“Abitare il vortice – Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo”, saggio di Bertram Niessen, indaga il futuro delle città nell’era del dopo-covid – Su ilLibraio.it un estratto

Fino all’inizio del 2020 la nostra idea di futuro era dominata dalle città, questi labirinti di grattacieli sfavillanti e strade trafficate, allo stesso tempo termitai di lavoratori e Disneyland per turisti low-cost. La mutazione era avvenuta nel corso dei secoli, accelerando negli ultimi decenni: lo spazio urbano era ormai il baricentro economico dei territori, il polo magnetico della produzione e della creatività, la fucina delle tendenze. Di anno in anno, i piccoli comuni si svuotavano e le città medie e grandi crescevano a dismisura.

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Certo, c’erano dei lati negativi: la gentrificazione selvaggia spingeva gli strati più poveri della popolazione verso periferie sempre più simili a ghetti e dormitori per pendolari, mentre lo sviluppo della mobilità pubblica non sembrava in grado di contrastare davvero la crescita costante dell’inquinamento. Ma questi e altri problemi sembravano un contrattempo momentaneo, semplici effetti collaterali che amministrazioni sapienti avrebbero mitigato e, prima o poi, rimosso.

Il Covid, e soprattutto il lockdown, sono arrivati come uno shock, beffandosi proprio di chi stava vivendo il grande sogno futuribile della città e si è ritrovato a pagare affitti stellari per starsene murato in monolocali claustrofobici, mentre gli amici in provincia salutavano via Zoom dalle loro belle e quiete case con giardino, o magari vista mare.

Ogni certezza urbanistica e sociologica, di colpo, è crollata, mentre lo smartworking diventava pian piano la norma e il dogma della concentrazione urbana si rivelava un’idea vecchia, da ripensare completamente per arginare l’improvvisa fuga dalla città.

Ma ora, più di due anni dopo: lo abbiamo fatto davvero? Le città stanno ritrovando il senso perduto nel trauma della pandemia?

Nel saggio Abitare il vortice – Come le città hanno perduto il senso e come fare per ritrovarlo (Utet), Bertram Niessen, ricercatore, progettista, docente e direttore scientifico di cheFare (con cui si occupa di progettazione culturale, organizzazione di eventi e festival, processi collaborativi online e offline, empowerment di organizzazioni culturali dal basso e advisory per le istituzioni) alterna lo sguardo freddo del sociologo, il piglio dell’agitatore culturale e l’attitudine pragmatica di chi da anni lavora come accompagnatore di trasformazioni urbane.

Se la modernità è per definizione sempre più liquida, le città sono specchi d’acqua: le spinte e le controspinte economiche, le trasformazioni sociali e politiche ne agitano la superficie senza sosta, creando vortici spaventosi e seducenti. Resta da capire se è possibile, oggi e ancor più domani, trovare il modo di Abitare il vortice.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…) Alla fine, avevo scelto Berlino proprio perché in quegli anni sembrava la città più lontana da Milano, che era invece segnata da un riflusso dei movimenti e dalla stagnazione della vita culturale. Quello che stavo cercando di capire erano i meccanismi di trasformazione – e cooptazione – delle traiettorie di vita degli artisti e dei lavoratori creativi provenienti dall’underground, e quali fossero le variabili urbane che li condizionavano maggiormente. Per cui, appena arrivato in città, iniziai un’operazione speculare a quella appena conclusa nella mia città: lunghe interviste a tappeto ad attivisti, musicisti, artisti e ricercatori, nel tentativo di leggere il cambiamento della città e delle persone che ci avevano vissuto nei trent’anni precedenti.

Ho un ricordo ancora nitidissimo di un’intervista fatta a un attivista sul tetto di un palazzo occupato, in un pomeriggio di maggio. «Questa cosa della gentrificazione ci sta distruggendo» mi disse. «Se non fai niente e lasci andare, la città diventa un posto dove non vuoi vivere. Se invece porti avanti le tue lotte e il tuo stile di vita, è proprio quello ad accelerare la dissoluzione.» Credo sia stata la prima volta in cui mi sono confrontato con l’ambiguità della gentrificazione.

Nei primi anni di dottorato era un argomento in cui non potevi non imbatterti, soprattutto se eri interessato alle dinamiche relative a città, creatività e sottoculture. Una definizione brevissima della gentrificazione potrebbe essere la seguente: un processo di sostituzione degli abitanti di un quartiere, caratterizzato dall’espulsione degli abitanti originari appartenenti alle fasce socioeconomiche più svantaggiate a favore dei nuovi abitanti, appartenenti alle classi più abbienti (il termine inglese gentry può essere tradotto con “benestante”).

Pur essendo rintracciabile nelle epoche e nei contesti più diversi, per capire la connotazione contemporanea del fenomeno è indispensabile collocarlo nel quadro più ampio dei processi di rigenerazione urbana, da un lato, e del legame ormai indissolubile tra economie immateriali e mercato immobiliare, dall’altro. La maggior parte dei processi di gentrificazione negli ultimi anni hanno avuto origine dall’insediamento in quartieri abitati da popolazione povera di artisti e studenti a basso reddito, alla ricerca di spazi economici per le abitazioni e per studi e gallerie. Le prime ondate di abitanti “giovani, carini e disoccupati” attirano via via nuovi gruppi di abitanti più abbienti, richiamati dalla coolness. I nuovi abitanti hanno mezzi a disposizione: iniziano a comprare appartamenti e edifici, aprono nuovi locali con una tematizzazione più o meno esplicitamente artistica o alternativa, iniziano a ristrutturare. I prezzi degli immobili iniziano a salire e volano alle stelle. In tempi anche molto brevi, i vecchi abitanti, quelli che hanno costruito con il proprio stile di vita gli elementi culturali e creativi che hanno determinato l’attenzione sul quartiere, vengono espulsi perché non sono più in grado di permettersi gli affitti.

Quell’intervista era una prima conferma del fatto che quello che aveva acceso le discussioni con i colleghi di dottorato negli anni precedenti stava diventando molto, molto più complicato di quanto emergesse allora dagli articoli delle riviste accademiche. E che molti degli elementi chiave della mia vita degli anni precedenti erano stati in qualche modo benzina per la gentrificazione.

All’inizio degli anni zero, avevo iniziato a pendolare tra Brugherio e il quartiere Isola di Milano, dove con una quindicina di designer, musicisti e artisti avevamo messo su in uno scantinato un laboratorio collettivo di sperimentazione audiovisiva. Quando non ero chiuso lì dentro, passavo le serate sui muretti a bere birre comprate a pochissimo dagli alimentari pakistani, schivando le risse dei pusher di erba e coca nelle piazzette e nei sottopassaggi. Il quartiere era disseminato di centri sociali occupati, nei quali facevo la coda per andare a ballare, o facevo il turno di cassa. Gli amici che gestivano quei posti erano attivisti ma anche artisti e designer, e avevano popolato le vie circostanti di piccoli laboratori, negozietti alternativi e muri dipinti. A un certo punto ero riuscito a trovare i soldi per andarmene di casa, e con la mia compagna dell’epoca avevamo trovato un appartamento grande, luminoso, a un prezzo stracciato, che cadeva un po’ a pezzi ed era infestato dagli scarafaggi. Ecco, a Berlino ritrovavo ognuno di questi singoli aspetti della mia vita, riflessi e amplificati su una scala – e da una storia urbana – senza paragoni.

D’altro canto, i quartieri gentrificabili hanno spesso caratteristiche comuni, che si combinano in modo puntuale in ogni singolo caso specifico. Innanzitutto, nelle prime fasi sono abitati da un mix peculiare di gruppi sociali – in cui hanno un ruolo importante le classi popolari e subalterne –, il cui radicamento può avere connotazioni in qualche modo resistenziali rispetto al resto della città o della società: è il caso dell’Isola e dei Navigli a Milano, il cui passato mitico viene fatto risalire all’insediamento della “ligera”, la piccola malavita locale. Oppure quello di San Lorenzo a Roma, che ha costruito la sua identità di quartiere anche sulla base di un antifascismo diffuso e popolare.

Per il costo basso della vita, sono quartieri che hanno accolto nel tempo ondate di nuovi abitanti, sia permanenti che temporanei. I primi hanno seguito le catene migratorie dai paesi di origine, insediandosi e rincontrandosi nei luoghi della città in cui la vita costa meno e in cui si conosce qualcuno, si parla la stessa lingua, c’è la promessa di un lavoro. I secondi sono spesso in transito verso altri luoghi e altri paesi, verso altre tappe del loro percorso di migrazione, e sono in cerca di rifugi temporanei ed espedienti per andare avanti.

Non sorprende che, in molti casi, i quartieri appetibili per la gentrificazione abbiano una storia legata ai movimenti sociali e alle sottoculture. Lasciati indietro da ondate precedenti di sviluppo urbano, si sono popolati di case e centri sociali occupati, aree verdi autogestite, spazi concerto che vivono di economia grigia e che dialogano o confliggono costantemente con le altre popolazioni del quartiere, trovando nella relazione con i gruppi subalterni la loro ragione d’esistenza. È il caso – tra i tanti – di Gràcia a Barcellona o di Kreuzberg a Berlino, in cui le vie di case occupate da anarchici, autonomi e punk sono state teatro di alcune delle trasformazioni più clamorose.

Può avere un ruolo importante anche la presenza di comunità lgbtq+, i cui membri vivono nei quartieri, frequentano e gestiscono negozi e locali dedicati (o semplicemente amichevoli) che possano essere percepiti come “safe zone” (zone tutelate), e popolano la vita degli spazi pubblici in modi indocili.

Su un altro piano, i quartieri appetibili per la gentrificazione sono caratterizzati dalla presenza di immobili con un iniziale valore di mercato basso – per esempio, proprio perché il quartiere è malfamato, perché non c’è stata manutenzione, perché i locali non sono a norma in termini di bagni, metrature, materiali –, ma che allo stesso tempo hanno caratteristiche attraenti dal punto di vista logistico – magari perché vicini a università, stazioni ferroviarie o della metropolitana – e soprattutto estetico. È il caso, quest’ultimo, delle case di ballatoio che fanno tanto “vecchia Milano” dell’Isola o di Ripa di Porta Ticinese, costruite durante il boom industriale per ammassare le famiglie di manodopera migrante in spazi angusti e con un bagno comune per piano. O delle villette della borgata del Pigneto a Roma, che con le loro autocostruzioni e aggiustamenti stratificati nel tempo costituiscono una discontinuità bizzarra ed estremamente caratteristica rispetto ai palazzoni popolari e della piccola borghesia delle zone adiacenti. O, ancora, delle tante facciate liberty del quartiere di San Salvario a Torino.

In queste zone i costi bassi non riguardano solo le abitazioni, ma anche gli spazi commerciali e i laboratori. Un elemento importante, infatti, è quello della disponibilità di negozi, cantine, ex officine, spazi multiuso al livello strada o nei cortili. Spazi che si trasformano progressivamente in case-studio di artisti, luoghi ibridi abitati da studenti che organizzano mostre, concerti o mercatini, gallerie indipendenti o laboratori di artigianato alternativo. Sono tutte attività legate alla sperimentazione, all’espressione individuale, alla costruzione di legami tra persone e gruppi sulla base di pratiche immateriali o con una forte componente immateriale “ancorata” a quella materiale. Soprattutto, sono tutte attività che “si prendono del tempo”; che mettono davanti, cioè, il tempo speso intessendo relazioni – parlando, cazzeggiando, ascoltando musica – rispetto a quello che si cerca di convertire immediatamente in termini lavorativi ed economici.

La componente materiale – il basso costo abitativo e commerciale e la vicinanza a parti della città d’interesse strategico – si aggancia in modo indissolubile ad alcuni elementi che sono invece simbolici e relazionali. Intanto per le caratteristiche estetiche dei quartieri più appetibili, che sono spesso un elemento di discontinuità rispetto alla standardizzazione di altre aree della città. Le pareti scrostate e coperte di scritte, la vegetazione spontanea che cresce negli spazi residuali, la superfetazione di elementi architettonici incoerenti che rimandano a epoche e modi d’uso della città diversi contribuiscono a creare un’atmosfera particolare, che può essere in vario modo definita come “romantica” o “vintage”.

Allo stesso modo, alcuni quartieri abitati dalle classi più povere tendono ad avere una propensione più diffusa a un uso informale dello spazio, sia pubblico che privato: le persone vivono di più piazze, strade, aiuole e cortili, e questo crea un’aura di “autenticità” agli occhi di chi è abituato alla rigida normatività dei quartieri più borghesi. Anche la presenza di persone povere, marginali, di provenienza geografica variegata e che vivono stili di vita alternativi esercita un’attrazione, soprattutto sul piano estetico e simbolico. Le lingue, gli accenti e gli alfabeti sconosciuti, gli odori e i sapori di cucine lontane, la stratificazione di segni espressivi nelle scritte sui muri e nei volantini multicolori, l’esperienza di uno spazio pubblico percepito come anomalo e talvolta pericoloso contribuiscono in modo determinante a costruire una sensazione di “diversità”, che rimanda in qualche modo alla categoria del bohémien.

In origine, i tempi della gentrificazione erano relativamente lenti, come nel caso di Trastevere a Roma o del Greenwich Village a New York. I nuovi gruppi sociali si insediavano progressivamente, e continuavano a vivere accanto ai vecchi abitanti per periodi lunghi.

Un’accelerazione significativa c’è stata proprio con la rigenerazione di New York degli anni ottanta e novanta, in cui interi gruppi di isolati sono stati demoliti o riqualificati in poco tempo, non senza l’espulsione – volontaria o meno – della precedente popolazione povera e marginale. Dal punto di vista degli immaginari urbani, un punto di svolta è stata la gentrificazione del quartiere di Williamsburg nei tardi anni novanta e primi duemila. Sede di stabilimenti di industria pesante, Williamsburg aveva attratto per tutto il Novecento abitanti da altre aree della città e del mondo – da Puerto Rico alla Repubblica Dominicana, passando dagli ebrei chassidici dall’Ungheria e dalla Romania – finendo per diventare il quartiere più popoloso di New York. Negli anni sessanta le fabbriche iniziarono a chiudere, e la criminalità di strada esplose. È una cornice che molti ricorderanno, perché è lì che si svolgono i fatti del film Serpico con Al Pacino, del 1973: la rappresentazione per antonomasia di una New York degradata e corrotta di quegli anni. L’alto tasso di criminalità e la pessima nomea mantennero i prezzi di case e laboratori straordinariamente bassi, facendo confluire in zona artisti e musicisti squattrinati. Poi, a metà degli anni novanta, il mercato immobiliare si accorse che si era sviluppata una moda. E tutte le volte che c’è una moda, le persone sono pronte a spendere cifre irragionevoli. The market skyrocketed, come dicono gli statunitensi: il mercato salì nel cielo come un razzo. Da lì, attraverso una miriade di film, serie televisive e fumetti, gli immaginari legati alla gentrificazione contemporanea dilagarono. Tutti abbiamo presente l’immagine dell’artista tormentato che vive in una casa-studio di mattoni, alla quale si accede da un montacarichi buio e incrostato di graffiti.

Qualcuno si ricorderà anche del sesto episodio della terza stagione di Sex and the City, nel quale la ricca e sempre alla moda Samantha, proprietaria di un prestigioso ufficio di relazioni pubbliche, si trasferisce nel Meatpack District di Manhattan, il quartiere dei macelli industriali e della prostituzione di strada. È il 2000, ed è forse la consacrazione definitiva della gentrificazione presso il grande pubblico.

Più passa il tempo, più questi processi diventano veloci, come è accaduto nella zona di Milano tra viale Monza e via Padova. Ho abitato brevemente anche lì, a più riprese, negli anni zero. Era considerata un’area depressa e senza nessuna attrattiva, un triangolo tra la malfamata Stazione Centrale e due vie ad alto scorrimento che imbottigliavano i pendolari in entrata e in uscita. Alcune case erano molto belle, un po’ liberty e un po’ case operaie con i ballatoi, ma era quasi tutto decrepito, non c’erano ascensori e in alcune situazioni nemmeno i bagni in casa. La notte facevo fatica a addormentarmi perché pusher e clienti passavano il tempo a tirarsi le bottiglie.

Con la crisi finanziaria, che nel 2007-2008 segnò tutto il mercato immobiliare cittadino, quel quartiere in particolare subì un tracollo dei prezzi, molto più significativo rispetto al resto della città. Questo dette il via al meccanismo “standard” della gentrificazione, accelerato però da un’operazione a tavolino di marketing territoriale a opera di tre designer di area milanese: Francesco Cavalli, Luisa Milani e Walter Molteni intorno al 2012 – un po’ per gioco e un po’ no – coniarono il nome NoLo (North of Loreto, a nord di Loreto) sulla falsariga di acronimi simili come SoHo (South of Houston Street) o Tribeca (Triangle Below Canal Street). Il gioco piacque, iniziò a circolare in forma virale e in breve tempo venne adottato anche da Google Maps e, infine, anche dal Comune di Milano. Dopo cinque anni, trovare casa a NoLo era diventato possibile solo per i benestanti.

D’altro canto, nel corso degli ultimi anni la gentrificazione ha cominciato ad avere un ritmo sempre più serrato. Tornare in alcune città europee a distanza di soli due o tre anni è un’esperienza disturbante perché i negozietti, i ristoranti, le gallerie d’arte hanno iniziato inquietantemente ad assomigliarsi tutti. Ad assomigliarsi tra loro nella stessa città, in un tentativo di emulazione dell’autenticità che produce spazi-fotocopia. E ad assomigliarsi tra loro in città diverse e paesi diversi, perché più il mercato si allarga più nascono franchise, catene, imitazioni internazionali. Ed ecco che nel giro di poco tempo quelle caratteristiche di unicità e autenticità che hanno decretato il successo del quartiere iniziano a diluirsi in una fruizione dello spazio sempre più orientata a un uso mordi e fuggi, da parte di consumatori che non hanno niente a che fare con le caratteristiche originali dello spazio, come i turisti o gli appassionati di shopping da centro commerciale.

(continua in libreria…)

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