Scrivere d’assurdo è (forse) uno dei trattamenti più adatti per affrontare, con lucidità, la narrazione del contemporaneo: lo conferma il nuovo libro di Ian McEwan: “Lo Scarafaggio” si pone tra sagace nonsense di redazione umoristica e ironica distopia del fenomeno Brexit. D’altra parte, la poetica dell’autore inglese ci aveva preparato a repentini cambi di registro – L’approfondimento

Sagace nonsense di redazione umoristica, ironica distopia del fenomeno Brexit (ovvero il negoziato, ratificato nel gennaio scorso, ad esito del quale il Regno Unito ha definitivamente abbandonato la compagine europea) nel suo ultimo Lo Scarafaggio (Einaudi nella traduzione di Susanna Basso), Ian McEwan (foto di Annalena McAfee, ndr) ha il dovere di specificare: “Qualsiasi somiglianza con blatte autentiche, vive o morte che siano, è del tutto accidentale”. E non per scrupolo di chiarezza: oggi che la dimensione del reale pare di gran lunga aver superato quella immaginifica, e i confini tra finzione letteraria e veridicità storica finiscono per assottigliarsi inesorabilmente, scrivere d’assurdo è (forse) il trattamento più adatto per affrontare, con lucidità, la narrazione del contemporaneo.

Il racconto (un libello satirico di anelito kafkiano dall’autore, tra gli altri di Espiazione, Solar, e Sabato ) vede il bacherozzolo Jim Sams, “tipo perspicace ma per niente profondo”, risvegliarsi nelle sembianze del premier inglese in carica (leggasi il biondissimo Boris Johnson) per portare a termine, assieme alla sua ghenga di ministri scarafaggi, una temeraria rivincita di classe: rivoluzionare il flusso finanziario dal basso – non è in fondo, tra gli insetti, la blatta quello più discriminato? – e, per l’effetto, disinfestare l’intero sistema economico da “ingiustizie, sprechi e insulsaggini”. Ed è lungo il percorso (uno spericolato viaggio andata-ritorno da Westminster a casa, passando per Parliament Square sul lato giusto di Whitehall), che le immonde pulsioni insettoidi mutano, spontaneamente, in parossismo diplomatico: dagli scorretti affondi avverso l’opposizione del cronologista Benedict St. John – “natura umana. Un impostore. Un venduto. Un nemico del popolo” – fino agli accordi di tenebra almanaccati col Presidente americano Archie Tupper, la compagnia di blatte offre uno spaccato veritiero dei grandi servizi da prima pagina (MeToo, cambiamento climatico, identità social ed estremismi populisti compresi) ma declinati in salsa Sci-Fi. Con un’antenna di riflessione: dove il consiglio metamorfizzato acquisisce fisionomia più o meno umana (tra tutti l’addetta stampa Shirley, un donnino elegante ma dalle fattezze di cervo volante) è nella perdita di connessione con la specie, la cosiddetta “risonanza della dimensione feromonale”, che lo scarafaggio raggiunge, ahinoi, il proprio picco di umanità.

Lo scarafaggio Ian McEwan

Lettura di sberleffo, dunque? In parte, ma più che altro un venefico strale di fantapolitica, lanciato ex abrupto per sottolineare l’incontenibile sconcerto che colse lo Ian Macabre della narrazione agli albori del referendum “Leave or Remain”, ispirandolo nel paragonare la propaganda dei fautori dell’uscita (nonché le aberrazioni del consumismo monolitico di massa) a un “progetto politico ed economico all’altezza dell’assurdità autolesionistica della Brexit”. Già, perché nelle manovre del Coackroach, questo il titolo originale dell’opera, così come nella sua utopia Inversionista (dopo una settimana di lavoro “una dipendente paga alla ditta le ore svolte”; “la legge le impedisce di accumulare contante”, e ancora “prima che i suoi risparmi si riducano a zero, la nostra lavoratrice sarà (…) tanto saggia da mettersi in cerca di un impiego, o di qualificazioni professionali, più costosi”) risiede sia l’inevitabile scoramento a fronte di certe insanie oltranziste (salta alla mente la tanto recente “terapia di gregge”), sia la generalizzata afflizione derivante da un gruppo dirigente spesso incline – ce lo dice lo stesso autore – alla più folle “akrasia”, cioè l’abilità di un soggetto nello scegliere di agire in modo da sfavorire al massimo i propri interessi.

Non che, d’altra parte, la poetica di McEwan non ci avesse preparati a repentini cambi di registro (si veda il precedente Macchine Come Me, dramma retrofuturista con lo sguardo rivolto alla relazione fra uomo e intelligenza artificiale) ma mai la ricerca autoriale si era spinta sino a lambire i territori dell’assurdo. Una scelta dichiarata e comprensibile: oltre al più o meno esplicito omaggio a La Metamorfosi boema (e, implicitamente, ad altre opere di denuncia come Cuore di cane di Bulgakov) nella postfazione d’opera emerge altresì un nesso fondamentale con la prosa provocatoria del pamphlet d’invettiva Una modesta proposta del Jonathan Swift de I Viaggi di Gulliver(che, per segnalare le condizioni di miseria irlandesi a seguito del predatorio colonialismo inglese, si rivolgeva ai proprietari terrieri invitandoli a far banchetto anche dei bambini, così da evitare che divenissero un peso per i propri genitori o per il paese).

D’altronde, in quest’era d’informazione verticale (quella da cellulare), dove il tempo dello stupore dura poco più di uno scroll-down e la segnalazione di denuncia è rimessa a passerotti Twitter e leoni da tastiera, sembra che la valvola dell’assurdo sia una delle ultime opzioni rimaste per mantenere alto il focus su sensazioni altrimenti destinate all’atrofia. Quali? La possibilità di perpetrare l’indignazione, ad esempio – perché, sostiene Albert Camus ne Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo, “non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo” – o, anche, l’arte di imparare a ironizzare sugli accaduti (come dice McEwan “forse lo scherzo e il mesto conforto della risata sono la sola risorsa possibile”) che, di tanti stand-up comici, ha fatto la fortuna – tipo quello di Seth Meyers Lobby Baby che, approdato su Netflix, facendo di satira, satira, permette di saltare le battute su Donald Trump con un tasto di apposita progettazione chiamato “Ignora politica” –.

Forse per questo, nella sua agilità di lettura e pur senza prolissità d’inchiesta, nonostante la complicazione nel cogliere alcune variazioni di scenario difficilmente apprezzabili fuori U.K., Lo Scarafaggio riesce nel tentativo affatto facile (soprattutto oggigiorno che nulla può stupirci, quando una crisi universale di pandemia globale ha riscritto, dal giorno alla notte, gli equilibri pisco-sociali dell’intero pianeta) di cristallizzare, in poche pagine, la capacità del Tutto di mutare forma, e sostanza, con una velocità fino a ieri assolutamente impensabile. Nella speranza che, al termine di questa metamorfosi, del passato resti almeno il guscio e il futuro ci sia, ancora, compassionevole.

 

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