Su ilLibraio.it un ricco approfondimento sulla figura dell’amico immaginario, in cui vengono citati grandi classici come “Alice nel paese delle meraviglie”, “Le avventure di Winnie Puh” e “Il Circolo Pickwick”, ma anche libri contemporanei, non solo per bambini, e film come “Donnie Darko”, “Fight club” e “Toy story”. Perché un’amicizia, anche se immaginaria, non è la semplice fantasia di un bambino o l’offuscato ricordo di un adulto, ma è la memoria di una sensibilità umana (la nostra) che mai, per nulla al mondo, andrebbe tradita. Come solo un amico può insegnarci a fare

Infaticabili degustatori di merendine o inconsapevoli cospiratori di marachelle, è nel circostanziale momento del bisogno che gli amici veri – quelli immaginari – proverbialmente accorrono in aiuto della personalità fanciullesca, per la stessa rappresentando non soltanto i compagni ideali di scorribande tutte da esplorare (vedi quelle del piccolo Max ne Il Paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak, Adelphi – E ora, (…) attacchiamo la ridda selvaggia!” -, ma pur anche subliminali controparti nelle più stratificate riflessioni di ordine escatologico (“E tu perché indossi quello stupido costume da uomo?”, così il metafisico coniglio Frank al visionario Donnie Darko nel cult cinematografico di Richard Kelly).

Sì, perché nell’afferire a un processo fondamentale della psicologia infantile – quello relativo alla differenziazione identitaria del sé dal non-sé – è nello spazio temporale che va dall’uno agli otto anni che l’esperienza di fantasia gradatamente prepara il bambino al distacco col genitore, dapprima avvalendosi dei cosiddetti oggetti di conforto (si pensi alla celeberrima coperta di Linus nella serie a fumetti Peanuts di Charles M. Schulz, o alle “morbide creature di pezza” nel romanzo distopico The Giver di Lois Lowry, Giunti), poi sperimentando l’abbiccì dei rapporti umani attraverso l’interazione con gli amici immaginari (“Nessuno tratta Max come un bambino normale, ma tutti vorrebbero che fosse un bambino normale, invece di essere se stesso”, afferma l’invisibile Budo in riferimento al compagnuccio vittima di bullismo nello struggente Il mio amico immaginario di Matthew Dicks, Giunti), e quindi celebrandone il fatidico commiato a ridosso del naturale ingresso nella fase prepuberale (“Quanto tempo durerà, Woody? Credi davvero che Andy ti porterà all’università? O in viaggio di nozze? Andy sta crescendo, e purtroppo tu non puoi farci niente”, osserva l’antagonista Stinky Pete nel secondo episodio della saga animata di Toy Story).

D’altronde, una volta esaurita la specifica funzione di passaggio – sia essa di consolazione, di compagnia, di valutazione o di stimolo – sembra proprio questo l’inesorabile destino dei cosiddetti fenomeni transizionali: valicare il cassetto della memoria (o magari l’isola del Tempo perso, dove l’autrice Silvana Gandolfi raduna gli Amici Immaginari Orfani di Creatore – AIOC – in Il club degli amici immaginari, Salani) e di lì, per l’effetto, venire gradatamente sfumati, così da lasciar spazio a ben più adulte, e tangibili, dinamiche di relazione.

Ciò non toglie, tuttavia, che nel suo congenito peregrinare fra mondo reale e spazialità ideale, il ricordo del supporter onirico possa successivamente riemergere dal dominio della dimenticanza, riacquisendo consistenza narrativa attraverso il medesimo canale da cui, in origine, sembrerebbe essere scaturito: quello della creatività – in tal senso, “Lo sapete cos’è la fantasmagoria?” chiede ai lettori la stravagante Dory Fantasmagorica di Abby Hanlon, Terre Di Mezzo, nelle sue avventure accompagnata, fra gli altri, dal simpatico mostriciattolo Mary e dall’acerrima nemica, la signora Arraffagracchi, “È quando, come in un sogno, realtà e fantasia sono fuse insieme”.

il club degli amici immaginari

A riprova di ciò, basti citare la numerosità di scrittori che, sulla poetica dell’amico inventato, hanno tracciato indimenticabili storytelling classici per la felicità di grandi e piccini: Alan Alexander Milne, su tutti, che nel raccontare Le avventure di Winnie Puh (traduzione di Luigi Spagnol, Salani) prese diretta ispirazione dai pomeriggi di gioco del figlio Christopher Robin in compagnia dei suoi peluche preferiti – fra i quali l’orsacchiotto Edward, successivamente rinominato Winnipeg in onore dell’orso nero canadese che il bambino tanto amava visitare presso lo zoo di Londra -; come lui anche Lewis Carroll che, a seguito di una gita in barca con le tre sorelline Liddell (figlie di un amico di famiglia) si lasciò convincere dalla piccola Alice a tradurre su carta un racconto favolistico abitato da personaggi di sua stessa fantasia (e che divenne quindi canovaccio per il capolavoro nonsense Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio), e persino Oscar Wilde che, nella commedia dell’equivoco L’importanza di essere onesto, ricorre alla figura dell’amico immaginario Bunbury per permettere al protagonista Algernon Moncrieff di svicolare dagli impegni di etichetta: “Tu ti sei inventato un utilissimo fratello minore, in modo da poter venire in città tutte le volte che ti fa comodo. Io mi sono inventato un inestimabile amico infermo di nome Bunbury, onde poter andarmene in campagna ogniqualvolta ne ho voglia. Bunbury ha un valore inestimabile”.

Le avventure di Winnie Puh

Lo stesso dicasi riguardo alla narrativa contemporanea, sempre più adusa nell’utilizzare la figura dell’amico invisibile quale tramite metaforico per veicolare le più svariate tematiche letterarie: se nello splendido Ho nascosto la mia voce (Garzanti, traduzione di Bianca Maria Filippini) l’autrice iraniana Parinoush Saniee affida all’etereo colloquio fra il piccolo Shabab e i suoi silenziosi ascoltatori, Babi e Asi, il grido straziante dell’incomunicabilità famigliare e del fanatismo religioso: “Mio dio, perché non vuoi accettare la realtà? Un bambino che a quest’età non parla non può che essere ritardato”, e nel romantico Domeniche da Tiffany di James Patterson (con Gabrielle Charbonnet, Corbaccio, traduzione di Elisa Frontori) la perfetta incarnazione di Michael scaturisce dal passato della trentenne Jane per regalarle quella storia di amicizia – o forse d’amore – che tanto sa di rivincita generazionale: “Ovvio che stessi bene in quelle domeniche, perché avevo la compagnia di Michael (…) il migliore amico al mondo, forse l’unico amico che avessi all’età di otto anni. Il mio amico immaginario”.

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È probabilmente fra le righe de L’Ombra del Vento dello spagnolo Carlos Ruiz Zafón (Mondadori, traduzione di Lia Sezzi) una delle più suggestive variazioni sul tema, ovverosia l’interpretazione dell’esperienza di lettura quale affinità elettiva di natura amicale – “Sono cresciuto tra i libri, in compagnia di amici immaginari che popolavano pagine consunte, con un profumo tutto particolare”; “Ogni libro, ogni volume (…) possiede un’anima, l’anima di chi l’ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso” -.

Inopportuno dunque sostenere che l’amicizia immaginaria riguardi esclusivamente il pubblico infantile: semmai, una volta abbandonata la sfera psicologica del bambino (e senza approfondire le derive psichiatriche di quello che si potrebbe definire il nemico immaginario, si legga ad esempio il lisergico Fight Club di Chuck Palahniuk, Mondadori, traduzione di Tullio Dobner, o l’ansiogeno L’Uomo delle ombre di Phoebe Locke, Piemme, traduzione di Stefano Bortolussi), è possibile sostenere che il compagno invisibile diventi, invece, sfumatura caratteriale della personalità creativa adulta, facilitando nella stessa una ricerca artistica, e identitaria, rispetto a tutto ciò che è altro e diverso da noi – come inoltre ci conferma l’interesse underground per la corrente della tulpamanzia, sottocultura internet nata come forma narrativa online e ispirata ai tulpa buddhisti (le forme pensiero create a seguito di particolari meditazioni), ma come reinterpretati nelle rivisitazioni mediatiche fornite dalle sceneggiature televisive di X-Files e Twin Peaks: i praticanti sarebbero convinti di poter evocare a proprio piacimento amici immaginari e legami di fantasia, da coltivare nella vita di tutti i giorni al fine di migliorare le proprie abitudini affettive e interazioni sociali -.

D’altronde, come sostiene Charles Dickens ne Il Circolo Pickwick, “è destino di molti uomini, che vivono fra la gente e vanno innanzi con gli anni, di farsi molti veri amici e di perderli poi nel corso della vita. È destino di tutti gli autori o cronisti di crearsi degli amici immaginari, e di perderli nel corso dell’arte. Né qui si arresta la disgrazia loro; perché si richiede inoltre da loro che di quelli rendano un conto preciso”; proprio quel conto che, in chiusura di trattazione, il leader dei Nirvana sembra aver reso al suo amico immaginario Boddah quando, nell’ultima lettera scritta prima del gesto d’addio, così gli ha affidato le proprie motivazioni: “A Boddah (…) Sono troppo sensibile. Ho bisogno di stordirmi per ritrovare quell’entusiasmo che avevo da bambino. Io sono un bambino incostante, lunatico! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. Pace, amore, empatia. Kurt Cobain“.

Perché un’amicizia, anche se immaginaria, non è la semplice fantasia di un bambino o l’offuscato ricordo di un adulto, ma è invece la memoria di una sensibilità umana (la nostra) che mai, per nulla al mondo, andrebbe tradita. Come solo un amico può insegnarci a fare.

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