Per Guy de Maupassant il letto è tutta la nostra vita, perché ci nasciamo, ci facciamo all’amore e ci moriamo. E intorno al letto, luogo dei nostri segreti e dei nostri sentimenti più forti, Mario Baudino costruisce il saggio “Il teatro del letto – Storie notturne tra libri, eroi, fantasmi e donne fatali” – Su ilLibraio.it un estratto dal capitolo “Il piacere di leggere a letto”

Da Ulisse ai giorni nostri, passando per Proust e Mark Twain, il dottor Johnson o il Re Sole, il letto è una scena teatrale almeno quanto è custode di segreti: lo conferma la lettura de Il teatro del letto. Storie notturne tra libri, eroi, fantasmi e donne fatali (La Nave di Teseo) di Mario Baudino, giornalista (firma de La Stampa e collaboratore de ilLibraio.it), scrittore e poeta piemontese, che si presenta come una rassegna tra letteratura, arte e storia.

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Per Guy de Maupassant il letto è tutta la nostra vita, perché ci nasciamo, ci facciamo all’amore e ci moriamo. E intorno al letto, luogo dei nostri segreti e dei nostri sentimenti più forti, l‘autore del saggio costruisce un colto itinerario sui piaceri – e non solo – della posizione orizzontale, in sonno e in veglia.

Dall’amore alla nascita, dalla paura alla morte, dal potere alla fantasticheria sino alla lettura, dal giaciglio regale di Ulisse a quello borghese di Leopold Bloom, il letto racconta di noi. È il teatro dell’io.

Copertina del libro Il teatro del letto

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Il piacere di leggere a letto

Il boschetto di Casanova, letto parlante, è in sé una trovata del Settecento, ma ha alle spalle una lunga tradizione, luoghi letterari e dell’immaginario che si inseguono nella storia fino ad assumere un nuovo profilo, diventare il tema centrale di un gusto e di una cultura. Uno di questi, cui già abbiamo fatto cenno a proposito di Petrarca, è il cosiddetto “luogo ameno”, il locus amoenus della letteratura classica, da Omero a Virgilio: lo sfondo agreste di un idillio pastorale, di una vita semplice e felice come quella, poniamo, dei Feaci nell’Odissea o dei pastori virgiliani nelle Georgiche: ma anche naturalmente la campagna dove trova rifugio dalla peste che infuria a Firenze la gentile brigata del Decameron. Nel Cinquecento Le Stanze del Poliziano lo esaltano colorandolo di sensualità, quando descrivono il palazzo di Venere: “ove in su’ rami fra novelle fronde / cantano i loro amor soavi augelli”, e dove “arma l’oro de’ suoi strali Amore”.

L’oro di quegli strali erotici – nel senso che sono scagliati da Eros – continua a scintillare nel Seicento, dove gli scrittori giocano con la vita dei pastori e in qualche modo si travestono come tali, nell’Arcadia di uno Jacopo Sannazaro; o nelle “selve” dell’Aminta di Torquato Tasso, che “oggi ragionar d’amore / s’udranno in nuova guisa”. Al Museo napoletano di Capodimonte, il ciclo dedicato ai sette vizi capitali del manierista fiammingo Jacob de Backer (1555- 1855, visse ad Anversa, di lui si sa pochissimo) mette in scena la lussuria in un bosco non così cupo come il peccato forse richiederebbe, coi due amanti avvinghiati e seduti all’ombra d’una quercia, in una posizione non troppo diversa da quella degli amori fra Ulisse e Calipso che abbiamo incontrato, in un contesto sorridente, in Brueghel il Vecchio. Già nel Roman de la Rose, che si è ricordato per la postura a letto tenuta dal poeta-sognatore, il prato o il verziere erano gli scenari obbligati degli incontri erotici: ovvero, luoghi di adulteri, ma anche metafore transitate nella letteratura mistica.

Il giardino, il bosco arcadico, il locus amoenus è stato per lunghi secoli la possibilità di un letto, fi no a quando, ad esempio a opera di Casanova, vi è stata genialmente inserita la sua immagine, evocandolo e insomma scoprendo qualcosa che esisteva in potenza: anche grazie alla nuova cultura architettonica che moltiplicava “i boschetti” intorno alle dimore gentilizie, e all’uso che ne facevano i proprietari. Ma i libertini hanno ancora molto da dirci, perché questo “parlare” del letto non sarà solo, come scrive D’Annunzio in una poesia alcionica riferendosi a un paesaggio (privo però di connotazioni erotiche, semmai di nostalgia), “un muto verbo”. È molto di più: oltre alla costellazione intercambiabile e in qualche modo a specchio con sofà e boschetto, si aggiunge infatti un quarto elemento, diremmo decisivo, che compare proprio nell’ambito del locus amoenus. È un alleato formidabile sul piano dei piaceri, il patto stretto con il quale non verrà mai più cancellato: il libro. L’idea sommamente libertina della seduzione basata sulla parola gli spalanca la porta: niente di meglio, per indurre al sesso, che far leggere qualche pagina stimolante o istruttiva a chi, sostanzialmente, è già prontissimo a partecipare al gioco.

Nelle Relazioni pericolose Madame de Merteuil promette a Cécile di fornirle libri da cui trarre istruzione e ispirazione. In Thérèse Philosophe, un bestseller dell’epoca, anonimo, vietatissimo e naturalmente assai diffuso, la protagonista è eccitata dalla lettura dei romanzi pornografici scritti dall’amante e non vede l’ora di trascinarlo a letto. Restif de la Bretonne, acclamato pornografo e giornalista (di origini umili, si firma aggiungendo un toponimico nobiliare, e una “s” peraltro muta all’originario Rétif), inscena la lettura facendone un potente e scalmanato afrodisiaco: nel suo Monsieur Nicolas il protagonista riceve la visita d’un amico che gli dona un libro assai rinomato per i suoi contenuti licenziosi: Le Portier des Chartreux, pubblicato anonimo nel 1741. È ancora a letto, e subito si getta su quelle pagine, avviando una folle sarabanda: perché si affacciano a turno nella sua stanza varie graziose conoscenti, spronandolo a mirabolanti esercizi erotici propiziati proprio dalla lettura, ogni volta interrotta e ogni volta, dopo il sesso, ripresa.

Gli incontri saranno ben sei, grazie, dice il fortunato protagonista, “alla foga del mio immaginario”; per concludere soddisfatto: “Ecco l’effetto delle letture erotiche.” Non è da escludere che l’essere state condotte in posizione distesa non abbia aggiunto carburante, anche se è evidente che siamo qui in un ambiente per così dire estremo, in un’iperbole erotica dove il piacere della lettura non è centrale, ma rappresenta uno degli elementi in gioco nella macchina sensuale. Jean Marie Goulemot ha proposto una distinzione per questo periodo e per queste tematiche fra libri pornografici e libri erotici: i primi hanno la funzione di spingere all’atto sessuale, di propiziarlo, di mettere il lettore sulla via d’un piacere che è al di fuori di essi, quasi un viagra cartaceo. Nel caso dei secondi, il piacere si attua invece nell’ambito della lettura stessa. Se dunque accettiamo questa tesi, Restif starebbe qui usurpando una categoria cui non ha diritto, cercherebbe insomma di nobilitare – ma quanto ironicamente o meglio beffardamente – le sue scatenate letture.

Non è il solo. La scena europea è assai ricca di sulfuree lettrici, sulle pagine e sulle tele o sui fogli delle incisioni, educate dai loro pigmalioni a una sessualità generosa e talvolta acrobatica, protagoniste di una quantità di quei romanzi fieramente bollati da Rousseau come “libri che si leggono con una mano sola”. Le damine si abbandonano a svariati piaceri, soprattutto quelli della lettura su letti e sofà o giacigli boscherecci, quantomeno nella fantasia di autori e incisori. Varie tavole che illustravano i volumi ci presentano, con pochissime variazioni, una scena resa poi celebre intorno al 1760 da un acquarello di Pierre-Antoine Baudouin, titolato maliziosamente La lecture, che suscitò un virtuoso sdegno.

La modella ritratta legge infatti distesa (su un canapé, nell’ambito della costellazione che ormai conosciamo) ed è pure vestita, ma gli abiti sono in vistoso disordine, il corsetto è sbottonato, e la scollatura di conseguenza assai generosa. Dorme, oppure è davvero molto rilassata. Ha lasciato scivolare verso terra il libro e la mano che lo reggeva, mentre l’altra è ancora appoggiata su una coscia. Si è data nel corso della lettura a un piacere privatissimo, forse aspettando o forse pensando a qualcuno lontano (sul tavolino si notano carte geografiche o nautiche, si legge su un foglio parzialmente arrotolato un titolo che recita L’Histoire du Voyage).

L’immagine verrà poi riprodotta in incisioni che ne mutano appena il contesto, ponendola magari in un bel giardino, insomma un boschetto “parlante”: ad esempio nella stampa del 1765 realizzata da Emmanuel Jean Népomucène de Ghendt, incisore e mercante all’epoca famosissimo, o nell’illustrazione destinata a una raccolta di canzoni del 1773, titolo della tavola La Dormeuse: sempre in un ameno giardino, e con un gentiluomo che osserva con vivo trasporto. In un romanzo di tale Jean B. Guiard de Servigné, Les Sonnettes, ou Mémoires du marquis D. (1751) l’illustrazione alla pagina 27 – la si può agevolmente ammirare sul sito di Gallica, la biblioteca francese online – mostra l’avido marchese nell’atto di osservare furtivamente da una finestra una bella vicina riversa a letto, il seno scoperto e ben illuminato da una candela, che ha appena interrotto la lettura per languidamente accarezzarsi.

L’irruzione del libro ha cambiato assai maliziosamente la tradizionale iconografia del letto erotico, quello dove morbide modelle sonnecchiano abbandonate su giacigli più o meno sontuosi immerse in un locus amoenus, a partire almeno dalla Venere del Giorgione (1501) o dalla Ninfa di Albrecht Durer (1525) o ancora dalla Venere di Urbino di Tiziano ma anche dalla splendida dormiente vegliata da Cupido, dea o donna, nella Venere addormentata di  Artemisia Gentileschi (1625), che si adegua – e non potrebbe fare altrimenti – a questo canone virile, ora si direbbe maschilista. Al contrario non c’è molto spazio, nella tradizione, per l’uomo nudo a letto; il suo corpo viene esibito sì, ma di preferenza come martire o guerriero, in rari casi di amante comunque drappeggiato: se pure con le dovute eccezioni. Una, meravigliosa, è in Gli amori di Paride ed Elena (1788) di Jacques-Louis David. I due sono accanto al letto, abbracciati, ma in questo caso lei è, curiosamente, molto più vestita di lui; che di protetto oltre a una spalla ha soltanto il pube, graziosamente celato da un nastro della cetra. Un’altra, e diremmo più significativa, è rappresentata da Alessandro Magno, forse il primo caso di maschio immaginato e quindi raffigurato fra cuscini e lenzuola mentre è intento alla lettura, seminudo, avvolto anzi da una certa sensualità muscolare.

Lo troviamo in un dipinto di Ciro Ferri, datato intorno al 1660 ed esposto alla galleria degli Uffizi, Alessandro che legge Omero, abbandonato tra le spesse cortine di un letto ampio e lussuoso, mentre una guardia del corpo sonnecchia ai suoi piedi. Dalla scena si potrebbe evincere che il condottiero stia leggendo silenziosamente, come ognuno di noi – e come i libertini. Si tratta ovviamente di un sontuoso anacronismo, perché delle sue abitudini in questo campo sappiamo poco o nulla (anche se viene tradizionalmente considerato un grande lettore, forse persino silenzioso). E in ogni caso appartiene a un altro universo storico, quello della lettura ad alta voce: che si estende dalla Grecia Antica molto oltre il IV secolo dell’era cristiana.

È un comportamento quasi obbligato dalla grafia comune a tutta l’antichità: quella che si definisce scrittura continua, senza punteggiature e senza spazi tra le parole. Funzionava più come aiuto alla memoria che come un testo nel senso moderno, e dunque aveva bisogno della voce per diventare un discorso comprensibile. Potremmo ricorrere all’analogia con uno spartito, che anche oggi solo un numero limitato di specialisti può leggere silenziosamente; per tutti gli altri che pure sappiano di musica è necessario quantomeno suonarlo, accennarne la melodia sulla tastiera di un pianoforte, per i più bravi magari canticchiarlo. Così avveniva per la “scrittura continua”: si trattava per i greci – e non solo per loro – di eseguirla con la voce. Il dipinto si collega a un più celebre affresco, sulla volta della sala d’Apollo a Palazzo Pitti, opera di Pietro da Cortona (maestro del Ferri, che collaborò alla decorazione) dove il condottiero si prepara al riposo notturno e scambia la spada, porgendola a una giovane guardia del corpo, con un libro. Il suo grande amore per Omero è un tema comune da Plutarco in poi, e nella scena di Ferri è ben sottolineato dal nome dell’aedo greco scritto sul dorso del grosso volume, in cui Alessandro sembra talmente assorbito da sembrare persino un po’ imbronciato.

Omero non è però la lettura ideale per fanciulle e pigmalioni settecenteschi. Le lettrici sulfuree, nel secolo dei Lumi, sono portatrici di una nuova funzione – con componenti non poco voyeuristiche – del letto (o del sofà, o del boschetto): perché non guardano, si direbbe “in macchina”, anzi ignorano programmaticamente lo spettatore. Sono comprese in se stesse – o addormentate dopo il piacere: sono in qualche modo estranee, la loro attenzione è focalizzata su altro. Il letto è ormai il teatro di bellezze nude e sdegnose (volte di schiena, intente ad altro e apparentemente distratte, come talune lolite di Fragonard che, scostate le lenzuola, giocano assai discinte con i loro cagnetti); e certo il gesto della lettura che ha preceduto o accompagna il piacere è quello che maggiormente accentua questa apparente e seducente estraneità rispetto all’osservatore esterno al quadro. Ben diverso com’è ovvio il discorso per il personaggio che eventualmente le osserva all’interno della scena e ci suggerisce, nella sospensione del momento, qualche cosa che è appena accaduto o sta per accadere.

(continua in libreria…)

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