“Il mio primo incontro con il concetto di reputazione è avvenuto in un ascensore, diversi anni fa…”. Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari, che parte da una traumatica esperienza autobiografica: “Per un periodo mi vestii di grigi e marroni, colori che non amo, per cancellare un poco della mia personalità, il lato più lieve, che di punto in bianco mi appariva sospetto: davvero ero stupida? Nel dubbio, mangiavo pochissimo e ridevo meno di quanto avrei voluto; mi convinsi, stupidamente per davvero, che potesse essere intelligente rinunciare al mio senso dell’umorismo – eppure mi aveva salvata ogni volta che ne avevo avuto bisogno. Oggi mi vergogno della mia ingratitudine, ma ero giovane e non capivo…”. Per poi allargare il discorso, dalla letteratura all’attualità, partendo dall’Eneide di Virgilio per arrivare alla recente video-confessione di Kate Middleton…
Il mio primo incontro con il concetto di reputazione è avvenuto in un ascensore, diversi anni fa. Non ci hanno nemmeno presentate. A dire il vero, non ero stata presentata nemmeno ai due ragazzi che stavano in ascensore con me e che mi elargirono – forse senza volerlo, forse assecondando un qualche impulso che con astuzia freudiana aveva saputo travestirsi da errore – un corso accelerato sul potere della vergogna e dello sguardo altrui.
Venni a sapere più tardi che la ragione per cui quei due avevano creduto di poter dire, di me, una serie di sottili oscenità in mia presenza, era una voce che sul mio conto si era diffusa nei miei primissimi giorni da studentessa universitaria: che non capissi l’italiano e fossi appena arrivata, con una borsa di studio, dalla Francia.
La ragione della diceria era probabilmente la mia passione per le magliette a righe, un innocente stereotipo. Io però l’italiano lo capivo, e sul momento solo l’incredulità mi aveva protetta, inducendomi a credere di aver inteso male le loro parole.
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Non avevo inteso male; dopo quella prima iniziazione surreale, nei mesi successivi, una volta chiarito che non ero affatto francese e potevo capire benissimo quel che si diceva di me e di altre ragazze come me, ebbi diversi saggi dell’estensione di quel potere, un potere dello sguardo e della vergogna, in un ambiente ristretto, competitivo, gerarchico – e a gerarchia ancora molto maschile, pur in un’istituzione fondata su basi lodevolmente egualitarie.
Nostro malgrado, riusciva a condizionare i comportamenti di noi ragazze. Un voto alto, un riconoscimento accademico tributato da un professore, venivano invariabilmente assegnati a qualche simpatia indebita, a qualche forma di attrazione e seduzione. Ogni tentazione di frivolezza era sanzionata come indizio di mancata serietà, se non proprio di scarsa intelligenza, in un ambiente in cui l’intelligenza era venerata.
Ma forse i miei ricordi di oggi sono esagerati, incupiti dalla considerazione in cui tenevo, allora, quei pareri non richiesti? È probabile, certo. Perché quello che crea i ricordi sono le loro conseguenze, e le conseguenze di quelle chiacchiere che, fossi stata forte come non ero, avrei magari ignorato, assunsero nella mia vita una fisionomia molto precisa: quella di un’autodisciplina triste che mi imprigionò per diversi anni.
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Sviluppai qualche complesso che non avevo mai conosciuto prima: certi dolori di crescita, piccole nevrosi fisiologiche legate allo smarrimento dell’età, conobbero una tenacia forse più radicale – forse: ma chi può mai costruire la propria biografia con i se? – di quella che sarebbe spettata loro in un contesto meno giudicante.
Desiderai occupare meno spazio possibile; per un periodo mi vestii di grigi e marroni, colori che non amo, per cancellare un poco della mia personalità, il lato più lieve, che di punto in bianco mi appariva sospetto: davvero ero stupida? Nel dubbio, mangiavo pochissimo e ridevo meno di quanto avrei voluto; mi convinsi, stupidamente per davvero, che potesse essere intelligente rinunciare al mio senso dell’umorismo – eppure mi aveva salvata ogni volta che ne avevo avuto bisogno.
Oggi mi vergogno della mia ingratitudine, ma ero giovane e non capivo niente.
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La reputazione, incontrata distrattamente in ascensore, agiva su di me come strumento di controllo; un sistema di anacronistica efficacia, utile da molti secoli nel domare bisbetiche, addomesticare ribellioni, raffreddare il calore del sangue di generazioni di donne cresciute e vissute sotto il ricatto dell’onore da preservare a ogni costo. Onore di cui a lungo proprio le donne hanno portato l’onere senza per questo trarne alcun vantaggio.
Anche se il peso di una buona reputazione da mantenere ha afflitto non solo loro, ma chiunque si trovasse in una possibile posizione subordinata, sulle donne hanno pesato la minore mobilità sociale, le ridotte occasioni d’indipendenza economica e lavorativa, la sorveglianza capillare sulla gestione dei desideri e di un corpo considerato alla stregua di patrimonio da conservare il più possibile intatto – nella verginità, nella bellezza, nella fecondità – per poter valere come moneta di scambio.
Di questa eredità pesante ho avuto la fortuna, grazie alle lotte di donne vissute prima di me, di avvertire un contraccolpo minimo; eppure, la difficoltà che ho avuto a liberarmi delle conseguenze di quel lieve contraccolpo mi costringe a interrogarmi su quanto possa aver pesato, l’imperativo a mantenere immacolato l’onore di famiglia, a proteggere una reputazione sempre a rischio perché deperibile, su un numero incalcolabile di signore e signorine, ieri, l’altro ieri e pure oggi, esposte all’angoscia di perdersi, al marchio indelebile, alla lettera scarlatta della vergogna.
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Penso a casi di cronaca che mi hanno impressionata e continuano a farlo; penso ai mezzi nuovi con cui questo patrimonio decrepito che chiamiamo reputazione, onore, immagine, può essere distrutto oggi. Penso a immagini manipolate, o semplicemente diffuse oltre il contesto per cui sono state scattate, filmate. Penso a condivisioni indebite di notizie: pettegolezzi, calunnie, storie vere e storie false. Al potere delle illazioni, alle accuse che hanno due pesi e due misure. Alla fama, che Virgilio nell’Eneide associa alla calunnia, e fa volare sopra le città addormentate come un insonne uccellaccio con troppi occhi e troppe lingue: così in un battibaleno si diffonde la notizia che la regina ha ceduto all’amore. Penso al viso pallido, quasi trasparente, di Catherine Middleton nel video in cui ha dichiarato di essere malata per mettere a tacere con una parola, il nome della malattia, lo zampillare di parole inconsulte, di ipotesi, insinuazioni, illazioni – a loro volta, poiché la vita è ironica, incoraggiate dalla diffusione di una fotografia modificata, a suo dire, da lei stessa.
Penso alla Marilyn Monroe che Truman Capote racconta in Musica per camaleonti: la “bellissima bambina” che si nasconde perché non ha avuto il tempo di rifarsi la tinta ai capelli, che ha paura di sembrare volgare, ma che poi si rifugia nel bagno di un ristorante cinese deserto nel pomeriggio, dove lei e il narratore sono finiti a bere champagne dopo un funerale; lui la va a cercare e la trova in bagno, allo specchio. Si è appena dipinta le labbra di rosso lampone, e trasognata davanti alla sua immagine dice solo: sto guardando lei. Penso a Zia Mame, l’ineguagliabile creazione di un uomo che con la propria reputazione lottò a lungo, Patrick Dennis, omosessuale costretto per molti anni a nascondere le proprie inclinazioni, che seppe inventarsi il personaggio di una effervescente, esuberante, dolcissima diva pasticciona in grado di reinventare la realtà che non corrisponde alle sue stravaganti fantasticherie d’artista, di ricevere ogni volta in risposta un colpo più duro, da un mondo che non ama e non comprende il desiderio di felicità di una donna sola che sta invecchiando, e di riprendere daccapo, imperterrita, a sognare e tramare per poter credere al sogno.
Penso a una frase di Proust che, da quando ho reimparato a essere leggera, a non vergognarmi se ho voglia di scherzare sulle cose serie, e pure a concedermi di scegliere un rosa salmone per la copertina di un libro intitolato, guarda caso, La reputazione*, mi torna in testa ogni due per tre:
“Ma un libro, anche se tratta solo di argomenti non intellettuali, è pur sempre un’opera di intelligenza; e per dare in uno scritto, o in una conversazione dello stesso genere, la compiuta impressione della frivolezza, ci vuole una dose di serietà di cui una persona puramente frivola sarebbe incapace”.
nota: questa riflessione di Ilaria Gaspari si inserisce nell’ambito di “Unite”, azione collettiva per parlare di violenza contro le donne, una “campagna di scrittura” lanciata dalla scrittrice Giulia Caminito e dalla giornalista Annalisa Camilli e che sta coinvolgendo tante autrici e tante testate italiane. Qui la pagina Instagram della campagna (#unite #rompiamoilsilenzio)
L’autrice è stata nei giorni scorsi ospite del profilo Instagram di ilLibraio.it, in dialogo con Francesca Crescentini (Tegamini):
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L’AUTRICE E IL SUO NUOVO ROMANZO*– Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice de ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
Guanda ha da poco pubblicato il suo nuovo romanzo, La reputazione, in cui la scrittrice affronta temi stringenti della nostra contemporaneità, e lo fa in una prosa capace al tempo stesso di profondità e leggerezza: nella Roma degli anni Ottanta, la boutique Joséphine è un angolo di Parigi nel cuore dei Parioli; gli affari vanno a gonfie vele grazie al fiuto della proprietaria, Marie-France, che accoglie le clienti con il suo seducente accento francese. Il suo entusiasmo contagia l’indecifrabile socio Giosuè e le tre ragazze che lavorano per lei, ansiose di conquistarsi libertà e indipendenza.
Tra loro Barbara, eterna laureanda in filosofia arrivata in negozio per caso, pronta a lasciare che Marie-France le insegni a vivere. Imparerà da lei che la moda è tutt’altro che una faccenda frivola: è un rito, un gergo, un sogno, un segreto… Per chi come Marie-France ne ha fatto una missione, è un antidoto al dolore, all’angoscia di scomparire, ai cambiamenti che il tempo infligge. Tutto procede per il meglio, finché Marie-France non ha un’idea che si rivelerà catastrofica: aprire una linea per adolescenti. Giorno dopo giorno, la superficie della serenità apparente comincia a incrinarsi. Compaiono strani messaggi in codice, minacce, e intorno alla boutique si diffonde una calunnia infamante che non risparmia nessuno. Le voci serpeggiano e nel quartiere cresce l’ostilità verso Marie-France e i suoi. Una ragazzina scompare: c’è una relazione con quel che si dice in giro?
Con La reputazione Gaspari indaga sul rapporto tra apparenza e identità, sul peso della maldicenza e sulla difficile conquista della maturità. Cosa succede quando la diffidenza inquina lo sguardo, quando i confini fra le colpe e i pettegolezzi si fanno labili, quando fidarsi significa rischiare? Barbara non è pronta a scoprirlo, forse non è pronta a diventare adulta, eppure non avrà scelta…
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