“Mi sono chiesto: sono nostalgico, sto facendo un film nostalgico? È una parola che a me piace poco, nostalgia, anche se è un sentimento che in realtà amo: sono, come dire, sentimentalmente nostalgico nel privato perché mi piace galleggiare nei ricordi… ma non voglio dire che si stava meglio quando si stava peggio”. La scrittrice Ilaria Gaspari dialoga su ilLibraio.it con Luca Scivoletto, regista all’esordio con “I pionieri” (e autore del libro omonimo), film ambientato in Sicilia nel 1990, che ha per protagonista un ragazzino figlio di ferventi comunisti. Nell’ultimo periodo, forse non a caso, al cinema non mancano opere (vedi “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti e “Quando” di Walter Veltroni) in cui, da angolature differenti, si riflette sulla crisi della sinistra italiana, come su una promessa disattesa…

Enrico, Renato, Vittorio e Margherita sono I pionieri, e sono in fuga: dai genitori che non li capiscono più, da un mondo che intorno a loro sta cambiando; o forse sono loro a cambiare, perché si affacciano all’adolescenza, non sono più bambini e allora gli tocca inventarsi un’avventura.

Renato, il migliore e in effetti l’unico amico di Enrico, figlio come lui di genitori comunisti, e comunista a sua volta con un fervore che tenta di riempire il vuoto lasciato dal papà appena perso, vuole a tutti i costi ricreare il campo dei Pionieri, scout sovietici la cui organizzazione, nell’estate del 1990, si è sciolta da un pezzo. Ma non per i due ragazzini che scappano da Modica e si ritrovano nei boschi, dove incontrano Vittorio e Margherita, fuggiaschi a loro volta, e vivono un’avventura rocambolesca, nel film (in sala dal 13 aprile dopo un’anteprima molto ben accolta al Torino Film Festival) che Luca Scivoletto ha tratto dal suo romanzo in parte autobiografico, in parte sognato, pubblicato per Fandango un paio d’anni fa.

luca svivoletto i pionieri

Com’è stato raccontare questa storia con due registri e due linguaggi diversi?
“La storia dei Pionieri nasce come soggetto cinematografico, scritto insieme a Eleonora Cimpanelli e Pierpaolo Pirone. Il soggetto viene letto da Fandango, e la voce si sparge nella casa di produzione che è anche casa editrice. Nella casa editrice c’è stato chi ha pensato che avessi qualcosa di più da raccontare, perché l’esperienza dei pionieri faceva parte della mia biografia. Così, lo stesso spunto ha preso vita in due forme, quella cinematografica e quella letteraria. E le due vicende sono andate avanti in parallelo per un po’ di tempo, tanto che ho scritto il libro avendo in mente ciò che avevo scritto nel soggetto e nel trattamento del film. L’impostazione quindi era già da subito molto visiva, perché in effetti io ragiono sempre in termini di scene. Ma è successo qualcosa di bizzarro: il romanzo che è saltato fuori racconta tutto l’anno scolastico di Enrico e Renato, i mesi che precedono il momento in cui comincia la storia del film. Insomma, è un prequel. E se il soggetto era stato scritto a sei mani e rispondeva a delle esigenze sia di tipo artistico, sia di tipo produttivo, come succede con il soggetto di un film, nel romanzo sono stato completamente libero, e così rincorrendo la memoria, lo stile che avevo impostato all’inizio ha aperto porte che non avrei saputo ritrovare. Nel momento in cui ho girato il film, staccarmi dall’universo con cui ho convissuto mentre scrivevo il libro è stato difficile; ma il regista, in quanto realizzatore, può rendere concreta una storia. Per me era il coronamento di un desiderio: rendere reali Enrico, Renato, Victor e Margherita, i loro genitori, tutto il loro mondo. Naturalmente il cinema ti costringe a dei compromessi che contrastano con la libertà totale che hai nello scrivere un libro”.

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Quali sono i tuoi riferimenti principali, da regista? C’è qualche film in particolare che ti ha ispirato?
“Ho una formazione cinematografica abbastanza ibrida. Sono cresciuto con i film americani degli anni ’80, i film d’avventura e fantastici di quegli anni, dai Goonies a Explorers. Sono echi che riguardano più la poetica, chiaramente, che non la tecnica. Poi il mio modo di girare è molto legato anche a un’idea di ritmo e di tempo, proprio in senso musicale; per me il maestro in questo è François Truffaut. È come una specie di metronomo che ho in testa. Che non riguarda soltanto il discorso del tempo ma anche i movimenti interni all’immagine, oltre che, ovviamente, un’aspirazione a quel tipo di leggerezza e di ironia così difficile da raggiungere perché Truffaut è irraggiungibile. Aggiungerei Rohmer, e anche Godard, quello scanzonato di Pierrot le Fou. Mi piace un’idea di un cinema leggero, un po’ anarcoide, buffo, ma che abbia un fondo di serietà. E certo c’è Stand by me, che è un film archetipico: lì c’è un bosco, c’è una notte, c’è un passaggio dall’infanzia all’età adulta. È un film che ho visto centinaia di volte e senza che me ne rendessi conto si è riversato in qualche sequenza dei pionieri. Ma oltre al film, non dimentico il racconto lungo di Stephen King, Il corpo, da cui il film è tratto; è stato una guida anche mentre scrivevo il libro”.

In questo momento sono usciti diversi film (il tuo, Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, ma anche Quando di Walter Veltroni) in cui, da angolature differenti, si riflette sulla crisi della sinistra italiana, come su una promessa disattesa. È un caso?
“Da quando ho cominciato a ripensare alla mia infanzia ho sempre avuto uno sguardo ironico. Diventando adulto mi sono reso conto di quanto fosse peculiare questa esperienza di un’infanzia a contatto col PCI, in una famiglia comunista, e intanto maturavano in me i codici per esplorarne le potenzialità narrative. Ho cominciato a raccontarmi questa storia, mescolando realtà e immaginazione, guardandola soprattutto con umorismo, mettendo a fuoco il lato ironico della situazione. Tutto il resto è venuto dopo, grazie al confronto con gli altri sceneggiatori con cui ho lavorato proprio sull’idea della fuga. Io ho riflettuto molto, invece, sul tema dell’annus horribilis, ’89-’90, che si abbatte su questa famiglia comunista sconvolta da un lato da quello che stava succedendo nel mondo e nel partito, dall’altro da un bambino che vuole crescere.
Se c’è una coincidenza nell’uscita di film che riguardano una nostalgia della sinistra significa che c’è qualcosa dietro, probabilmente. Moretti, da una parte, ha sempre raccontato due cose: il cinema e la sinistra. Per cui non è certo strano che faccia un film in cui si parli anche di utopia e di sinistra. Veltroni, al contrario, ha fatto sempre politica, quindi è anche naturale che affacciandosi al cinema parli di quello che ha vissuto e conosciuto lui stesso. Quanto all’aspetto più razionale, meno emotivo, della questione, credo che in questo periodo stiano venendo i nodi al pettine, di tutta la vicenda della sinistra. Oltre a rievocare i miei ricordi, oltre a voler raccontare una storia di formazione, se l’ho inserita nel contesto del momento in cui ha iniziato a dissolversi la chimera del PCI, e la sinistra è entrata in crisi, chiaramente la scelta ha un suo significato politico. Negli ultimi anni abbiamo visto la sinistra via via più lontana dal mondo che ha sempre rappresentato. E oggi questo rapporto sembra proprio interrotto, è difficile ipotizzare delle soluzioni.
Nel finale del film, con la fine della guerra fredda, vince l’attrazione fatale per l’America. Le accuse che riceve il padre di Enrico nel libro, di pensare ormai solo a sé stesso, ai soldi, non al partito, è un genere di accusa che, in parte giustamente, è stata rivolta sempre più spesso ai dirigenti della sinistra negli ultimi trent’anni. Questo ritorno al privato è una cosa che per Enrico, da un punto di vista emotivo, ha un valore enorme perché significa un padre che si occupa finalmente di suo figlio; sul fronte politico significa però anche la fine di quella dedizione totale che poteva essere totalizzante, eccessiva, estremistica, ma faceva sì che la politica fosse presa veramente sul serio, da chi la faceva”.

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Come si è evoluto, girando il film, il tuo rapporto con i personaggi?
“Il film nasce dal punto di vista di Enrico – con cui mi identifico moltissimo – che ha un rapporto molto particolare con i genitori e si ribella alla famiglia. La famiglia Belfiore del film un po’ somiglia alla mia famiglia: anch’io ho una sorella più grande e abbiamo avuto dei genitori comunisti. In Mattia [Bonaventura, che interpreta Enrico, il protagonista], quando l’ho visto al casting ho notato subito – a parte l’aspetto fisico, che mi ricordava molto com’ero alla sua età – un atteggiamento che poi mi è stato confermato da suo padre: un ragazzino che mette continuamente in discussione la sua stessa eredità familiare, culturale. Un piccolo contestatore. È stato molto divertente lavorare con lui perché io conosco bene il momento della vita che stava attraversando e mi ricordava molto quello da cui ero passato io all’epoca in cui è ambientata la storia, e quindi tendevo a smorzare, a non non prenderlo troppo sul serio: un modo per prendere un po’ in giro me stesso. Sicuramente l’identificazione mia più forte è stata quella con Enrico, ma devo dire che anche Renato è una versione di me, un me ucronico. Se la storia fosse andata da un’altra parte – se l’Unione Sovietica non fosse crollata e il PCI non fosse scomparso, io probabilmente non avrei fatto l’Erasmus in Francia ma sarei andato a studiare in Unione Sovietica, vista la mia appartenenza familiare. E se nella mia vita non avessi fatto determinati incontri, simili a quelli che appunto fa Enrico, penso che il mio sguardo sarebbe rimasto rivolto al passato, come succede a Renato: in me coesistono entrambi”.

Com’è stato dirigere attori così giovani?
“Abbiamo preparato molto le scene, non solo per essere sicuri che venissero bene, ma perché, dopo averli scelti con la convinzione che fossero gli attori giusti per ogni singolo ruolo, avevo bisogno di far emergere la loro personalità e, nel caso, sfruttarla al meglio durante le riprese. Quindi ho cercato di lavorare con loro portandoli verso il personaggio, e tentando anche di portare anche un po’ il personaggio verso di loro, quando era possibile. Avere il romanzo è stato importante, perché integrava le mie indicazioni: Mattia e Francesco [Cilia, che interpreta Renato] avevano una sorta di libretto d’istruzioni che spiegava ogni aspetto dei loro personaggi, anche le ferite più segrete. Mi facevano infatti migliaia di domande sul libro, che erano in realtà domande sui personaggi. È stata un’esperienza intensa, a tratti faticosa, ma ho avuto la fortuna di trovare dei ragazzi che, un po’ per carattere, un po’ per inclinazione e determinazione, si sono molto calati dentro la storia. Tant’è che non è stato necessario spiegargli troppo il contesto storico le vicende della politica italiana. Sono entrati subito nel gioco, nel tono del film. Il mio sforzo principale è stato quello, di mantenere anche nel mio atteggiamento il tono del film: ho cercato di farli sentire dentro un mondo che fosse coerente con quello che loro stavano scoprendo. E questo ha aiutato molto soprattutto la riuscita dei meccanismi umoristici: quando nel film si ride non è perché gli attori siano stati, come dire, pilotati da me; i tempi comici emergevano dall’atmosfera che c’era, dal mondo che loro sentivano di abitare mentre giravamo, che era un mondo un po’ buffo, fiabesco. È stato un piccolo miracolo, diciamo”.

La reazione del pubblico al tuo film pare essere molto affettuosa. Te l’aspettavi?
“La sfida di questo film era quella di creare un film che avesse più livelli di lettura contemporaneamente. Che potesse parlare sia a chi oggi ha dodici, tredici anni, sia ai suoi genitori o addirittura ai suoi nonni. Finora le reazioni sono state molto affettuose da parte della generazione più anziana: rivedono la loro giovinezza, anni di passione politica, anni di un’altra Italia, con una grande tenerezza nei confronti di questi ragazzini che magari gli ricordano altri ragazzini, i loro figli all’epoca adolescenti. Da parte dei più giovani invece mi arrivano reazioni sorprendenti, me ne accorgo dalle chiacchiere dopo le proiezioni del film. Tanti, certo, si identificano con le difficoltà di crescere, di formarsi, che sperimentano Enrico e Renato, ma alla fine noto che gli spettatori più giovani si interrogano proprio sul discorso politico. Si domandano come funzionava quell’Italia lì e perché adesso non è più così. Non vorrei azzardare assurdità, però mi sembra quasi il segno di un desiderio; non di tornare al passato, ma di riprenderne alcuni aspetti che erano, all’epoca, legati alla pratica della politica: il confronto fisico, la creazione di comunità reali, che un tempo si chiamavano sezioni e magari adesso si chiamerebbero in altro modo. Magari sarò smentito dai fatti, ma ho la sensazione che si stia risvegliando l’ipotesi di una politica che sia partecipazione, non soltanto comunicazione”.

Il tuo film è deliziosamente ironico. Ma con una vena di nostalgia: rivedendolo, pensi di aver realizzato un film nostalgico? Che rapporto hai con la nostalgia?
“Mi sono interrogato molto su questo: sono nostalgico, sto facendo un film nostalgico? Molti articoli e recensioni hanno insistito in effetti proprio su questo tema. È una parola che a me piace poco, nostalgia, anche se è un sentimento che in realtà amo: sono, come dire, sentimentalmente nostalgico nel privato perché mi piace galleggiare nei ricordi. Però, se dovessi lanciare una proposta poetica o politica, non direi mai era meglio il passato. Semmai, bisogna essere lucidi, non aver paura della nostalgia, ma usare il passato per migliorare l’oggi. Non ho voluto raccontare la mia nostalgia per il Partito comunista o per gli anni ’90, o per quell’Italia che racconto nel film: non ho nostalgia di quel periodo, non penso fosse un periodo d’oro. Volevo, però, cercare di fare una fotografia di quel momento; con lo sguardo ironico che ho sul mio passato, incastonandola in un momento particolare della storia del più grande partito comunista d’Occidente nel momento in cui una fase storica importante sta finendo. Spero che possa essere minimamente utile a riflettere su quello che siamo stati, magari a spiegare qualche incongruenza o qualche malfunzionamento nell’Italia di oggi. La nostalgia concede l’emozione indispensabile a far vibrare dei ricordi che danno sostanza alle storie. Ma non voglio che diventi per me una debolezza programmatica, non voglio dire che si stava meglio quando si stava peggio”.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne.
Dal 2015 collaboratrice deilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura.

Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

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