“Ho cominciato a immaginarmi scrittrice sin da bambina. Ma più mi proiettavo in un futuro letterario, più la figura della scrittrice si trasformava in un’icona terribile e magnifica. irraggiungibile”. Carolina Bandinelli, autrice del romanzo “La più brava” (dopo il saggio “Le postromantiche”) parla del suo rapporto con la scrittura e si sofferma su alcune delle letture (e delle autrici) che l’hanno spinta a “scrivere quello che mi veniva da scrivere, e non quello che mi immaginavo di dover scrivere”

Come quasi tutte le autrici e gli autori, anche io ho una storia sull’origine del mio rapporto con la scrittura, un mito di fondazione autoprodotto che dovrebbe testimoniare la matrice autentica del mio desiderio, per celebrarlo e giustificarlo. Avevo quattro o cinque anni, non sapevo scrivere ma sapevo che volevo farlo, dettavo alla mia mamma quelli che immaginavo sarebbero stati i miei futuri romanzi, storie d’ amore e di animali (soprattutto topi, qualche scoiattolo, l’occasionale cerbiatto in tributo a Bambi).

Altre volte prendevo uno dei gialli Mondadori dalla libreria di casa e leggevo dei brani ai pappagallini in gabbia, fingevo fosse opera mia, fatta e pubblicata. Il babbo mi diceva di smettere, perché quando gli uccellini covano non bisogna guardarli da vicino e fare troppo rumore, altrimenti si sdegnano e mangiano le loro uova. Io me ne fregavo, leggevo ad alta voce, trasformando la coppia di inseparabili in potenziali cannibali.

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Una volta alfabetizzata ho acquisito autonomia e iniziato a comporre poesie sulla morte in rima baciata, favole di principesse con le trecce, e ritratti di ragazze con i capelli biondi e gli occhi celesti che io non avevo e che avrei tanto voluto avere. Era facile, per genitori, parenti e maestre, dirmi “scrivi, Carolina scrivi”, e io scrivevo. E leggevo. Mi reggevo alle pagine dei libri come se potessero salvarmi dalla catastrofe, seduta in poltrona nel salotto dei nonni mi affidavo a Roald Dahl mentre i miei genitori si separavano e le altre bambine facevano la ruota meglio di me.

Ho cominciato a immaginarmi scrittrice. Ma più mi proiettavo in un futuro letterario, più la figura della scrittrice si trasformava in un’icona terribile e magnifica – irraggiungibile. Leggevo i classici: i russi, i francesi, qualche tedesco. Mi confrontavo con opere monumentali: il romanzo come struttura autosufficiente, mondo chiuso e completo, il narratore che sa tutto dei suoi personaggi. Come si fa a scrivere così? Mi domandavo mentre riempivo pagine di quaderni con pensieri sbrigliati. Cercavo risposte nei manuali di scrittura creativa e mi assalivano indicazioni sul “viaggio dell’eroe”, il “turning point”, il “climax”, il “ritorno dell’eroe”. Mi veniva una tristezza. Iniziavo racconti e li mollavo dopo poche pagine perché non riuscivo ad avere il controllo sul loro svolgimento: impossibile trovare una quadra, pensare a un “eroe” che “ritorna”. Non torna mai nessuno, pensavo.

Evidentemente non ero abbastanza brava.

Solo le più brave sono autorizzate a scrivere, solo le più brave possono essere ascoltate. E chi sono le più brave? Difficile dirlo. Al liceo studiavo quasi solo opere di uomini maschi morti, difficile identificarsi con loro per un’adolescente femmina, giovane e viva.

Un pomeriggio composi un aforisma che ricordo ancora a memoria: “vorrei essere Montale / vorrei essere Dalì / vorrei essere speciale / ma resterò così”. Probabilmente non saranno questi versi a garantirmi un posto tra i poeti laureati, ma hanno il merito di esprimere la convinzione che per scrivere sarei dovuta essere diversa, migliore, e questo non era fattibile. Il desiderio si era incastrato nello spazio chiuso di un ideale.

Ero in un mare di guai.

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Certo, ho fatto altro. Mi sono innamorata di individui poco raccomandabili, ho cercato la validazione attraverso lo sguardo maschile, ho usato il sesso per sentirmi amata, e creduto che l’amore fosse quella cosa che lui non ti chiama e te stai male. Poi mi sono trasferita a Londra, ho comprato un colbacco di finta pelliccia azzurra, ho lavorato in una pizzeria pagata due sterline all’ora e ho scoperto che la maionese in poche quantità è appetitosa ma se stipata in enormi bidoni di plastica nel sottosuolo di un ristorante con più topi che camerieri fa piuttosto schifo; poi ho preso un dottorato di ricerca in Media and Cultural Studies e ho iniziato a lavorare all’Università e a scrivere testi accademici in inglese. I romanzi e le poesie li ho lasciati da parte.

Qualche anno dopo, in una libreria di Broadway Market, a East London, ho trovato I Love Dick (Neri Pozza, traduzione di Maria Nadotti), di Chris Kraus. Copertina nera, titolo in caratteri cubitali fucsia e verdi fluo. La narratrice, una filmaker non famosa di quasi quarant’anni, si infatua di Dick, un noto intellettuale, e cerca di sedurlo con la complicità del marito. Dick non ricambia, anzi si sottrae, ma questo non impedisce a Kraus di scrivere lettere piene d’amore, nevrosi e cultural critique.

Il monologo amoroso ed erotico esce dalla sfera delle chiacchiere private, sfida un senso comune che lo relegherebbe a “dramma senza senso”, e si fa letteratura.

Per la prima volta mi sono sentita autorizzata a scrivere quello che mi veniva da scrivere, e non quello che mi immaginavo di dover scrivere per poter essere inclusa nel novero delle persone che si meritano di scrivere. Credo fosse perché I Love Dick è un libro che non calza il canone del romanzo e non riproduce l’idealtipo dell’autore di romanzi. Infatti disordina i generi letterari – è un epistolario, un saggio, un memoir, un diario e un romanzo d’amore (rosa?!) – e si compone del rapporto ambiguo che c’è tra la voce narrante e il corpo vivo dell’autrice che narra, tra la cosiddetta realtà dei fatti e il costrutto, sempre in parte fantastico, attraverso cui ci relazioniamo ad essa.

Seguendo questa traccia ho incontrato altre autrici che, come Kraus, mi pare generino una letteratura mossa, una letteratura che non si propone di rappresentare la realtà, o dis-spiegarla, ma piuttosto la vuole decostruire, interrogare, e – in una certa misura – ri-comporre. Penso, per esempio, a Gli Argonauti (il Saggiatore) di Maggie Nelson, la trilogia di Rachel Cusk (Resoconto, Transiti, Onori pubblicati da Einaudi Stile Libero e tradotti da Anna Nadotti), l’Autobiografia in Movimento (NN, traduzione di Gioia Guerzoni) di Deborah Levy e A quattro zampe (Feltrinelli, traduzione di Silvia Rota Sperti), il nuovo romanzo di Miranda July.

Sono opere molto diverse tra loro ma accomunate, mi sembra, dalla particolare posizione che chi scrive occupa in rapporto alla materia della scrittura: una posizione di immanenza, di chi parla da dentro le cose, immersa nelle percezioni. Dentro le cose ci sono le domande, c’è l’agitazione di quello che non si è ancora posato (che non può posarsi?), così la scrittura non è la pratica che connette gli anelli delle cause e degli effetti, ma anzi il gesto che li schiude, e raggiunge lo spazio che c’è tra il prima e il dopo, l’allora e il se, il quindi e il quando.

Il romanzo così concepito non descrive più un mondo compiuto, risolto, ma assume la forma mutevole della domanda continua.

Emma Sestieri, protagonista de La più brava (Nutrimenti), è del tutto immersa nelle cose, ci resta impigliata, vi si aggrappa, si appoggia a loro e le interroga. La domanda che la muove nello spazio di una giornata qualunque, che coincide con l’arco temporale del romanzo, è quella sulla sua identità: Emma si chiede cos’è che l’ha portata ad essere quello che è, cosa ha determinato la sua collocazione nella società, le sue scelte lavorative, affettive, gastronomiche e immobiliari.

Carolina Bandinelli La più brava Nutrimenti

Penso che sia un interrogativo in cui si riflette una cifra specifica delle generazioni che, a partire dagli anni ottanta, si sono relazionate alla propria vita come a un progetto personale, ossia il prodotto di scelte libere che dovrebbero riflettere la disposizione originaria di un “sé” che si suppone interamente conoscibile dal soggetto che lo abita.

Insomma, si parla di noi che siamo cresciute con il compito principale di “essere noi stesse”. Come se fosse facile capire chi siamo, orientarsi tra la miriade di alternative che ci vengono proposte (o imposte), nel tentativo già-fallito di fare la scelta migliore, più buona e giusta, più cool, come se stessimo gareggiando per vincere il premio per la vita meglio riuscita del mondo (o almeno della nostra cerchia di amiche).

Per Emma non è stato facile, e tuttora non lo è, specialmente adesso che ha trentasei anni e quando torna a Firenze il fruttivendolo di quartiere le chiede “…quando ne fai, te, di figlioli?!”, perché se non è socialmente accettabile commentare sul taglio di capelli di una donna, o sui vestiti che indossa, quasi tutti si sentono invece autorizzati a chiedere informazioni sui loro piani riproduttivi. Emma non sa decidere, non sa distinguere tra ciò che ha interiorizzato dell’ingiunzione sociale e il suo desiderio nudo.

È un compito impossibile, e da questa impossibilità nasce il discorso, il monologo interiore, il dialogo e la scrittura. Vorrei che leggere La più brava fosse come conoscere una persona parlando per ore durante tutta una notte mentre si mangia, si beve del vino e si fuma qualche sigaretta, passando da argomenti leggeri a confessioni disturbanti, per poi tornare a parlare di musica e costume quando il cielo si fa chiaro; e anche se non abbiamo trovato nessuna risposta, siamo felici di aver rubato il tempo agli orologi e generato uno spazio per essersi conosciute, e riconosciute.

L’AUTRICECarolina Bandinelli è Associate Professor in Media and Creative Industries all’Università di Warwick. Da più di dieci anni contribuisce al dibattito culturale, in Italia e all’estero, con interventi su lavoro creativo, desiderio e media digitali (la sua ricerca è apparsa su testate internazionali tra cui Bbc, New York Times, El País). Nel 2024 ha pubblicato Le postromantiche: sui nuovi modi di amare (Laterza), un saggio personale sulla cultura dell’amore e del sesso.

Le postromantiche. Sui nuovi modi di amare

E veniamo a La più brava, il romanzo d’esordio di Bandinelli in uscita da Nutrimenti, un libro in cui non manca l’ironia, e che porta in una dimensione generazionale che parla di expat e di desideri, di contagi e conforti, di femminismo e consapevolezze, del non sentirsi mai all’altezza, del non poter essere – nonostante tutto – le più brave.

Emma, la protagonista di La più brava, ha trentasei anni e vive a Londra da dodici, e una mattina si sorprende adulta: ha un gatto stabile, un compagno stabile, un lavoro stabile in un’università prestigiosa. Sta addirittura per comprare casa e smetterla con la sequela degli amati appartamenti in affitto. Si ritrova involontariamente ossessionata dagli sportelli della cucina, controlla le linee che le stanno comparendo sul viso, mentre si interroga sulla differenza che c’è tra lei e le sue alunne, tra la sua relazione duratura e monogama e il loro modo di destreggiarsi tra varie situationship sentimentali.

Quello che per anni ha chiamato “futuro” adesso è presente e irrevocabile. Cos’è che l’ha portata in quel preciso punto della vita? Da cos’è composta la sua identità?

Intorno a questo interrogativo, si raccolgono le esperienze che hanno segnato la sua storia: dalla famiglia ormai distante al rapporto con gli uomini e il sesso, dalla relazione con le amiche alla questione, irrisolvibile, della maternità. Emma sa di essere evoluta eppure rimangono molte domande su questa crescita, questi traguardi raggiunti. E mentre le ore scorrono, emergono dal passato dubbi, disfatte, e le tracce di cose accadute e cadute nel silenzio, cose che suo malgrado l’hanno cambiata per sempre…

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