Quindici storie definite “vere” dal loro autore, Mariusz Szczygieł, sono confluite nel volume “Quello che non c’è”. Un affresco di vite, di città e di epoche diverse, da cui emerge soprattutto il concetto di assenza come filo conduttore. Difficile, nei reportage-novelle dell’autore polacco, distinguere la realtà dalla finzione e individuare il senso dell’esistenza; quel che è certo è che a fine lettura, dal suo Est Europa sgangherato e seducente, non ci si vorrà allontanare più…

Quello che non c’è, in certe esistenze, sembra essere un percorso lineare. Una fermata da cui partire, un metrò su cui salire e leggere i versi di una poetessa sconosciuta.

Poi, quello che non c’è potrebbe essere un’urna come si deve, in cui raccogliere le proprie ceneri anziché sparpagliarle nel fiume, dopo che il popolo di Instagram ha messo oltre mille like a una propria foto, o dopo che la guerra è finita e si può raccontare davanti a una platea curiosa che al fronte, una volta, si era ricevuta una chiamata dalla moglie che chiedeva in quale cassetto fossero le forchette per il formaggio.

Quello che non c’è, di norma, è anche un numero abbastanza grande, o abbastanza piccolo, o abbastanza astruso, da elevare a potenza per spiegare l’assenza. Allora è lo stesso sintagma a diventare una potenza (così: “ non c’è”), come se fosse unentità matematica facile da descrivere (d’altronde, “ogni cosa deve avere una sua forma e un suo ritmo. Soprattutto l’assenza”).

Copertina del libro Quello che non c'è

Quello che non c’è, infine, è una quantità di tempo tale da permettere di cercare nomi e luoghi, strade e piazze, uomini e donne per assicurarsi che siano reali: leggendo, ci si dovrà accontentare di affidarsi alle quindici storie definite “vere” dal loro autore, Mariusz Szczygieł. Dopotutto, se si intitolano proprio Quello che non c’è (nottetempo, traduzione di Marzena Borejczuk) un motivo ci sarà.

E il motivo è che quello che non c’è, di solito, è una caccia al tesoro. Una visione che ci balena davanti agli occhi per un attimo, grazie a un’installazione d’arte contemporanea, a una cartolina recuperata da un rigattiere di Budapest, o a un ristoratore di Praga con cui parlare del suo popolo per capire quanto sia simpatico, triste e possibilmente uguale a tutti gli altri.

Allora quello che non c’è, e che sul serio manca, è forse una cornice in grado di dare un senso all’esistenza, ma dopotutto in questo brillante volume non se ne prova affatto il bisogno: si respira un po’ ai bordi di una città, un po’ dentro un’email dedicata alla fine del mondo e un po’ sopra un aeroplano – anche perché solo nel cambiamento, nel salto e nello scarto tra l’ironia e l’amarezza si può pensare di individuare finalmente quello che non c’è, e di riuscire magari a dipingerlo in un quadro intitolato La piantagione degli alberi.

O meglio, nel caso della prosa acuta e anticonvenzionale di Szczygieł, si può pensare di registrarlo, quasi fosse un reportage e non una novella – non a caso, l’autore scrive che “in questo libro non c’è nulla di inventato. Se lavorassi di fantasia, sarebbe molto più interessante”, prima di avventurarsi nel suo tentativo di ricostruzione della memoria umana.

Così, fra molte scene maschili e altre ricavate da fotografie di New York, a esserci davvero è l’affresco di un’umanità frammentata, contraddittoria e però animata, cioè dotata sempre di un’anima ingombrante e pronta a schivare le regole, a inventare riti, a lanciare provocazioni: si muove tra le assenze, e intorno a loro costruisce palazzi e utopie, dittature e bizzarre rappresentazioni di Gesù Cristo.

Certo, non è detto che quello che non c’è rimanga sempre innocuo. Anzi, il più delle volte la sua scomparsa è dolorosa, angosciante, come accade in uno dei Racconti su qualsiasi cosa di Věra Linhartová che viene citato in una storia di Szczygieł dal titolo L’esplosione di una bomba a tempo: quando la moglie di un mimo decide di rimettere ordine nel loro appartamento disfacendosi di varie cianfrusaglie, “gli oggetti rimossi ritornavano tuttavia attraverso il dolore per la loro perdita che la affliggeva, e poiché non si raccapezzava più tra le cose di cui si era sbarazzata e quelle rimaste, l’appartamento si riempì di tutti gli oggetti che vi erano stati, e la loro costante presenza era persino più opprimente che in precedenza”.

Sembra quindi un gioco macabro, quello apparecchiato da uno degli scrittori e giornalisti polacchi più tradotti al mondo, e invece la sua capacità di pescare dal reale gli elementi più illusori, più assurdi e più devastanti conduce all’apertura di un portale spazio-temporale grazie a cui osservare il mondo nudo e crudo, senza la sua consueta patina di affettazione (“lo sguardo e il sorriso del più giovane forse si potrebbero anche descrivere, ma non sarebbe possibile farlo senza una certa dose di kitsch, quindi sorvoliamo. D’altronde lui non vorrebbe nessuna descrizione”).

Dopodiché, quando si riemerge dal suo fascino allucinatorio, si intuisce che si è stati in compagnia di veri e propri archetipi aspaziali e atemporali, snocciolati con uno stile immediato e beffardo, ma non per questo meno capaci di suggerire spunti di sopravvivenza, come se fossero delle sentenze di Seneca (“la bellezza non viene data una volta per sempre. Chi vuole tenersela tutta per sé, pur avendola pagata di tasca propria, sarà punito”) trapiantate in un Est Europa sgangherato e seducente, dal quale a fine lettura non ci si vorrà allontanare più.

Fotografia header: GettyEditorial 14-06-2021

Libri consigliati