Scrivere di montagna è diventato un “sottogenere” ben rappresentato in libreria, ma dove è difficile rifuggire dai luoghi comuni. Qualcuno riesce a farcela, come scrive su ilLibraio.it Mario Baudino, che si sofferma sull’esordio di Caterina Manfrini, “Sette volte bosco”. Un romanzo che riporta al presente un episodio in larga parte dimenticato, risalente alla prima guerra mondiale: la grande deportazione, decisa dall’Impero austroungarico, per allontanare i suoi sudditi trentini dalla zona di confine…
La montagna è diventata cultura molto tardi nella storia, e con l’esclusione del precursore Petrarca sul del Mont Ventoux che in qualche modo anticipò lo spirito romantico, in Italia è stata preso in considerazione addirittura tardissimo.
È entrata nel nostro immaginario quasi di contrabbando, dalla fine dell’Ottocento, e in posizione subordinata anche se con qualche ottimo testo, penso al Giuseppe Giacosa di Novelle e paesi valdostani o al Giovanni Cagna di Alpinisti ciabattoni.
Ci sono i grandi come Rigoni Stern o Dino Buzzati, esempi recenti ma abbastanza isolati, e i successi commerciali di Mauro Corona o quello allo Strega di Paolo Cognetti (Gianluigi Simonetti in Caccia allo Strega definisce maliziosamente Otto montagne un “prodotto da esportazione di buona fattura”): senza dimenticare tutto intorno un certo attivismo retorico – e banaluccio.
Scrivere di montagna è diventato un sottogenere ben rappresentato in libreria, ma dove è piuttosto difficile rifuggire dai luoghi comuni, da una Disneyland ideologica costruita per lo più con gli occhi di uno scrittore cittadino (di fatto o per cultura) e soprattutto puntando a un lettore ovviamene cittadino e al suo sistema di attese.
Qualcuno, per la verità, riesce a farcela, a liberarsi cioè dal tema del montanaro “buon selvaggio” – o venditore di souvenir cultural-antropologici – magari anche grazie alla freschezza dell’esordio.
Lo si è visto in un bel libro di Francesco Faggiani, L’inventario delle nuvole (Fazi) ambientato sui monti del Nordovest fra i mercanti di capelli o in Resto qui di Marco Balzano, e l’anno scorso con La Strangera, esordio di Marta Aidala per Guanda (Premio 2025 per la donna scrittrice sezione opera prima, a Genova); ora soprattutto con Sette volte bosco di Caterina Manfrini (Neri Pozza), romanzo, anch’esso opera prima, che ha innanzitutto un merito: quello di riportare al presente un episodio in larga parte dimenticato risalente alla prima guerra mondiale.
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Fu la grande deportazione, decisa dall’Impero austroungarico, per allontanare i suoi sudditi trentini dalla zona di confine, che assunse dimensioni notevolissime in termini numerici (oltre 170mila persone) e sinistre risonanze di tragedia collettiva.
I montanari vennero dislocati con la forza in campi profughi tra l’Austria e la Boemia, e in condizioni durissime. La protagonista di Sette volte bosco, Adalina, una giovane donna, si ritrova in quello più sinistramente noto, vicino a Vienna, dove perde entrambi i genitori e a conflitto terminato, fortunosamente rientrata sulle montagne intorno a Rovereto, deve da sola reinventarsi un’esistenza e ricostruire il casolare, il “mas”, tra le rovine delle guerra. In parallelo, il fratello Emiliano, arruolato nell’esercito asburgico e prigioniero in Italia, menomato da un mina, attende anch’egli il ritorno.
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Il romanzo si snoda all’inizio a capitoli alternati tra la vicenda dell’una e dell’altro, fino all’auspicato congiungimento, e con una struttura ormai canonica: per poi dilatarsi quando i due finalmente riuniti devono affrontare non pochi problemi. Primo fra tutti, la presenza in casa di quello che si è presentato come un soldato austriaco fuggiasco o disertore, insomma un misterioso clandestino: un ragazzo come loro, anch’egli piagato nel fisico e forse nel morale da una tragedia inconcepibile.
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Sarà lui a determinare la trama, che è poi alla fin fine quella di un romanzo d’amore, anche se di un amore assai laconico, come è verisimile tra montanari.
Intorno a loro un poco di favola, dall’evocazione di creature alpestri alla magia di un corso d’acqua, ma questo forse è in tributo inevitabile: così come lo è l’inserzione di frasi in dialetto e in lingua cimbrica, che paiono un omaggio al genere, tanto da dover essere di volta in volta tradotte – e tuttavia non prive di un certo fascino; talché sgombrato il campo dagli obblighi e le consuetudini editoriali o delle scuole di scrittura, resta la forza della vicenda, il racconto di una collettività ferita, rappresentata bene dalle ferite, appunto, dei giovani reduci; di un’economia di sussistenza, ma anche di una forza segreta che consente ai montanari -, cittadini o forse sudditi di un nuovo Stato che accettano ma non conoscono, e per quanto li riguarda non hanno mai cercato – soprattutto di non arrendersi.
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Come Emiliano, sono semplicemente tornati in a casa: per lui “quel posto, almeno per il momento, era semplicemente un fazzoletto di terra che, nonostante le angherie subite, accettava di ospitarlo”. Ma lo è in modo analogo per tutti.
Emerge qui la montagna, una montagna “vera”, col suo lirismo e la sua tragicità, con la sua nudità popolare come nelle pagine sul monte Pasubio arato dalla guerra, o in quelle sul mercato dove ci si scambiano beni in natura. Il piegarsi con un’attenta ricerca sulle tragedia ignorata delle popolazioni trentine diviene così da un lato un gesto di pietà ma anche dall’altro di consapevole restituzione, in fondo di appartenenza. E nel rapporto tra Adalina e l’ospite misterioso, così come quella tra Emiliano e la donna di cui era innamorato ma che si è sposata con un altro partito anch’egli per la guerra e ora dato per disperso, c’è la declinazione convincente di che cosa può essere per l’appunto l’amore come pegno di futuro e affermazione della vita, in tempi di durezza estrema, di molto lavoro e di poche, pochissime parole.
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