“Come si suol dire: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, e così nella percezione di molti quelle ormai sono parole-distintivo, un po’ come ‘famiglia’ quando parlano politici di destra o ‘intensità’ quando parla un mister di calcio”. Su ilLibraio.it Enrico Galiano, insegnante e scrittore, scrive una riflessione su quelle parole che, inserite in un discorso, provocano un senso di “disgusto e riprovazione”: “Perché non si possono più dire? Perché questo guardarle con sufficienza, come si guarda il tizio imbucato alla festa di gala e vestito in modo eccentrico? Le parole sono solo strumenti?”

Più che una battaglia, sembra una crociata.

Da un po’ di tempo a questa parte, una parte consistente di persone – di solito: intellettuali o comunque persone laureadotate – sta imbastendo una lotta senza quartiere.

Contro lo sfacelo dei costumi? Contro il riscaldamento globale?

No, contro alcune parole.

Una vera, anche se non urlata, cancel culture, rivolta ad alcuni lemmi del nostro vocabolario, rei secondo questi e queste intellettuali di essere sinonimo di “petalosismo“.

Dicesi “petalosismo” (la sto coniando or ora, eh?): quell’attitudine al sentimentalismo zuccheroso ma ammantato di una veste di spessore culturale, spesso accompagnato da un certo sapore new age d’accatto e di una ingenuità piccoloprincipesca (altro conio mio, scusate).

Le prime in ordine di odio sono: resilienza ed empatia. Ma sono sicuro che nei commenti ve ne possono venire in mente altre.

Queste due qui oramai non le puoi più inserire in una frase, in un discorso, in un qualsiasi testo scritto o orale che destano subito sopracciglia alzate, sguardi di sottecchi, battutine, se non aperto disgusto e riprovazione.

Ma perché questo?

Be’, è un fenomeno interessante: sarebbero due parole molto belle, in sé.

La resilienza, un prestito dal mondo della fisica, indica la capacità di cadere senza rompersi, di farsi rimbalzare le cose o, come direbbe Luca Carboni, di “resistere agli urti della vita”.

L’empatia è invece  quella facoltà così preziosa che ci permette di entrare in sintonia con le emozioni di un altro: a me piace tradurla con “comprendere col cuore”, sapersi mettere nei panni di un altro senza magari esserci mai stati, in quei panni.

Belle quanto vuoi, però fanno schifo a molte persone. Ma schifo schifo eh?

Resta da chiarire: perché queste ed altre parole danno così fastidio?

Uno dei motivi è senz’altro il come sono state usate in questi ultimi anni: in effetti è vero che sono diventate un po’ onnipresenti in testi e video di genere, diciamo, ispirazionale-motivazionale, insomma tutti quei libri-post-tweet sul self-enpowerment che grondano di luoghi comuni e fregnacce a non finire.

Come si suol dire: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei, e così nella percezione di molti quelle ormai sono parole-distintivo, un po’ come famiglia quando parlano politici di destra o intensità quando parla un mister di calcio.

Il punto è un altro: perché non si possono più dire? Perché questo guardarle con sufficienza, come si guarda il tizio imbucato alla festa di gala e vestito in modo eccentrico?

Le parole sono solo strumenti?

Se la risposta è sì, prendersela con le parole sarebbe come portare avanti una crociata contro le unghie, solo perché a qualcuno piace usarle per graffiare lavagne e provocare quella sensazione fastidiosissima.

Come condannare le macchine perché qualcuno le guida ubriaco e fa dei danni.

Come detestare gli stuzzicadenti perché c’è chi li usa dopo i pasti senza coprirsi la bocca.

Insomma avete capito.

Ma sono davvero solo strumenti? Sono davvero così neutre?

Non credo.

Le parole sono molto più vive di quello che crediamo, e se usate male si possono quasi sporcare, deteriorare, fino quasi a svuotarsi.

Sono come monete, che se usate troppo e troppo facilmente diventano inflazionate: perdono il valore che avevano all’inizio.

Sono cristalli preziosi, e se ti scivolano e cadono si possono rompere, tanto che poi usarle di nuovo diventa difficile.

Per cui, forse, non è del tutto vero che quelle due parole lì – e tutte le altre simili che vi possono venire in mente – non si possono più usare. Forse dobbiamo solo imparare a centellinarle, sceglierle quando ci servono proprio quelle e non altre.

Aggiustarle, insomma.

Alla fine, credo, le parole sono uno strumento molto delicato, e fragile, e per questo vanno trattate con cura.

Ironico, non c’è che dire. Che le parole – tutte, per prima resilienza – siano tutti tranne che resilienti.

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti) Felici contro il mondoEppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoi e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande.

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Con Salani ora Galiano pubblica la sua prima storia per ragazzi, La società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua.

Alla pagina dell’autore tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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