“Il corpo è la scena del medesimo attacco che cerca di distruggere la donna come persona, che cerca di impedire il suo diritto ad autodeterminarsi e stabilire i propri confini”. Rebecca Solnit, intervistata a San Francisco da ilLibraio.it, approfondisce alcune delle principali tematiche femministe contenute nei suoi saggi, tra cui “Gli uomini mi spiegano le cose” e “Ricordi della mia inesistenza”, concentrandosi sull’annichilimento del corpo della donna e i rapporti di potere che si riflettono dalla sfera familiare a quella politica. L’autrice, inoltre, si sofferma sulla crisi sociale che sta attraversando la sua città, San Francisco, e conclude aprendo uno squarcio sul suo ultimo saggio, “Le rose di Orwell”, in cui la biografia di George Orwell diventa pretesto per riflessioni più ampie che sconfinano nella nostra attualità…

Quando incontro Rebecca Solnit è una giornata di sole e di vento, come quasi sempre a San Francisco. Mi ha dato appuntamento alla libreria Green Arcade, a metà di Market Street, arteria che taglia la città in diagonale da Twin Peaks, il suo punto più alto, ai moli dell’Embarcadero.

La Green Arcade è una libreria di quartiere e di lotta, tanto accogliente con il cliente che fa capolino quanto chiara nella sua inclinazione politica, e il proprietario, Patrick Marks, è un buon amico di Solnit. L’atmosfera, mentre la intervisto, tra scaffali di legno e pile di saggi di attualità e di storia e un banco di scintillante novità (ma poche, perché oltre che di quartiere e di lotta la Green Arcade è soprattutto una libreria di – vastissimo – catalogo), è quella di un confortevole salotto casalingo.

Sembra difficile, quasi impossibile, inquadrare la produzione di Rebecca Solnit: scrittura e attivismo, nel suo cangiante lavoro, si compenetrano incessantemente e, allo stesso modo, i suoi testi sono un continuo rimando tra argomenti, come una scatola cinese, come una matrioska, le suggestioni letterarie lasciano spazio all’attualità politica, le dissertazioni storiche aprono squarci sulle più recenti ondate femministe. Un gioco di specchi che si ritrova anche nel suo ultimo saggio, Le rose di Orwell (Ponte alle Grazie, 2022), dove la minuta vicenda personale di un grande scrittore che amava prendersi cura dei suoi fiori diventa lo spunto per parlare di un Orwell inedito, rispetto all’uomo severo raccontato da gran parte della critica, aprendo divagazioni che toccano persino Tina Modotti e Stalin, per parlare, in ultima sintesi, di totalitarismi e rapporti di potere.

Rebecca Solnit Le rose di Orwell

I rapporti di potere, d’altronde, sono un tema caro a Solnit, che percorre, più o meno esplicitamente, gran parte della sua opera. La raccolta di saggi Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alle Grazie, 2017, traduzione di Sabrina Placidi) e il memoir femminista Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie, 2021, traduzione di Laura De Tomasi), si muovono su questo stesso filo rosso: la riflessione femminista non può prescindere dal discorso sul potere e sui corpi.

Sono questi gli spunti da cui prende avvio una conversazione in cui Solnit parla di misoginia e sopraffazione, della crisi attraversata dalla sua città, San Francisco, negli ultimi decenni, di autoritarismi e di Trump, di attualità e, in fin dei conti, di politica in tutte le sue sfaccettature. 

Rebecca Solnit, Ponte alle Grazie

Partirei dal suo libro che ha avuto maggior risonanza in Italia: Gli uomini mi spiegano le cose. Cosa pensa indichi della società il calore con cui è stato accolto?
“Il saggio che dà il titolo alla raccolta è stato pubblicato nel 2008, ma il libro è uscito solo nel 2014. In ogni caso, il mio proposito era cercare di collegare alcune delle cose più orribili che possono accadere alle donne alle credenze e ai valori della nostra società. Può trattarsi di un evento minuto, come un uomo che, durante una cena, non crede che una donna abbia il diritto o l’autorità di parlare di un dato argomento, oppure può svolgersi nella sfera professionale, dove, ugualmente, una donna può essere trattata come se non fosse competente nel proprio campo. O ancora, come racconto proprio in quel saggio, può essere la storia di una donna che urla terrorizzata perché il marito sta cercando di ucciderla, ma la gente intorno, invece di ascoltarla, dà per scontato che sia pazza. Sono tutti esempi che fanno eco a un’esperienza molto specifica delle donne: essere trattate come incompetenti. Si tratta, sempre, di un attacco alla voce di una donna, al suo diritto di essere considerata a pieno titolo una persona, una cittadina, la parte di una comunità. Ho un’intera collezione – che ho chiamato ‘le Olimpiadi del mansplaining’ – di esempi di quanto sto dicendo: tra questi figura anche la vicenda di una donna a cui degli uomini hanno cercato di spiegare come si pronunciasse il suo nome”. 

Il saggio inizia con un aneddoto personale.
“Ero convinta che avrei scritto un testo relativamente divertente, perché ho iniziato con l’aneddoto di un uomo che mi voleva spiegare un libro che avevo scritto io: insomma una cosa fastidiosa, ma non pericolosa. Però, procedendo nella scrittura, mi sono resa conto di quanto velocemente stessi passando da questo spunto alla storia che ho appena raccontato: un uomo che trovava divertente aver visto correre fuori di casa una donna, nuda, nel cuore della notte, che gridava che il marito stava cercando di ucciderla. Perché ai suoi occhi doveva essere per forza pazza, non poteva essere attendibile. Questo cambio di prospettiva mi ha scioccato”.

Quando raccontiamo la violenza di genere, la prima cosa che dovremmo fare è parlare di patriarcato, eppure è una parola che fatica ancora a entrare nel discorso politico.
“Il problema è di chi comanda: le femministe non hanno problemi a usarla, questa parola. Si tratta di cambiare lo status di un termine, e forse non è un processo diverso dal cambiare l’intero sistema valoriale di chi decide cosa sia valido e cosa no. In inglese usiamo molto il termine ‘misoginia’ e sono contenta che l’italiano abbia reso più popolare la parola ‘femminicidio’. ‘Femminicidio’, ‘cultura dello stupro’, ‘misoginia’, ‘patriarcato’, ‘sessismo’: ognuno di questi termini ha un significato e, di solito, quando le persone rifiutano una parola stanno anche rifiutando la realtà che ci sta dietro”.

Ricordi della mia non esistenza, Rebecca Solnit

Per esercitare una forma di potere è indispensabile annichilire anche il corpo. Un suo testo dove è centrale il discorso sul corpo è Ricordi della mia inesistenza. Le chiedo: il discorso sulla violenza di genere è sempre un discorso di corpi?
“Il corpo è la scena del medesimo attacco che cerca di distruggere la donna come persona, che cerca di impedire il suo diritto ad autodeterminarsi e stabilire i propri confini: perché solo quando hai una voce puoi dire di no, puoi stabilire dei limiti, puoi testimoniare in tribunale ed essere creduto. Abbiamo sotto gli occhi le modalità sistemiche con le quali gli uomini sono stati in grado di commettere crimini: anche in un’epoca come la nostra in cui, a differenza del passato, la violenza domestica e gli stupri coniugali sono considerati un crimine, nonostante tutto continuano a perpetuarsi, e questo accade perché permane una disuguaglianza di voce e di potere. La violenza fisica è una rappresentazione dell’identità maschile come potere, dominio, controllo. Ed è da questa volontà di dimostrare che la donna non vale niente che nascono le umiliazioni, le mutilazioni del corpo”.

C’è una pagina molto potente, all’inizio di Ricordi della mia inesistenza, in cui sottolinea come alle donne venga insegnato a immaginare il proprio assassinio. È una violenza psicologica che inizia tra le mura di casa e plasma la percezione che si ha del mondo.
“Parte del motivo per cui ho scritto Ricordi della mia inesistenza è che ci rapportiamo a questi fatti terribili come se accadessero a sole poche donne, anche se la percentuale di donne che sono state violentate o che hanno affrontato un qualche tipo di violenza è piuttosto alta. E vivere in un mondo in cui questo accade a persone della tua categoria significa essere costantemente consapevoli che potrebbe capitare anche a te. Questo ha un impatto enorme, così come lo ha organizzare costantemente la propria vita per evitare la violenza maschile in una società in cui è molto raro che vengano limitate le libertà degli uomini in modo che le donne possano avere i loro pieni diritti. Avviene piuttosto che le donne debbano rinunciare al loro diritto di camminare per strada, di indossare quello che vogliono, di esprimere la loro opinione, di dire di no agli uomini o lasciarli. Ci viene costantemente ripetuto che siamo noi a dover prevenire la violenza maschile, ma questo non è altro che un modo per deresponsabilizzare gli uomini e sottintendere che la società continuerà a far prevalere i loro diritti”.

In questo libro è centrale anche il discorso su San Francisco, la gentrificazione, la crescita dei costi. Com’è cambiata la città negli ultimi decenni?
“Ho vissuto in almeno dieci città diverse chiamate San Francisco e quella attuale è la città che meno preferisco. La San Francisco in cui mi sono trasferita, nel 1980, prima della crisi dell’AIDS, aveva il 15% di cittadini neri, mentre ora ne conta forse il 3%. Era molto più accessibile, le persone arrivavano per scoprirsi poeti, attivisti politici, idealisti, ed era anche relativamente facile avere una casa e una vita che non comportasse lavorare sessanta ore a settimana per un’azienda. Poi la Silicon Valley è arrivata come un mostro e si è mangiata tutto. Prima San Francisco era un’alternativa, un rifugio: la città della liberazione gay, delle Sorelle della Perpetua Indulgenza, della nascita del movimento ambientalista con la fondazione del Sierra Club nel 1892, della poesia sperimentale… Mentre ora la Bay Area è diventata uno dei centri del potere mondiale, è il luogo di Google, Facebook, Twitter, Uber, Airbnb, e tutte le altre aziende che hanno cambiato il mondo, per molti versi in peggio, trasformando la privacy in merce”.

Il problema che emerge è anche abitativo.
“La San Francisco attuale è diventata una città poco accessibile e sta assistendo a una crisi continuativa di homeless. Si tratta del prodotto di decisioni prese a livello perlopiù federale, oltre al fatto che l’alloggio viene trattato principalmente come una merce speculativa e non come un diritto di base. Alloggio, cibo, vestiti e assistenza sanitaria vengono trattati come prodotti e non come diritti. Mentre è necessario avere salari più alti, più reti di sicurezza, più fondi federali per gli alloggi, che sono stati tagliati. È necessario costruire alloggi a prezzi accessibili per i cittadini a basso reddito, invece nella Bay Area vengono costruiti molti alloggi, ma tutti per redditi più alti”. 

Ha però anche spesso portato San Francisco come esempio positivo di buone pratiche politiche. Può ancora trainare il resto del paese?
“Penso di sì, ma non come un tempo, perché mancano molte voci. Se devi guadagnare 100mila dollari all’anno per poter restare qui, hai meno tempo per concentrarti sul clima, sui diritti umani o su altre questioni cruciali. Non c’è una forte presenza della destra, ma credo che sempre più persone molto benestanti non avranno il tempo di impegnarsi: potranno sostenere valori progressisti, ma non saranno impegnate politicamente come potevano esserlo quarant’anni fa. Il grande mutamento economico a cui abbiamo assistito ha reso tutti più conservatori, perché, a meno che non si abbia un’eredità, bisogna lavorare molto duramente per guadagnare abbastanza per andare avanti. E i senzatetto ci ricordano che, quando si cade, si cade molto lontano e molto duramente. Mentre negli anni Sessanta e Settanta la società americana aveva raggiunto un tale livello di benessere che molti giovani – bianchi perlomeno – potevano permettersi di fare scelte di vita basate sui propri ideali, senza doversi preoccupare troppo di come sopravvivere”.

L’esperienza dell’attivismo è molto importante nel suo lavoro autoriale. È nata prima la Rebecca attivista o la Rebecca scrittrice?
“L’attivismo alimenta la scrittura in molti modi, mi porta a contatto con persone straordinarie e mi permette di essere testimone dei cambiamenti. Con Hope in the Dark ho raccolto una serie di argomentazioni sulle teorie del cambiamento. Penso che, prima di essere cittadini di un luogo specifico, siamo cittadini della Terra, e dobbiamo pagare la nostra ‘quota di partecipazione’, prendendocene cura. Non mi sento eccezionale, ho più tempo libero e più possibilità di scelta di altre persone. Il mio meraviglioso fratello minore David, poi, è stato un attivista fin dall’adolescenza e il suo esempio ha avuto grande influenza su di me: spesso siamo stati impegnati per le stesse questioni, per esempio al momento ci occupiamo entrambi molto di clima. Ma ho l’impressione che negli Stati Uniti ci sia spesso l’attitudine a ritenere la politica il lavoro di qualcun altro, quando invece dovrebbe essere il lavoro di tutti. Credo che per molti americani l’obiettivo sia avere una vita felice, mentre per me deve essere significativa, quindi avere una vita che comporti il farsi in continuazione domande, ma anche impegnarsi per i valori, le comunità, la vita pubblica. Io mi sento grata di avere una vita significativa”.

La sua produzione sembra essere caratterizzata da un costante flusso di pensiero in cui, nel discorso sull’attualità, convergono studi sulla lingua, la letteratura, la storia. E mi sembra che il suo nuovo libro, Le rose di Orwell, sia un esempio perfetto di questo suo approccio alla scrittura.
“Orwell era già uno scrittore importante per me, ma quando ho scoperto la storia delle sue rose si è svelata ai miei occhi un’immagine di lui assolutamente inedita. Parlare del rapporto di Orwell con i fiori e il giardinaggio mi ha permesso di approfondire tematiche che ritengo particolarmente significative, come il rapporto tra il piacere e la politica, tra il mondo naturale e quello sociale, politico e umano. La vicenda umana di Orwell si lega alla domanda su come sia possibile vivere in tempi difficili, come praticare l’antiautoritarismo e l’antifascismo. Spesso c’è una grande austerità, si ha come l’impressione che nessuno dovrebbe divertirsi fino a quando tutti i problemi nel mondo non saranno risolti. Ma, dal momento che questo non è possibile, allora non sarà neanche mai possibile distendersi. In questo senso, Orwell diventa un esempio perfetto: un uomo serio, posato, che tuttavia traeva grande piacere dai fiori, dalla natura, dalla bellezza, ma anche dalle fiabe e dalle filastrocche. Penso sia un invito a trovare un equilibrio nella propria vita”.

Un aspetto di Orwell inedito.
“E molto affascinante: non me lo sarei mai aspettato perché i testi su di lui – la maggior parte dei quali scritti da uomini – lo presentano come una figura austera, cupa, ma in realtà aveva un grande senso dell’umorismo, e apprezzava piaceri semplici come una buona tazza di tè, il cibo inglese, trascorrere tempo con il proprio figlio o occuparsi del suo giardino e dei suoi animali. Considerando che il problema più grande del nostro tempo riguarda proprio la natura, il clima, la sopravvivenza umana e di tutta la biosfera, e che il mondo naturale è stato spesso trattato come meramente decorativo, superfluo, al di fuori del regno della politica umana, ho voluto utilizzare Orwell come leva per approfondire il ruolo in realtà politico della stessa natura e collegarmi alla crisi politica attuale”.

Il discorso su Orwell si collega anche a quello sui totalitarismi. Nell’ultimo anno, con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo avuto modo di vedere come sia ancora attuale parlare di autoritarismo.
“La mia pratica femminista si collega per forza di cose a quella antiautoritaria: che si parli di un ‘capo della famiglia’ o della nazione, si parla sempre di un individuo autoritario che si arroga il diritto di dettare come debba essere la realtà e che vede nella verità e nelle voci indipendenti un nemico. Nelle famiglie patriarcali autoritarie, l’uomo pretende di detenere sempre la ragione, relegando le donne a fonti inaffidabili, e il medesimo approccio avviene a livello internazionale in politica. Come nel caso di Trump, che sostiene di non aver perso le elezioni contribuendo così all’escalation di violenze che ha portato all’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il punto centrale che collega autoritarismo e patriarcato è il desiderio di determinare a priori quale sarà la verità”.

Che cos’è la politica per lei?
“Come recita un meraviglioso slogan femminista, il personale è sempre politico. Penso che la politica sia ovunque, in chi ha accesso alla cultura e al mondo naturale, nella qualità del cibo che mangiamo, nei film che vediamo, nel rapporto con gli altri, in ciò che immaginiamo possibile. Tutti, a prescindere dal loro mestiere e dal loro ruolo nella società, operano in un mondo politico. Il personale è politico, il politico è personale: tutto è permeato dalla politica”.

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