Il nuovo romanzo dello scrittore genovese Filippo D’Angelo, “Le città e i giorni”, è un tuffo nelle difficoltà del rapporto tra fratelli. Una relazione non sempre semplice, naturale, come ogni tanto si desidererebbe, e che i protagonisti cercano in ogni luogo in cui si trovano, in ogni tempo…

Avere fratelli

Spesso si dice che la letteratura occidentale nasca con il racconto dei figli unici: Achille nell’Iliade è l’unico figlio di Teti e Peleo; Ulisse nell’Odissea di Laerte e Anticlea. A sua volta, anche il figlio di Ulisse e Penelope, Telemaco, sarà un figlio unico. Nessun fratello. Nelle pagine omeriche, i vittoriosi protagonisti sono tutti principi ed eredi esclusivi del mondo che li precedeva. Tutte vittime della loro onnipotenza e soprattutto della loro solitudine.

Eppure, un’altra prospettiva è sempre stata a nostra disposizione. È possibile notare, infatti, che la letteratura greca, proprio negli stessi anni di Omero, oppone al trionfo di queste leggendarie monadi, la storia di due fratelli e del loro difficile rapporto, un fratello saggio e l’altro scellerato, uno si chiama Esiodo e l’altro Perse. La diade al centro di una curiosissima opera che si intitola Opere e i giorni.

Nei suoi versi, che hanno lo stesso metro dell’epica classica, Esiodo scrive una “lettera d’amore” a Perse. Che sarà stato, a quanto riporta l’autore di Ascra, un uomo decisamente irrecuperabile: aveva corrotto dei giudici per farsi assegnare la maggior parte della loro eredità, era pigro, un terribile fannullone, non si riescono a contare gli improperi che gli indirizza. Questo, però, non estingue il loro legame, la consapevolezza (e la responsabilità) di avere un fratello, di occuparsene, di badare a lui. Nonostante sia pervaso da un profondo rancore, Esiodo non riesce a smettere di volergli bene e allora decide di lasciargli una serie di riflessioni e consigli per vivere da uomo giusto: nelle Opere e i giorni, descrive minuziosamente quando coltivare un campo, in che modo navigare il mare, quali sono i giorni in cui fare certe cose e quelli in cui non fare niente. In particolare, poi, gli ricorda che noi umani non facciamo più parte della stirpe d’oro, quella che viveva allo stesso ritmo e nello stesso tempo degli dei, una generazione che non lavorava, non si affaticava, i campi erano spontaneamente colmi di frutti, e l’esistenza piena di ricchezze; no, loro due devono dimenticare quei privilegi, fanno parte della stirpe del ferro, c’è una frattura tra il loro tempo e il tempo degli dei, hanno la necessità e il dovere di darsi da fare, di costruire qualcosa, per se stessi, per le loro famiglie, per la comunità.

Chissà se Esiodo e Perse si sono mai rivisti, dopo quella lettera. Chissà se si sono riappacificati. Chissà se quei precetti sono stati seguiti.

A restare è soltanto un eco del poema, magari tra i titoli di molti romanzi importanti; l’ultimo dei quali è Le città e i giorni di Filippo D’Angelo (nottetempo). Che si vede animato, sull’onda di quell’eco, dalle vite parallele di due fratelli, Maurizio ed Emanuele, e dal loro desiderio di costruire qualcosa. Col cemento o con l’anima.

Le città e i giorni (nottetempo)

Essere fratelli

Maurizio fa l’architetto, Emanuele lavora per un’organizzazione umanitaria.

Maurizio ha una famiglia, Emanuele non riesce ad avere relazioni stabili. Vivono in continenti diversi, non si parlano, ma sono legati da un passato oscuro, solo accennato nel romanzo. Non è questo che conta, ad ogni modo.

Filippo D’Angelo non monta la storia di una loro possibile riconciliazione, la speranza di una futura agnizione. Gli interessa, piuttosto, una domanda sibillina e difficilmente risolvibile: cosa significa essere fratelli?

Sembra scontato sottolineare che non esiste una reale sovrapposizione tra l’avere fratelli e l’essere fratelli. L’avere e l’essere, anzi, in questo caso, danno l’impressione dell’inconciliabilità: posso essere figlio unico ma sentire miei fratelli o sorelle tante persone; oppure posso avere una famiglia molto numerosa di fratelli e sorelle e sentirmi solo. Emanuele, ad esempio, nel campo di soccorso a Bangui in cui presta servizio, vive a stretto contatto con dei frati carmelitani che considerano tutti “fratelli” e “sorelle” in quanto figli del dio in cui credono. Maurizio, d’altra parte, nel progetto di realizzazione di un vertiginoso grattacielo a Milano, lavora così a stretto contatto con Ariel, il figlio del suo capo, che è difficile non ravvedere in loro un vero (e complesso) rapporto di fraternità.

E dunque è lecito dire che l’essere fratelli sia un’elezione? Una scelta che facciamo, nel corso dei nostri giorni, o a cui siamo più o meno portati dall’intesa, dalla stretta vicinanza o da una fede? Noi eleggiamo i nostri fratelli e le nostre sorelle perché non rispondano solo al mero principio del sangue (avere fratelli), ma perché siano in qualche modo «chiamati» a un ruolo (essere fratelli)? Cos’è, allora, Maurizio per Emanuele, e viceversa?

Nelle Città e i giorni possiamo riferirci a una pagina molto interessante per trovare una direzione in questo ginepraio. Emanuele è alla ricerca di informazioni per dei casi di pedofilia all’interno dell’esercito francese di stanza in Centrafrica. Viene scortato da due persone del luogo, Myriam e Jean-Paul, e da un frate genovese, padre Gerolamo, nei distretti più periferici del paese per capire la fondatezza di quelle accuse. A un certo punto – siamo a pagina 153, nel cuore del libro – il religioso si rivolge a Emanuele e gli dice: “Te non ci credi all’eternità, pensi che siano tutte belinate, ahahah!”. Poi indica Myriam e Jean-Paul e continua: “Non penserai mica che i tuoi giorni siano uguali ai loro, a quelli della gente di qui? Insomma, capisci?”.

Emanuele decide di andare in Africa perché sente dentro di sé una lacuna: vorrebbe dedicarsi alla scrittura, ma non riesce più a scrivere; vorrebbe avere degli affetti sicuri, ma ogni volta che ci prova qualcosa crolla; avrebbe bisogno di parlare con qualcuno, ma suo fratello non lo sente affatto. Questo vuoto crede di poterlo curare spingendosi all’estremo, approdando in un paese sconosciuto per occuparsi di persone a lui sconosciute. Così pensa di trovare rimedio, una vita incontaminata da abitare, una sterminata fraternità di cui colmarsi. Ma Gerolamo lo spiazza: non può pensare che il genere umano sia unico e indiviso. È impossibile pensare che non esistano rapporti di forza e di privilegio – quella che Esiodo avrebbe chiamato “stirpe” – così forti da creare una diversa percezione dello spazio, del tempo, del divino. Che ci sia l’olivo e l’olivastro. In modo sottile, Gerolamo sottolinea che non possiamo sentirci fratelli o sorelle di persone che vivono i giorni – come dimensioni di spazio, tempo, divino e privilegio – diversi dai nostri. Perché diversa è la nostra sintassi umana, diverso il nostro modo di stare al mondo. Infatti, la condanna di Emanuele, in Centrafrica, sarà l’incomprensione.

L’impossibilità di costruire relazioni, rapporti, fraternità si proietta parallelamente nelle vicende di suo fratello Maurizio, che non riesce ad avviare i lavori del grattacielo che sta progettando. Anche stavolta, c’è l’intento, l’impegno, la dedizione, il desiderio di nuova vita, il progetto di una fraternità sterminata e diffusa (cosa, più delle città e dei suoi palazzi, ci dovrebbero far sentire parte di una comunità?), ma il cantiere rimane simbolicamente bloccato. I motivi dei rinvii, ancora una volta, sono meramente umani: incomprensioni, ambizioni, invidie, paure. Diverse percezioni dello spazio, del tempo…

Nel romanzo di Filippo D’Angelo, in fondo, le costruzioni di cemento e d’anima di Maurizio ed Emanuele sembrano suggerirci che l’umanità che vorremmo sentire fraterna, che vorremmo cogliere nella sua totalità, che vorremmo immaginare come infinito luogo di possibilità, deve necessariamente ridursi. Ridursi dentro e fuori di noi. I nostri sentimenti diventano più efficaci se dall’universale giungono al particolare. Se alla città che abbiamo davanti preferiscono la persona che abbiamo davanti. Se al giorno che trascorriamo insieme preferiscono l’attimo che condividiamo.

E in quella persona e in quell’attimo la differenza tra avere fratelli ed essere fratelli svanisce. Perché resta solo il suono di due battiti. O forse, di uno solo. Che in questi casi si chiama amore.

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