Solo il 18% degli uomini ammette di leggere il genere “romance”, aggettivo che in italiano è tradotto con “romanzo rosa”, che nell’immaginario collettivo suona già come una condanna senza appello: qualcosa di frivolo, banale e scontato, perché “parla d’amore”, quindi declassato a “roba da donne”… – Su ilLibraio.it la riflessione della scrittrice Federica Bosco

Esistono due tipi di libri al mondo: i libri belli e i libri brutti.

Quelli belli sono quelli che ti “fanno” qualcosa.

Ti emozionano, ti incantano, ti tengono sulle spine, ti indignano, ti commuovono, ti divertono, e ti lasciano un sapore buono in bocca.

Sono quelli che quando volti l’ultima pagina ti dispiace perché ti senti orfano e vorresti chiamare l’autore per chiedergli cosa fanno i personaggi (per citare Salinger).

I libri brutti sono quelli che non ti fanno assolutamente niente, che cominci a saltare le pagine e ti accorgi che non perdi nemmeno il filo, che sono banali, triti e ritriti, ampollosi, autoreferenziali, rubacchiati, e quando li finisci vorresti chiamare l’autore per chiedergli i soldi indietro.

Non c’è, a mio avviso, altra categoria di suddivisione.

Un libro è personale, è intimo, ed è fatto su misura per te: va a toccare le tue corde, le tue esperienze, e rievocare i tuoi ricordi, sogni, e rimpianti.

Per qualcuno un libro è una panacea, per un altro è inutile.

Come i farmaci.

A me per esempio l’Oki non fa assolutamente nulla, mentre altri gridano al miracolo!

Questo dovrebbe essere l’unico discrimine: entrare in libreria, prendere un libro in mano, leggere la quarta di copertina, e decidere se può essere un “match” o meno.

Qui la responsabilità del marketing, va detto, è enorme: una copertina sfavillante, un titolo “catchy”, come si dice adesso, una fascetta che inneggia ai milioni di copie vendute, unita allo strillo di un altro autore di grido e il gioco è fatto.

Se i libri avessero tutti la copertina grigia, staremmo più attenti ad altri dettagli.

Per questo è indispensabile leggere sempre la prima pagina.

È lì che il bravo scrittore ti cattura, ti invoglia a seguirlo, ti cala immediatamente nell’atmosfera, ti fa conoscere la sua lingua, ironica, cupa, giornalistica, drammatica.

Ed è lì che decidi se salire in macchina con lui e fidarti.

Con lui o con lei.

Già perché, come recita il vecchio luogo comune, “donna al volante pericolo costante”, e anche in un territorio che dovrebbe essere privo di pregiudizi, come quello del raccontare storie, è il genere, (e non solo quello letterario) a farla da padrone.

Solo il 18% degli uomini, infatti, ammette di leggere il genere “romance”, aggettivo che in italiano è tradotto con “romanzo rosa”, che nell’immaginario collettivo suona già come una condanna senza appello: qualcosa di frivolo, banale e scontato, perché “parla d’amore”, quindi declassato a “roba da donne”, non all’altezza probabilmente di comprendere concetti più complessi fra una lavatrice e l’altra.

Sì perché ci saremo anche tecnologicamente evoluti, ma siamo sempre lì ad arrancare per dimostrare che anche noi “valiamo”, per citare una celebre pubblicità.

Ogni storia parla d’amore, anche il più efferato dei thriller (c’è sempre qualcuno, che si innamora fra una sparatoria e l’altra) – ma se a scriverlo è un uomo è qualcosa di più serio a prescindere.

Non conto le volte in cui mi è stato chiesto da uomini che organizzavano festival ed eventi letterari (a cui mi avevano invitata per par condicio, senza leggere ovviamente niente di mio), “e quindi scrivi romanzi d’amore”, nel tragitto in macchina fra la stazione e il luogo dell’incontro, con espressione di sufficienza, mentre mi snocciolavano i nomi di scrittori maschi già stati ospiti, in modo che mi sentissi miracolata, mentre io guardo fuori dal finestrino e balbetto un inutile, “scrivo storie”.

Motivo per cui cerco di non farmi mai accompagnare in macchina.

La domanda successiva è sempre “e ci campi?”, come se vivessi facendo bolle di sapone, domanda che sono certissima non venga mai posta a Cognetti o Cazzullo.

Quando poi, dopo l’incontro, mi vedono chiacchierare con le lettrici che a volte mi abbracciano e piangono e mi ringraziano per le emozioni (gratitudine che io stessa fatico ad accettare data la mia indistruttibile sensazione di inadeguatezza), allora si ricredono e, ancora stupiti per l’atmosfera dell’incontro, mi fanno autografare il libro sottolineando che “sai non è il mio genere, ma adesso lo leggo”.

Non lo leggeranno mai, ma mi tratteranno con un filo di rispetto in più, perché hanno visto che qualcosa anch’io so fare, prima di tornare da Cognetti e Cazzullo.

Quel 18% invece a volte mi scrive, timidamente, dicendo cose del tipo: mia moglie ti legge e allora mi sono incuriosito, mi sono emozionato tanto, avevo il groppo in gola, mi hai fatto ridere, ho capito qualcosa in più del mondo femminile.

E questo mi apre il cuore, mi dà una speranza, che ci possa essere ancora un mondo fatto di tenerezza, rispetto e amore e che il messaggio può passare anche attraverso un libro.

E mi viene da pensare, guardando il telegiornale, che se gli uomini leggessero più romanzi rosa, il mondo sarebbe un posto migliore.

Ma questa è un’altra storia.

L’AUTRICE E IL LIBRO – Scrittrice e sceneggiatrice, Federica Bosco ha al suo attivo un’ampia produzione di romanzi e vari manuali di self-help.

Con Garzanti ha pubblicato anche Ci vediamo un giorno di questi (2017), Il nostro momento imperfetto (2018), Non perdiamoci di vista (2019) e Non dimenticarlo mai (2021). Ora torna in libreria con Volevamo prendere il cielo, una nuova storia, tra Verona e Parigi, un inno all’amore vero, puro, che fa bene al cuore.

Linda, la protagonista, ricorda come se fosse ieri il suo diario del liceo pieno di cuori e frasi romantiche. E ricorda benissimo l’unico nome che c’era scritto: Leonardo. Perché solo il primo amore ti fa provare quell’euforia unica e irripetibile. Solo con il primo amore il bozzolo del cuore si schiude e si comincia a volare sopra un mondo incantato, dove tutto sembra nuovo, più bello, e luminoso. Linda in quel mondo con Leonardo ci è stata. E non è mai stata più felice di così. Si sentiva come una principessa. Con lui non riesce a vedere la differenza della sua estrazione sociale. Lui con l’autista e lei con il padre che ha comprato a rate la macchina. Per lei è solo il suo Leonardo e nient’altro. Ma si sa, la vita non è una favola.

Sognare troppo a volte può non essere la scelta giusta. Cadere nella cruda realtà allora fa male, molto male. E a Linda non è restato che guardare oltre e non voltarsi mai indietro. Non è restato che far finta che quell’amore non l’avesse mai provato. Non fosse mai esistito nessun Leonardo. In fondo basta un attimo e ci si ritrova adulti e le pagine del diario di scuola sono ormai piene di polvere. Eppure ci sono addii la cui eco non finisce mai. Ci sono curve del destino che riportano al punto di partenza. Ma Linda non è più quella del liceo. E neanche Leonardo. O forse sì. Forse l’amore non invecchia, non scompare, non si spegne. Forse il primo amore non finisce mai.

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