I libri di James Joyce sono molto più che semplici opere narrative: sono esperimenti radicali con il linguaggio, viaggi nella coscienza e riflessioni profonde sull’identità, la memoria e la modernità. In occasione del Bloomsday (ogni 16 giugno), ripercorriamo la vita avventurosa dello scrittore irlandese analizzando i suoi capolavori, da “Gente di Dublino” a “Ulisse”, fino all’enigmatico “Finnegans Wake”…
Ogni 16 giugno, Dublino si trasforma in un palcoscenico grazie a uno dei libri di James Joyce più famosi: cappelli di paglia, panciotti vittoriani, copie dell’Ulisse sotto il braccio e pub pieni a ogni angolo. È il Bloomsday, la celebrazione “pagana” del giorno in cui lo scrittore irlandese decise di ambientare il suo romanzo più celebre.
Cos’è il Bloomsday?
Non un compleanno, non una data di pubblicazione, ma il giorno in cui uscì a passeggiare con Nora Barnacle, la donna che avrebbe amato per tutta la vita. Un primo appuntamento diventato mito, letteratura e rito collettivo.
Chi era davvero Joyce?
Ma chi era davvero Joyce, considerato oggi una divinità del modernismo?
I primi del 1900 in molti avrebbero probabilmente risposto un “tizio strambo“, spesso in bolletta, con la vista che cedeva e le frasi che si allungavano come labirinti mentali. Un uomo destinato, però, a fare la storia della letteratura.
In occasione del Bloomsday, ripercorriamo in questo articolo la vita e i maggiori libri del ribelle con la tonaca dell’intellettuale, tra peripezie e viaggi (fisici e mentali) impensabili.
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La vita di Joyce: i primi anni
James Augustine Aloysius Joyce nasce nel 1882 in una Dublino ancora sonnacchiosa, dominata da preti e imperi. Figlio di una famiglia sull’orlo della decadenza (sociale ed economica), cresce in un ambiente dove si prega molto e si beve ancora di più. Il giovane James, già allora, dà mostra di non essere il tipo da inginocchiarsi: legge tutto il giorno, scrive sonetti e saggi polemici, sfida i professori e i dogmi con lo sguardo tagliente di chi ha già deciso di non obbedire.
In poche parole: studia da gesuita, ma sogna da artista. E durante gli anni alla University College Dublin inizia presto a sviluppare e strutturare la sua visione del mondo: estetica prima che politica, linguistica prima che morale. Capisce presto che l’Irlanda è troppo stretta per contenere la vastità della sua ambizione, e si insinua in lui il desiderio di prendere il largo. Letteralmente.
Esilio, lingua e ossessione
Nel 1904, Joyce scappa dall’Irlanda con Nora, una cameriera di Galway che sarebbe divenuta la sua compagna per la vita. Una lunga fuga verso l’Europa, in un esilio auto-imposto dopo alcuni tafferugli sul suolo irlandese. Le tappe? da Trieste a Zurigo, fino a Parigi.
In questo itinerario senza sosta insegna inglese, beve caffè nero, frequenta comunisti e anarchici, studia lingue come fossero strumenti musicali e scrive, scrive a più non posso. È in viaggio ma ha un’ossessione costante, una stella polare fissa: la sua amata Dublino. Non ci vive, ma nonostante ciò non può neppure smettere di pensarci.
La sua città originaria diventa il centro del mondo, il suo laboratorio narrativo. Se Proust aveva il tempo, Joyce ha lo spazio urbano: case, vicoli, negozi, tram, pub. Tutto dettagliato al millimetro, come se la mappa della città coincidesse con quella della sua mente.
Lontano da casa, nel 1914, pubblica Gente di Dublino, una raccolta di racconti perfettamente levigati e amaramente realistici. Ma è solo un assaggio di ciò che la mente di Joyce può partorire. Quello che ha in testa è molto più ambizioso: Ulisse. Un’epopea del quotidiano, un’Odissea nel tempo di un giorno, una mappa della coscienza che parte dalla colazione di Leopold Bloom e arriva ovunque. Pubblicato nel 1922, Ulisse fa esplodere ogni regola: sintassi libera, flusso di coscienza, esperimenti linguistici degni di un alchimista verbale.
E quando tutti pensano che a più di così il funambolico scrittore irlandese non possa spingersi, Joyce alza di nuovo l’asticella: Finnegans Wake, pubblicato nel 1939, è una specie di sogno collettivo scritto in una lingua onirica e ibrida, un flusso continuo e ai limiti dell’illeggibilità data la densità tecnico-poetica che lo definisce lungo centinaia di pagine.
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Cecità, dolore e l’ultima fuga
La vita non è mai stata generosa con James Joyce: lotta con problemi di salute, con la schizofrenia della figlia Lucia e, soprattutto, con i suoi occhi. Negli anni trascorsi in un continuo viaggio perde la vista quasi del tutto, ma non smette mai di scrivere. O quantomeno di pensare in forma scritta. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale – complici queste problematiche fisiche e non solo – lascia Parigi e torna a Zurigo, dove morirà nel 1941, lontano dalla sua Irlanda.
Oggi, James Joyce è letto, citato, venerato, travisato. Per alcuni è un dio della parola, per altri – più o meno comprensibilmente – un incubo scolastico. Ma chi ci entra dentro con curiosità scopre qualcosa di unico: una lingua viva, complessa, umana.
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I libri di James Joyce
Più che opere letterarie, i libri di James Joyce sono imprese linguistiche, viaggi a tappe nella mente e nell’anima dell’uomo moderno. Dall’eleganza sobria dei racconti alla vertigine sperimentale del flusso di coscienza, ogni libro è un tassello di un percorso artistico che punta a ridefinire il modo stesso in cui la realtà può essere narrata. Joyce non scrive storie: costruisce universi. E in ognuno di questi mondi — che si tratti di una via di Dublino o del sogno di un padre morente — la lingua si piega, si deforma, si reinventa, fino a diventare essa stessa protagonista assoluta.
Vediamo ora, libro per libro, come si sviluppa questo straordinario viaggio.
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Gente di Dublino
Nel 1914, James Joyce pubblica Dubliners (tradotto in Gente di Dublino, qui proposto in edizione Garzanti con la traduzione di Emilio Tadini e Marco Papi), una raccolta di racconti che, più di ogni altra sua opera, restituisce la fotografia impietosa di una città e del suo spirito stagnante. Joyce, con la chirurgica precisione dell’analista e l’intuizione poetica del visionario, immortala nei quindici racconti l’immobilità emotiva, morale e sociale della capitale irlandese. Attraverso episodi quotidiani e apparentemente insignificanti, lascia emergere momenti di improvvisa rivelazione — le celebri epifanie, che non sono apparizioni divine, bensì squarci di consapevolezza che travolgono i personaggi in uno slancio di verità interiore.
Il racconto finale, The Dead (I morti), ne è l’apice e la sintesi. Il protagonista, Gabriel Conroy, scopre l’inquietante presenza del passato nel cuore stesso della vita, e il gelo della neve che cade su tutta l’Irlanda diviene il simbolo della paralisi collettiva. Questo racconto fu trasposto in un intenso film da John Huston nel 1987, a conferma della sua potenza evocativa.

Letture originali da proporre in classe, approfondimenti, news e percorsi ragionati rivolti ad adolescenti.

Ritratto dell’artista da giovane
Tra i primi libri di James Joyce, A Portrait of the Artist as a Young Man (tradotto in Ritratto dell’artista da giovane, qui in edizione Newton Compton Editori, a cura di Marina Emo Capodilista), pubblicato nel 1916, compie il primo passo verso una narrativa più audace e soggettiva. Il romanzo, fortemente autobiografico, segue l’evoluzione spirituale e intellettuale di Stephen Dedalus – alter ego dello scrittore – dalla confusione dell’infanzia al rifiuto delle convenzioni religiose e patriottiche, fino alla scelta di consacrarsi all’arte.
Joyce plasma il linguaggio secondo la crescita interiore del protagonista: lo stile infantile e frammentario delle prime pagine si evolve in un flusso sempre più complesso e consapevole. L’artista nasce nel momento stesso in cui si emancipa, decidendo di “volare sopra le reti” tese dalla religione, dalla famiglia e dalla patria.
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Esuli e poesia
Nel 1917 James Joyce pubblica Exiles (in italiano Esuli, proposto in questa edizione Castelvecchi con la traduzione di Roberta Arrigoni e Cristina Guarnieri), l’unico dramma teatrale della sua carriera. L’opera, ispirata a vicende personali e a The Dead, indaga i labili confini tra fedeltà e tradimento, desiderio e libertà, attraverso un intricato gioco psicologico tra i protagonisti. Nonostante l’interesse iniziale, Joyce non continuerà su questa strada, preferendo la prosa come strumento d’esplorazione dell’animo umano.
Anche la sua produzione poetica, seppur meno nota, riflette la stessa intensità espressiva: un esempio è Chamber Music, che raccoglie trentasei liriche di cristallina musicalità. In seguito, Joyce si cimenta con versi più graffianti, come in The Holy Office e Gas from a Burner, componimenti in cui si scaglia contro l’establishment letterario e culturale del suo tempo.
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Ulisse
Ma veniamo a uno dei libri di James Joyce più conosciuti: nel 1922 vede la luce Ulysses (in italiano Ulisse, qui proposto in edizione Newton Compton Editori con la traduzione di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi), capolavoro del modernismo, esito di sette anni di scrittura ossessiva e geniale. Quello che avrebbe dovuto essere solo un racconto della raccolta Dubliners diventa un romanzo monumentale che riplasma l’Odissea nella Dublino del 16 giugno 1904. Joyce segue tre personaggi — Stephen Dedalus, Leopold Bloom e sua moglie Molly — nel corso di una sola giornata, reinventando l’epopea in chiave quotidiana.
Ogni capitolo è un universo stilistico a sé: il romanzo muta linguaggio, struttura, ritmo, passando dal giornalismo al catechismo, dal teatro all’allucinazione. Il lettore è trasportato nel flusso di coscienza dei personaggi, in un mosaico vertiginoso di pensieri, citazioni e immagini.
Ulisse è al tempo stesso una mappa minuziosa di Dublino e un viaggio nell’animo umano: se ne può cogliere la dimensione mitica, filosofica, poetica o politica, ma ogni lettura è sempre parziale; la grandezza dell’opera sta nel suo rifiuto del significato univoco.
Joyce, come il suo Bloom, diventa l’uomo qualunque e l’uomo universale.
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Finnegans Wake
Con Finnegans Wake (qui proposto in edizione Mondadori, a cura di Luigi Schenoni), pubblicato nel 1939, James Joyce porta all’estremo il suo sperimentalismo: l’opera — scritta in un linguaggio onirico e frammentato, che mescola oltre quaranta lingue — rappresenta una sfida letteraria senza precedenti. È la notte dell’umanità, il sogno collettivo che segue la veglia dell’Ulisse. I personaggi, le trame, le parole stesse sono in continua trasformazione: si dissolvono e si ricompongono in un eterno ciclo, come insegnava Giambattista Vico, la cui filosofia storica ha profondamente ispirato l’autore.
Difficile da leggere, da tradurre, da interpretare, Finnegans Wake è più simile a un poema cosmico che a un romanzo. Il suo incipit è la continuazione della frase finale, rendendolo un testo circolare, eterno, come il sogno o l’inconscio. Eppure, anche in questa giungla linguistica, Joyce costruisce un universo coerente, dove ogni parola cela infinite possibilità di significato.
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Fotografia header: James Joyce Getty Editorial 15/06/25