre volte in totale assenza, sono molto diversi uno dall’altro, ma tutti inaugurano col figlio (o con la figlia, per esempio in Emma di Jane Austen il buffo signor Woodhouse, “padre soave, ma essenzialmente e felicemente equivoco”) un legame strettissimo, una sorta di condivisione non necessariamente idilliaca o felice, spesso un amore che non è patriarcale anzi è metafisico (quando si interrogano i teologi o Simone Weil: c’è di mezzo quel contraddittorio padre dei cieli che è davvero difficile affrontare e definire), o a dirla tutta materno: come avviene per il padre forse più rappresentativo, quello che non solo potrebbe suggerire la chiave del libro, ma anche il più vicino, si direbbe, agli scrittori contemporanei.
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È appunto Monaldo Leopardi, a torto considerato un arido bigotto, padre invece dolcissimo e affettuosissimo “sentimentale, benigno, attento a Giacomo come una vecchia balia”; e vincolato anche per i suoi guai economici – il patrimonio o ciò che ne rimane è controllato con mano ferrea dalla moglie – da una sorta di segreta complicità col figlio. Lui non scompare, non si esilia né si è eclissa, non rilutta. Troppo distante dal genio di Giacomo, si limita a amarlo: in nome della paternità brucia in sé ogni scoria di patriarcato.
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