Leggere la raccolta di saggi “Stanotte sono un’altra” di Chelsea Hodson è essere adolescenti e guidare di notte l’auto di tuo padre fra le villette a schiera della suburbia americana, sapendo che sono le undici passate e che hai il coprifuoco a mezzanotte, ma prima di rientrare devi assolutamente trovare la festa che potrebbe cambiare per sempre il corso della tua vita. Un libro imprevedibile e dall’ironia pungente, appartenente alla cosiddetta “creative non fiction”, in cui l’autrice affronta temi come il corpo, il desiderio, il sesso, il consenso e il bisogno di essere guardati

Come si sente una ragazza sulla soglia della vita adulta? La risposta più semplice è: come nessun altro si è mai sentito prima di lei. “In un mondo ideale, saremmo stati orfani”, dice il narratore di Something that needs nothing, una delle storie di Miranda July. Stanotte sono un’altra (pubblicato in Italia da Pidgin Edizioni nella traduzione di Sara Verdecchia) è una raccolta di saggi dell’autrice americana Chelsea Hodson che si interroga su quel “mistero a forma di ragazza con le sembianze di una donna”.

La struttura di questa raccolta è proterva e imprevedibile. L’autrice lavora per accumulazione, inanellando molteplici versioni di sé – adulta, adolescente, bambina – per articolare in più forme possibili il sentimento del desiderio. Lo fa attraverso una prosa ridotta all’osso, tagliente, velata di malinconia sexy, accecante.

È un esempio soddisfacente di ciò che oggi si definisce “creative non fiction”. Sebbene questo meccanismo funzioni meglio in alcuni saggi piuttosto che in altri – narrativamente meno solidi –, l’abilità di costruire impalcature ambiziose, guidate da esperienze di un’ironia così pungente che il dubbio se si tratti di finzione ci assale di continuo, e a cui si mescolano arte, cultura digitale contemporanea, letteratura e vecchi manuali, si può considerare un lavoro di grande originalità narrativa, la cui forma è affine a quella del desiderio stesso.

Nell’universo di Hodson tutti vogliono essere guardati. I corpi diventano la soglia su cui si consuma questa tensione erotica, in cui le ferite sono belle perché ci restano addosso per sempre – “mi innamoravo di chiunque avesse una cicatrice sul viso” –, e il sesso è un rito di passaggio, un momento di estrema vulnerabilità, necessario nel suo dolore. “Cosa significa definire, o persino conoscere i nostri desideri – sapere quali siano i nostri e quali invece risultano da un certo tipo di porosità?” si chiede la scrittrice Katherine Angel in Unmastered. Secondo Susan Sontag, e anche secondo Hodson, la porosità sta nella “coazione a essere ciò che l’altro vuole”, e quindi sì, nel desiderare di specchiarsi negli occhi dell’altro, ma anche nel desiderare di diventare qualcosa che sia altro da sé.

stanotte sotto un'altra chelsea hodson

C’è una forma di piacere dell’abitare il proprio corpo come se fosse quello di un altro, al punto che è quasi un privilegio, sembra dirci Hodson – un privilegio a cui le donne, proprio a causa della natura performativa del loro genere, hanno accesso. E dunque perché non sfruttarlo?

In Pietà per l’animale – originariamente pubblicato come chapbook da Future Tense Books e senz’altro uno dei saggi più potenti e complessi della raccolta – Hodson ci racconta della sua esperienza come commessa di American Apparel. Al lavoro le danno un bikini nero da indossare, e benché nessuno fosse obbligato a prenderlo, tutti lo indossavano. I commessi erano bellissimi, la musica alta, e gli occhi dei consumatori incollati su di loro, perché parte integrante della merce in mostra. In quel contesto, Hodson all’inizio è in imbarazzo, poi, però, finisce per “lavorare al ritmo pulsante del capitalismo”. E non la sfiora che non sia così: roteando in quest’universo di spandex, feste in cui le ragazze si baciano per far ingelosire gli ex fidanzati, e genitori che spendono centinaia di dollari per vestire figlie adolescenti magrissime, Hodson è “l’angelo coi pantaloncini verde acqua di velluto a coste” – così la chiama un ammiratore segreto nella sezione “Colpo di fulmine” di Craigslist –, e le va bene: “sapevo a chi mi ero venduta. Avevo firmato in piena coscienza”.

A volte, diventare oggetto può persino riportarci a uno stato infantile, di estremo conforto, come scrive in Una donna semplice. Quando racconta di aver lavorato come modella, spiega che a mancarle di più “oltre ai soldi, è il modo in cui mi toccavano sul set. […] Mia madre mi toccava leggermente la testa o le braccia quando guardavamo la televisione insieme, e il tocco degli stilisti mi riportava a quei ricordi della mia infanzia”.

Hodson descrive questa regressione a oggetto come un modo di rendersi vulnerabili a ciò che è sconosciuto – che poi è l’unico modo “di sperimentare gioia e trasformazione”, dice Angel (Tomorrow Sex Will be Good Again) –, e soprattutto come via di scampo alla pressione di dover sapere esattamente cosa vogliamo.

Quando l’autrice racconta della notte in cui ha chiesto a un amico di darle un pugno in faccia, e lui aveva accettato, Hodson dice di aver provato “gioia”. “Quando l’avevo provata l’ultima volta?” si chiede, “I bambini provano gioia, vero? Dev’essere così. Non possono lamentarsi della giustizia tutto il giorno – cosa è giusto. Chi ottiene cosa. Blah blah”.

Sempre in Pity the Animal, Hodson decide di iscriversi al sito di incontri a pagamento Seeking Arrangements: flirta con qualche utente e gioca a diventare una proiezione di sé, accarezza l’idea di entrare in camere d’albergo dove un uomo dai capelli grigi potrebbe fare di lei ciò che vuole. Questa è la volta in cui “sono stata più vicina a vendermi come un oggetto”, ammette Hodson, eppure non riesce ad andare fino in fondo, non perché la fantasia non la incuriosisca – “portami in una stanza, approfitta di me – facile” – , ma perché la burocrazia ha in qualche modo spento il desiderio, “la negoziazione divenne una forma di dominio che disprezzavo.”

La natura poliedrica della carriera di Hodson, ufficio stampa per la NASA, commessa, modella, giornalista, scrittrice e quasi-escort, ben si presta al senso di divenire che si percepisce attraverso tutto il libro. Ciascuno di questi saggi è un’opportunità per ingannare non solo i limiti della scrittura, ma anche i limiti del proprio essere. “Allora circondami come faresti con la preda da cui mi sono vestita,” scrive Hodson in Pietà per l’animale, “cancella il mio confine tracciato a matita, pagami per questo privilegio”.

Cody è uno dei personaggi forse più indimenticabili del libro: “il tipo di ragazzaccio sul quale un casting director avrebbe potuto fantasticare”, grande e forte e pieno di tatuaggi, ma allo stesso tempo “tenero”, problematico. Hodson si innamora di Cody perché stare con lui è accarezzare il pericolo, scegliere di correre un rischio. Quando un giorno torna a casa con la mano coperta di sangue, mentre lo medica Hodson pensa: “vidi l’opportunità di diventare un certo tipo di donna. Il pericolo danzava verso di me. Io davo una risposta d’altro tipo”. Nella relazione con Cody, Hodson coltiva la sua porosità e testa i suoi limiti. “Questi erano uomini che si innamoravano, ma non perdutamente,” dice, “che cercavano una madre ma non per davvero, che volevano una puttana ma non in ogni momento, che volevano fossi nella stanza ma che restassi in silenzio, e a me piaceva cercare di essere tutto contemporaneamente […] volevo essere la parola che si tratteneva in gola”.

È difficile raccontare di cosa parli ciascun saggio, si tratta perlopiù di suggestioni, come se ci trovassimo in mezzo a un umore, piuttosto che a una storia. C’è quella verve selvaggia tipicamente americana, soprattutto nei saggi ambientati in Arizona – Tucson, Phoenix – in cui cadillac azzurro cenere sfrecciano su strade asciutte, e le pistole scintillano sul fianco dei ragazzi – sono legali solo se indossate in “stile Wild West”. Ci sono anche gli anni novanta e i primi anni zero, col telefono fisso verde lime nella cameretta di Hodson che fa saltare la connessione internet ogni volta che tira su il ricevitore, gli Hanson e i Backstreet Boys. Un collage di citazioni e suggestioni che costruiscono un complesso paesaggio emotivo.

In Pietà per l’animale, ai vari racconti tratti dalle esperienze di vita di Hodson si intrecciano a considerazioni sul lavoro di Marina Abramović – all’epoca impegnata al MoMa con la mostra The Artist is Present – , pezzi del diario di Sylvia Plath, citazioni da Schopenhauer, e frasi prese da due testi del primo Novecento, il libro sulla caccia di Joseph Delmont (Come catturare animali selvatici da vivi, 1932), e un manuale su l’allestimento delle vetrine dei negozi, Vendere beni e servizi (1921). Sempre all’interno dello stesso saggio l’autrice riporta, parola per parola, l’inquietante monologo di un giocatore di Grand Theft Auto che spiega come fare a portarsi a letto una spogliarellista (Grand Theft Auto’ 5 Take a Stripper home, Have Sex with a Stripper [BOOBS] GTA V’).

La citazione, il frammento, l’aforisma, l’anafora – il saggio Dichiarazione d’artista, per esempio, è costruito attraverso una serie di brevi paragrafi che iniziano con “Sto cercando di…” –, la natura composita di questa raccolta è affascinante e coesa perché a trainarla c’è una voce terribilmente lucida. Benché apparentemente sconnessi, ciascuno di questi elementi ci parla in maniera diversa di vendita e acquisto, scambio, possesso, caccia. “Una donna diventa una ragazza diventa un animale diventa un oggetto. Cos’altro resta?”. Hodson esplora le connessioni nascoste fra sesso, desiderio, e capitalismo – che effetto fa vendere il proprio corpo, vederlo sfruttato come merce, essere trattati come un oggetto? – e lo fa sempre esimendosi dall’esprimere giudizi moralisti.

Per Hodson non c’è possesso nel desiderio, tutt’altro. La fusione fra noi e ciò che vogliamo ci è impossibile. Il desiderio si consuma nell’attesa, nel viaggio verso l’amato. Citando Schopenhauer, l’autrice dice che le nostre vite si consumano ad interim, non a destinazione: desiderio equivale ad attesa che equivale a infinite possibilità. Nell’ultimo saggio della raccolta non a caso scrive: “Una delle cose che preferisco dire è: Ho quasi finito”. Che è come dire, “sono quasi arrivata”, vedo la meta all’orizzonte, so dove devo andare, ma ancora non la tocco, e quindi la sto ancora desiderando.

La protagonista di un racconto di Miranda July conosce l’attore hollywoodiano Roy Spivey su un aereo e, quando lui le dà il suo numero di telefono eccetto l’ultima cifra, che dovrà memorizzare, passa la vita a ripetere il numero “4”, come fosse una scialuppa di salvataggio a cui aggrapparsi. Lo ripete durante la noia del sesso coniugale, durante il dolore della malattia del padre, finché un giorno, passati molti anni, si decide a chiamare Roy, ma scopre che il numero è ormai irraggiungibile. Era mai stato il suo vero numero di telefono? Ha aspettato troppo tempo? Non importa, ciò che conta è che il desiderio l’ha tenuta in vita.

In questi saggi il desiderio è sempre questione di prospettiva, spostandosi più vicino o più lontano dall’oggetto del desiderio, Hodson ci mostra lo spettro di possibilità desideranti: un uomo, una donna, un’altra versione di sé, il deserto in cui ci si può innamorare di un lupo travestito da agnello. E il corpo, la cui esperienza è spesso vissuta come perturbante, è sempre al centro di queste riflessioni.

C’è una tensione specifica in Hodson, dove siamo sempre su una soglia, nell’aspettativa che avvenga qualcosa di grandioso o di terribile. Nell’attesa, forse, che si verifichi una di quelle che l’autrice chiama “esperienze di picco”. Secondo Angel c’è un legame da cui non si scampa: “il rischio fa parte del piacere, e questa cosa non può essere né preclusa né evitata”. Nel racconto Tragedia sfiorata, Chelsea, Sam e Julian, nell’estate che precede il college, decidono di giocare a una sorta di roulette russa, legando un coltello da macellaio al ventilatore da soffitto di Sam. Il coltello, dice Hodson, è una specie di simbolo per la cattiveria del mondo, quella che ancora non era riuscita a toccarli: “eravamo noi ad averla fatta avvicinare”. L’attesa, mentre il coltello rotea velocemente puntato verso i loro visi, è il momento del “grande livellamento. […] Poteva succedere qualsiasi cosa, quindi, per un momento, tutto accadeva”, scrive Hodson. Quando il coltello schizza a pochi metri da Julian, quell’universo di infinite possibilità implode: la tragedia è stata sventata. “L’inevitabilità del coltello semplificava tutto” scrive, “ogni anatomia poteva disfarsi, ogni legge poteva essere infranta. È questo ciò che ha reso il mondo bellissimo, così apparentemente nuovo nella sua storia impossibile. A volte lo dimentico”.

Il desiderio è, in fondo, una forma di fame,” scrive Olivia Laing in un pezzo del Guardian su Katherine Angel, “e pertanto incompatibile con le nozioni di astinenza e passività che continuando a pesare sulla mente delle donne”. Esiste un modo in cui una donna sceglie di correre un rischio e ne è responsabile? Per Hodson e per Angel non sempre occorre leggere nella sessualità femminile un sottotesto vittimista. “I am so fucking hungry!” grida Angel nel suo memoir, “Muoio di fame finché non riesco più. Amo fino alla morte,” dice Hodson. Scegliere di perdere il controllo, è comunque una scelta. Citando la famosa frase di Nana in Vivre sa vie, Hodson ricorda: Je suis responsable.

In questi saggi, la responsabilità di sapere quali sono le stanze sbagliate, ma entrarci comunque “è una forma di potere”, perché da un certo punto di vista “essere sottovalutati è una forma di potere”. Così fa Abramović in Rhythm 0, quando si “offre” al pubblico, mettendo 72 oggetti di piacere e di dolore su un tavolo, così che possano usarli a piacimento su di lei. “Quando un oggetto colorato viene visto dall’occhio umano, in realtà non è il colore dell’oggetto a essere visto, sono i colori che riflette,” spiega Hodson. Cos’è, quindi, il desiderio di avvicinarci a ciò che è rischioso se non un modo per aiutarci a prendere forma, indagare i nostri limiti, trovare i confini del nostro corpo? “Voglio vedere il mio desiderio come una sporgenza che mi conduce in stanze buie. Se non posso entrarci, allora posso tentare di ridurmi all’oggetto più vulnerabile possibile”.

Sul New Yorker, Sarah Resnik nota come – da Sally Rooney a Fleabag –, siano spesso le donne bianche e borghesi a emergere con fantasie di sottomissione e perdita di controllo. Hodson, che fa parte di questa categoria, non solo ci fa vedere come questa fantasia si articoli attraverso i suoi personaggi, ma anche come sia la paura ad articolare la scrittura, a “nutrire la fantasia”: “temevo che [se non avessi provato paura] la mia mente sarebbe stata dimenticata”. I saggi di Hodson sono provocatori, incendiari: “Mentre guardi la tua vita andare in fiamme, non resta nient’altro da fare che ridere. Ah. Ah. Ah.” L’ironia è dissacrante perché è così consapevole da pungerci in un punto sensibile. “Non lo sai che non ci si può fidare di una scrittrice? Vedrà una sigaretta e dirà che è una casa in fiamme. Prenderà un suggerimento e lo trasformerà in una scena del crimine. Si avvolgerà addosso un nastro segnaletico. Scriverà di te”.

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L’intersezione di Hodson, donna e artista, le dà accesso a un’ulteriore manipolazione di sé. Stanotte (ma anche ieri, domani, dopodomani, ecc.) sono un’altra – l’omonima Chelsea che aveva più successo di lei a scuola, la donna dietro uno pseudonimo, una commessa di American Apparel, una sporgenza nel buio – e attraverso ogni trasfigurazione continua a sondare i confini di queste identità, ne sfuma i contorni, li attraversa, sempre prendendo piena coscienza del suo desiderio. “Sono come un cane,” dice, “mi piace sentire il mio nome sulla bocca degli altri; sono come una romanziera – sono stata io a metterlo lì”.

Miranda July dice di aver avuto “una vera e propria storia d’amore con questo libro”. Quando lo ho letto per la prima volta nel 2018, mi sono sentita esattamente così, ma era più infatuazione che amore; mi piacque in quel modo vivido, irrazionale e doloroso con cui ci si prende una cotta a vent’anni. Leggere questo libro è essere adolescenti e guidare di notte l’auto di tuo padre fra le villette a schiera della suburbia americana, sapendo che sono le undici passate e che hai il coprifuoco a mezzanotte, ma prima di rientrare devi assolutamente trovare la festa che potrebbe cambiare per sempre il corso della tua vita.

Confesso che rileggerlo oggi mi fa un effetto diverso, forse perché è in un’altra lingua – per me intrinsecamente più emotiva – o forse perché sono passati degli anni. Senz’altro leggere Stanotte sono un’altra è correre un rischio, di guidare tutta la notte fra le case silenziose e non trovare niente, ma senza mai smettere di pensare che ne è valsa la pena. “Le feste non mi hanno mai salvata,” scrive Hodson, “ma non ho mai smesso di credere che potrebbero farlo”.

“What’s the point of longing? To continue. What’s the end of longing? More longing”.

Fotografia header: Chelsea Hodson (Credit Ryan Lowry)

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