Enrico Galiano, insegnante e scrittore, ha intervistato per ilLibraio.it la psicoterapeuta Stefania Andreoli, molto seguita sui social, e ora in libreria (e in classifica) con “Perfetti o felici. Diventare adulti in un’epoca di smarrimento”, libro dedicato ai cosiddetti “giovani adulti”, che “soffrono molto (pensiamo a come la cronaca ci consegna i racconti del dolore profondo degli universitari, per esempio), ma stanno male non in quanto malati, bensì in quanto limitati nel vivere e compiersi… È questo che vengono a chiedere in terapia: aiutami a essere me, a vivere in modo pertinente, perché io di fare finta, di accontentare gli altri, di non sapere perché faccio quel che faccio non ne posso più. Pena ammalarsi”

Personalmente, leggo i suoi libri perché mi servono. Cioè, li uso proprio, come una specie di dizionario, come quando vai in terra straniera e ti porti dietro quei vocabolarietti tascabili che ti servono per stabilire un primo contatto con gli autoctoni.

E chi sarebbero, in questa metafora, gli autoctoni? Gli e le adolescenti, chiaro.

Stavolta, però, la dottoressa Stefania Andreoli o, come ormai tutti la conosciamo, la Doc, ha scelto di scrivere un libro che parla sì di giovani, ma di giovani non più così giovani: sono quelli che lei chiama giovani adulti o che, forse, potremmo definire i Millennial, cioè quella generazione nata a cavallo fra gli Ottanta e i Novanta, quelli che non sono ancora nativi digitali ma nemmeno dei boomer che non sanno che pesci pigliare con la tecnologia.

L’ho letto e ho deciso di scriverle. Di farle un po’ di domande: perché, effettivamente, ha ragione lei, quando dice che di loro non parla quasi nessuno. E, quanto a credere nelle loro capacità e possibilità, forse sono ancora in meno.

E invece dovrebbero, dovremmo tutti, come ci dice il suo ultimo libro: Perfetti o felici. Diventare adulti in un’epoca di smarrimento, appena uscito in libreria con Rizzoli Bur.

Andreoli_PerfettiOFelici

Buongiorno Doc. Comincio proprio da qui: dov’è nato il soprannome “Doc”, con cui ormai ti conosciamo tutti?
“Parto subito spiazzata, che bello! La risposta è che non lo so, ma ora che ci penso (ho una memoria elefantiaca) se non lo rammento è perché molto probabilmente non nacque da un singolo episodio, ma da un uso da parte di più persone che cominciarono a rivolgermisi contemporaneamente come dottoressa su Instagram. Da allora, lo fanno anche un paio di pazienti”.

Tu ammetti spesso che uno dei suoi – chiamiamoli così – difetti è quello di partire sempre dall’inizio, quando ti viene fatta una domanda. “Ma non serve cominciare da Adamo ed Eva!”, ti dicono. E invece io vorrei cominciare da Adamo ed Eva: da cosa è nato questo tuo interesse per i giovani adulti?
“Mi sono nati dentro alla stanza delle parole, da cui sono letteralmente sbucati: non che prima i venticinquenni non andassero in terapia, naturalmente, ma da qualche anno a questa parte hanno cominciato a presentarsi come veri e propri nuovi soggetti antropologici. La loro generazione cominciava ad assumere i contorni del fenomeno, in sempre maggior numero mi chiedevano di essere accolti e presi in carico, e così… non ho potuto ignorarli. Quando, poi, nell’incontro, ho iniziato a conoscerli e ad accorgermi che fossero molto diversi da come venivano altrove rappresentati, non ho più nemmeno voluto – ignorarli”.

In molti tuoi lavori, quelli che tu chiami invece “adulti”, non vengono descritti quasi mai con toni molto lusinghieri: ci hai mai fatto caso?
“Lo so bene, non è un moto del mio inconscio, ma un’operazione di consapevolezza: quegli adulti, quei genitori, sono anch’io. Non possiamo negare di essere spesso insufficienti, o non potremo coltivare la spinta e la volontà ad essere adulti degni di questo nome – ovvero ‘cresciuti’, più grandi e più maturi di chi invece è ancora giovane. A mio avviso, questo significa avere le risorse per avere il miglior rapporto possibile con quello che c’è: la realtà, gli errori, la vita. L’opportunità di fare meglio la volta prossima”.

Se dovessimo pensare a un range di età, invece, chi sono quelli che tu chiama “giovani adulti”?
“Per comodità di riflessione dentro cui volevo far accomodare il mio discorso mi sono riferita ai venti/trentenni. Per i trenta/quarantenni ho coniato il termine ‘adulti giovani’, per distinguere opportunamente un ventiduenne da un trentottenne. Comunque, per intenderci: i figli almeno anagraficamente ‘grandi'”.

C’è un passaggio che mi ha molto colpito del tuo libro, quando parli dei giovani adulti: “Vi racconterò che sono molto malconci, ma non ancora strutturalmente danneggiati”. Accidenti, stanno davvero così male?
“Sì, soffrono molto (pensiamo a come la cronaca ci consegna i racconti del dolore profondo degli universitari, per esempio), ma stanno male non in quanto malati, bensì in quanto limitati nel vivere e compiersi. È questo che vengono a chiedere in terapia: aiutami a essere me, a vivere in modo pertinente, perché io di fare finta, di accontentare gli altri, di non sapere perché faccio quel che faccio non ne posso più. Pena ammalarsi”.

Il titolo che hai scelto impone una sorta di aut aut: o perfetti, o felici. Lo trovo un titolo davvero efficace: ti va di spiegare come mai hai scelto proprio questo?
“Non ne ho nessun merito: l’intuizione è stata del team della mia casa editrice, Rizzoli. Volevamo che in effetti il titolo scoprisse subito le carte: o una cosa, o l’altra. Poi, nel libro, provo a dimostrare perché siano due ambizioni inconciliabili”.

Tu hai portato nel tuo libro gli esempi di atlete che, all’apice del successo sportivo, hanno rivendicato il proprio diritto a fermarsi, e hai descritto questi fatti come emblematici di un sentimento, per la generazione dei Millennials. Qual è questo sentimento? Cosa stanno cercando di dire al mondo dei cosiddetti adulti?
“Il messaggio è sulla richiesta a fare sul serio. Osaka l’ha detto (restando incompresa), rivelando l’insensatezza delle multe indirizzate agli atleti che disertano le conferenze stampa. Biles l’ha detto sbugiardando la federazione Usa circa la vera natura (psicologica) del malessere che l’ha indotta al ritiro dalle Olimpiadi. La voce che si leva è: basta, con il fare finta che l’abito trasparente del re sia bellissimo. Il re è nudo. Allunghiamogli un vestito per davvero”.

I Millennials stanno pensando in modo nuovo anche la famiglia. Che famiglia sarà, secondo te, quella di quando saranno i Millennials di oggi a dirigere il gioco?
“Credo che possiamo ottimisticamente immaginare una famiglia nuova, che finalmente compirà in modo più riuscito i tentativi fatti fin qui di aprirci al dialogo e all’educazione affettiva – questo per coloro i quali sceglieranno di essere genitori, cosa che dovremo dare sempre meno per scontata. Con buona pace dei (mancati) nonni”.

Un’impressione che ho ricavato dalla lettura del tuo libro è quella di una narrazione differente rispetto ai giovani adulti, spesso descritti con parole non proprio positive. La definirei così: “la forza della fragilità”, ma anche “il coraggio della verità”. Ti ci ritrovi?
“Vittorino Andreoli una volta scrisse a proposito della fragilità che è l’unica condizione possibile: siamo strutturalmente fragili, fragile è la materia che ci compone. Negarlo o modificarla è patogeno e contro natura e i millennials lo hanno capito molto bene. Quanto alla verità… be’. Quella c’è nonostante noi: la verità si dice da sola. A noi sta la tempra di farcela amica o meno”.

Personalmente trovo sempre molto incoraggianti le tue riflessioni sui giovani, che siano gli adolescenti di Mio figlio è normale? o i giovani adulti di quest’ultimo lavoro. Ma tu che giovane sei stata? E perché ti senti sempre così vicina al loro mondo?
“Sono stata la tipica adolescente anni novanta con tutto il corredo di base: i piercing, la discoteca di nascosto, il motorino in due senza casco, i capelli rasati, i concerti, la scuola salva per il rotto della cuffia, la guerra in casa e gli amori non corrisposti: disperatamente felice. Poi è seguita alla mia adolescenza una giovinezza decisamente meno sana, fatta di dolori profondi e tentativi scalcagnati di risalire da un punto molto basso. Essermela cavata non smette di farmi appartenere alla mia storia, che mi fa amare così tanto i ragazzi con l’esperienza dell’adulta che può testimoniare: Andrà meglio, credimi”.

Non poteva scegliere un finale migliore, la Doc.

Non aggiungo altro. Solo questo: leggetelo, il suo libro. Come sempre, lo finirete con la sensazione di esservi fatti un po’ male, ma di quel male che fa bene e che ti fa dire: andrà meglio, credimi.

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti)  Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoi, Felici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazzi, La società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti.

Qui è possibile leggere tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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