“Una specie di guida, una guida narrativa, un racconto della città attraverso i libri di Paul Auster”: così Giorgio Biferali introduce il suo nuovo libro, “A New York con Paul Auster”. Tra citazioni, riferimenti culturali e passi dei romanzi dello scrittore americano (morto il 30 aprile 2024), l’autore porta lettrici e lettori tra le strade più famose della Grande Mela – Su ilLibraio.it un estratto
New York: meta turistica, ambientazione privilegiata di libri e di film, città simbolo dei tempi che cambiano (e corrono veloci).
New York è molte cose, forse tante quante sono le opere che la rappresentano, e Giorgio Biferali, autore nato a Roma nel 1988 e autore di L’amore a vent’anni (Tunué, 2018), Il romanzo dell’anno (La Nave di Teseo, 2019) e Sono quasi pronto (Ponte alle Grazie, 2024), ha deciso di raccontare la Grande Mela attraverso i romanzi di Paul Auster (morto il 30 aprile 2024) – che del resto è presente sin dal titolo: A New York con Paul Auster – Sentirsi al centro del mondo (Giulio Perrone editore).
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In questo nuovo libro, definito dallo stesso scrittore e docente dell’Accademia Molly Bloom “una specie di guida, una guida narrativa, un racconto della città attraverso i libri” dell’autore di 4 3 2 1 (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella), Biferali cerca di mostrare le molte facce della città attraverso riferimenti culturali e citazioni, e, non meno importanti, le sue stesse sensazioni mentre passeggia per Central Park o per il quartiere di Brooklyn.
Là dove finisce la descrizione di una strada e delle persone che la percorrono, emerge Paul Auster con i suoi romanzi, dal Leviatano (Einaudi, traduzione di E. Kampmann) mentre si percorre la Centosedicesima, al ricordo di Baumgartner – personaggio dell’omonimo romanzo (Einaudi, traduzione di Cristiana Mennella) – sulla Claremont Avenue.
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A New York con Paul Auster è un viaggio tanto letterario quanto fisico, concreto. È la scoperta della città e dello scrittore, anzi della città grazie (anche) allo scrittore. Come se lettori e lettrici ripercorressero ciò che è stato per Biferali: “Ho conosciuto Paul Auster, prima di conoscere New York. Ho conosciuto New York, anche grazie a Paul Auster”.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Elwyn Brooks White, il creatore di Stuart Little, dice che ci sono tre diverse New York: quella di chi ci è nato, quella del pendolare e quella di chi è nato altrove ed è arrivato qui in cerca di qualcosa. La migliore, secondo lui, è la terza, visto che la città appare come la destinazione finale, l’obiettivo che è stato raggiunto, ecco. E come nella canzone dei Beastie Boys, White dice che la città è “come la poesia”, che “comprime tutta la vita, tutte le razze in una piccola isola e poi aggiunge la musica e l’accompagnamento dei suoi motori interni”. Che qui non esiste la FOMO perché succede sempre qualcosa. E anche che il libro che tu stai leggendo adesso, a pensarci bene, è un po’ un azzardo, un rischio, visto che per 17 essere al passo con New York bisognerebbe essere pubblicati alla velocità della luce. Ogni zona, dice White, è “una città nella città”. E ogni quartiere, ogni strada, ha qualcosa di nuovo e di familiare, ti porta a confondere la finzione con la realtà, sembra quasi che ogni angolo di questa città sia fatto apposta per finire in un libro, per diventare una storia.
Puoi incontrare un bambino di nove anni, che ha perso suo padre nell’attentato alle Torri Gemelle, che ti chiede se hai una vaga idea di quale porta possa aprire quella chiave con su scritto Black che lui ha trovato in un vaso. O un ragazzo di diciassette anni che non sa bene dove andare, forse a pattinare sul ghiaccio, forse in un night club, e sta scappando, o è già scappato, forse, ma non si capisce bene da chi o da cosa. Puoi entrare in un negozio di alimentari e trovare un commesso che ha la faccia di uno che respira quell’aria viziata da anni, che passa le giornate a osservare le vite degli altri, nel mondo di fuori, dove c’è più luce. Puoi ascoltare e poi vedere dei ragazzini che giocano per strada, simulando una partita di baseball, disegnando sull’asfalto con i gessetti, facendo l’hula hoop.
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Adam Gopnik, che vive a New York e collabora con il «New Yorker» da quasi quarant’anni, ha definito la città come “un’illusione romantica”. Il punto, ha detto lui, di un’illusione romantica, “non è che è un’illusione, ma che è romantica”. Ogni isolato, con il walkman e un paio di sneakers, può trasformarsi nel tuo film personale. Secon- 18 do lui, camminare a New York, anche senza accompagnatori, può essere comunque un’espressione di compagnia, di “espansiva connessione”. Non la vede così Olivia Laing, scrittrice britannica, che ha confessato di non essersi mai sentita così sola come a New York. Come se, per dirla alla Paul Auster (ci torneremo tra poco), la solitudine fosse stata inventata qui, in questa, come la chiama lei,“brulicante isola di gneiss e cemento e vetro”. Il momento peggiore, per lei, è quando scende la sera, quando guarda “il mondo scorrere fuori dalla finestra, una lucina alla volta”. In parte, quindi, anche lei percepisce la città come un’illusione, un’illusione che, però, non ha nulla di romantico, ma che la fa sentire come una delle donne che si vedono nei quadri di Hopper: “Avrei tanto voluto non essere lì. O meglio, parte del problema era che forse quel lì dopotutto non esisteva”.
“La vita reale è per chi non sa fare di meglio”, avrebbe detto Chan Tyrell (Selena Gomez) in Un giorno di pioggia a New York, ma non è così semplice. C’è chi ama l’idea di una città costretta a crescere in alto, una città dove tutto può succedere, una città che non si spegne mai davvero, una città rumorosa, piena di macchine, di vite che corrono, di canzoni che la celebrano dalla mattina alla sera, sempre con le stesse voci, quelle di Alicia Keys e Frank Sinatra, che ti sembra quasi di far parte di uno spot pubblicitario, che la città che ti avvolge mentre cammini, che tu osservi intorno a te, in realtà non esiste. E chi, invece, come Olivia Laing e tanti altri, crede che la solitudine sia “un posto affollato”, e allora New York può diventare invivibile.
Credo che una città, soprattutto una città come New York, un po’ come succede con i libri, con i film, con le serie, con tutte le forme d’arte in generale, dipenda sempre da chi la guarda, da chi la ascolta, da chi la immagina, da chi la vive, anche solo di passaggio. Aveva ragione Will Eisner, fumettista newyorkese, quando diceva che le città, viste da lontano, sono solo un mucchio di grandi edifici, grandi aree, ma la realtà “è come la grande città viene vista dai suoi abitanti, là dove turbina la vita quotidiana”. Nel fumetto intitolato New York, Eisner ci mostra una città viva, che respira attraverso le vite frenetiche dei suoi abitanti. Gli scalini dei caseggiati diventano il posto ideale da cui assistere alla “parata della vita”, le strade sono piene di ragazzi che giocano a baseball, e se ti muovi un po’ la città non si vergogna di mostrare i suoi lati oscuri, dove si vedono rifiuti sui marciapiedi, tombini allagati, la metropolitana (la subway) sempre piena, che ti chiude le porte davanti al naso, per poi scappare via lontano. Come succede in un altro fumetto, Diario di New York di Peter Kuper, in cui c’è una mano gigante che afferra un viaggiatore e lo spinge dentro alla subway affollata. Un diario in cui Kuper usa la tecnica del collage per descrivere le mille nevrosi di chi abita in questa città. Un allarme alle tre del mattino, un tassista che schizza impazzito per la città, e poi Central Park, dove d’estate si incontrano pattinatori e ragazze cowboy. E poi gli odori che si confondono, quel fenomeno che Kuper chiama “odorama”, l’odore del tubo della lavanderia di Amsterdam Avenue, del bidone della spaz- 20 zatura del Flower District, del furgoncino dei panini a Central Park. Una città in cui, a volte, sembra di assistere alla fine del mondo, tanto che nella parte finale l’autore fa entrare in scena Topolino, che invita tutti a rimanere calmi…
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