Dall’infanzia di Elsa Morante nella Roma dei rioni agli abiti che Paola Masino indossava per andare a teatro; dagli incarichi editoriali di Natalia Ginzburg da Einaudi passando per l’ultimo romanzo di Laudomia Bonanni, fino all’eredità di Livia De Stefani, donna bellissima e sicura: nel volume “Amatissime” Giulia Caminito ripercorre le fila della loro esistenza, intrecciando il resoconto con numerosi elementi autobiografici – Su ilLibraio.it un ampio estratto

Elsa Morante, Paola Masino, Natalia Ginzburg, Laudomia Bonanni, Livia De Stefani. Cinque donne, cinque bambine, cinque amanti, cinque sguardi sul mondo.

Cinque autrici che sono passate alla storia e che ora la scrittrice romana classe 1988 Giulia Caminito, vincitrice del Premio Campiello 2021 con il romanzo L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), nonché finalista al Premio Strega, riporta in vita in un volume dal titolo Amatissime, pubblicato da Giulio Perrone Editore.

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Dall’infanzia di Elsa nella Roma dei rioni agli abiti che Paola indossava per andare a teatro con Massimo Bontempelli; dagli incarichi editoriali di Natalia da Einaudi passando per l’ultimo sconosciuto romanzo di Laudomia, fino all’eredità di Livia, donna bellissima e sicura, Giulia Caminito ripercorre le fila della loro esistenza intrecciando il resoconto con numerosi elementi autobiografici.

Proprio come lei, d’altronde, le cinque le autrici sono passate per la Città eterna – chi per viverci, chi per soffrire, chi per dimenticare, chi per fallire. E mentre Caminito si racconta dall’infanzia fino al mestiere della scrittura, il romanzo della sua vita si sovrappone e si alterna a quello delle sue scrittrici più amate, diventando un omaggio alla vita di cinque eccezionali donne del Novecento italiano.

Copertina del libro Amatissime di Giulia Caminito

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto dedicato alla figura di Natalia Ginzburg:

Quando ho iniziato uno stage in una nuova casa editrice non sapevo cosa fosse un editor e non sapevo se mai io sarei stata capace di esserlo. Mi ero da poco innamorata dei ché accentati al posto dei perché e mi ero sorpresa a scoprire che le citazioni al comincio di un libro si chiamano esergo – esergo, esergo come una parola magica – vivevo sempre nella casa di Testaccio ma avevo conquistato la stanza più grande e avevo comprato una libreria nuova, grossa e di legno scuro.

Ricordo che entrai in casa editrice, era dentro a un palazzo con le inferriate blu elettrico come non ne avevo mai viste, sbirciai tra i libri che avevano pubblicato e trovai una biografia di Mesmer e, visto il mio interesse del periodo per la Rivoluzione francese e l’ipnosi, mi sembrò l’ennesimo segno, un ammiccamento evidente.

In ufficio ero molto confusa, per mesi non feci amicizia coi colleghi per la brutta abitudine a tacere quando mi sentivo in difficoltà e la mia tecnica collaudata di scomparire, assumendo pose da statua e monumento. A guardarmi da fuori pare che l’impressione sia fredda, distante, mentre dentro io abito nella vergogna, nell’incapacità. La casa editrice brulicava di vita e di vissuti, amicizie, amori, lontananze, fallimenti, e io arrivavo come corpo estraneo, come intrusa. Non avevo le competenze adatte ed ero stata messa nell’ufficio della direttrice editoriale solo perché li avevo pregati di non farmi fare telefonate ai giornalisti. Non per antipatia verso la categoria, ma perché ho sempre avuto problemi con le telefonate e mia madre ha sempre chiamato per me il medico, il dentista, la scuola, persino le compagne di classe per i compiti quando ero bambina. Telefonare voleva dire disturbare e io non potevo permettermi d’essere di disturbo e a dieci anni facevo comprare a mio padre scarpe che trovavo orrende e mi stringevano sul tallone, solo perché non volevo creare danno alla commessa: ne aveva tirate fuori tante, era indecente non soddisfarla. Anzi ringraziavo e poi le indossavo per uscire dal negozio, erano bruttissime, mi facevano malissimo, dovevo punirmi per non essere stata in grado di parlare.

Forse questo spiega come mai gli unici momenti che amassi – lontana dal piano editoriale, dai litigi e dalle reprimende – erano quelli che passavo in biblioteca a fare ricerche sui recuperi letterari, e tornavo studentessa, alunna, appagata.

Conoscevo da poco la Biblioteca Nazionale di Roma, che da fuori sembrava una centrale elettrica in disuso e dentro un museo dell’aeronautica, ma in realtà conteneva volumi su volumi e permetteva di dedicarsi a lunghe ore di lettura. Quando ormai avevo imparato a usare la mia tessera, a lasciare la borsa e la giacca nell’armadietto e a consultare il catalogo per la richiesta di prestito o consultazione, facevo tutto con ritmo pacato e costante. Le mie migliori esperienze sui libri le ho fatte lì dentro, come quando cercai per ore e ore un articolo di Giovanni Papini su Pinocchio in emeroteca, o quando attesi la mattina intera per riuscire a consultare tutti i libri di Willa Cather per capire se avevo trovato o meno un racconto inedito da pubblicare, o quando, e quello fu il giorno perfetto, conobbi un anziano signore che condivideva con me la passione per i libri sconosciuti e mi raccontò del suo romanzo del cuore: Cabala bianca, dell’ormai ignoto Gian Dàuli, primo traduttore di Jack London e poi bizzarro scrittore di romanzi onirici troppo letterari – a dire della critica – e romanzi rosa troppo erotici e popolari – sempre a dire della critica che di lui proprio non ne voleva sapere.

Il romanzo di Dàuli mi piacque e alla fine lo pubblicammo inviando una nuova edizione al signore della biblioteca, che me lo aveva suggerito con fiducia tenendo tra le mani la prima edizione dalla copertina verdina e stinta, trovata nella sala del fondo di Enrico Falqui, per la precisione in basso, tra gli scaffali ad altezza caviglie.

Allora Falqui per me era solo un nome, come tanti altri, ma dopo aver compreso meglio la sua vita e il suo ruolo nella nostra letteratura, quei pellegrinaggi alla biblioteca del suo fondo erano diventati una cara abitudine, che mi riconciliava con tanti momenti di sconforto e perdita di rotta.

Arrivavo da anni combattivi e audaci all’università, dove non temevo mai d’aprire bocca e dibattevo a lezione sui disaccordi e sulle teorie, passavo le giornate metà a dormire e metà a studiare, con una vita sociale ridotta all’osso e le notti spesso scrivevo storie di vampiri e damine dell’Ottocento. L’ufficio mi aveva disciplinata e resa mansueta, stavo in silenzio contemplativo della mia ignoranza, mi chiudevo in bagno per riprendere il respiro e non mi lamentavo mai se ogni singolo autore che arrivava in casa editrice mi chiedeva di fargli un caffè, rispondevo: quanto zucchero?

Ero travolta da un nuovo ritmo che non era più quello dello studio da me dettato, da me imposto; ma quello del cartellino da timbrare, della pausa pranzo e della programmazione editoriale, quello delle consegne in ritardo, dei corrieri, delle uscite in libreria, dei comunicati stampa, delle fiere, delle presentazioni, dell’ufficio commerciale, della tipografia. Il terrore di fare errori mi rendeva piccola e vulnerabile, c’era spazio per me solo in quelle ricerche in biblioteca, dove avevo a che fare coi morti e non con i vivi, con l’eredità e non con le promesse.

Anni dopo mi ritrovai a un incontro pubblico, mi stavano domandando come ero arrivata a pubblicare il mio primo romanzo e che percorso di studi avessi fatto, come mai lavoravo da editor e in che modo. Io mi ero sentita, come spesso capita, a un interrogatorio in cui dover fornire le prove della mia innocenza: alzavo le mani per difendermi da me stessa, dalla mia idea d’essere prima di tutto un impostore. E più che a loro, davo prove a me, ripercorrendo gli anni del mio apprendistato per capire se quel mestiere fosse mio davvero o solo una continua prova, un moto perpetuo verso una meta inconquistabile, troppo ambita.

Una donna prese parola, innervosita da qualcosa che dovevo aver detto e che poteva essere pungente senza che io me ne fossi resa conto e, riferendosi al mio lavoro in casa editrice, commentò che ormai tutti facevano gli editor ma eravamo uno spauracchio, una pallida copia, un’ombra di chi lo era stato davvero: altro che Calvino e Ginzburg; fu la chiusura che mi lasciò immobile. Ero tornata di marmo e mi mimetizzavo con la sala, con i pavimenti e le colonne, facevo a meno di esserci.

Avrei potuto dire che dopo di loro era finita, che quell’editoria non esisteva più, che noi eravamo i rimasugli di un discorso, i meno intellettuali, i meno seri, i meno impegnati, i meno validi, i meno tutto e che non era facile resistere ai miti ed essere credibili al seguito delle leggende; invece mi ero alzata, avevo annunciato che l’incontro si era concluso ed ero uscita dal locale passando per il bar, fuori c’era il mare e tirava vento, tirava verso il basso.

***

Nel 1937 Natalia iniziò a collaborare con Einaudi per tradurre La strada di Swann e a lavorare intorno a Proust che fino a quel momento non aveva mai letto. Una scelta azzardata, quella di darle in traduzione un’opera così difficile di un autore che non conosceva, da lei stessa definita “folle”.

Quando Leone è ancora in vita, lei partecipa alle prime riunioni della casa editrice ma resta in silenzio, mentre lui, Giulio Einaudi e Cesare Pavese parlano e si confrontano; e questi uomini seduti a discutere di libri assomigliano molto al padre e ai fratelli quando lei era bambina e a quei silenzi nuvolosi durante i pasti e a quel sentirsi al margine delle idee, ancora affacciata con timidezza.

È solo dopo la morte del marito che Natalia Levi entra effettivamente in casa editrice e sente che questo avviene per “pietà” e riconoscenza verso Leone, lei trova logico continuare quello che lui aveva iniziato ma i motivi le risultano comunque pesanti, ingombranti, come tutte le grandi eredità.

I ruoli che ricoprirà in casa editrice saranno molti, da quello di traduttrice – attività che continuerà fino all’ultimo – alla redattrice, alla lettrice, alla consulente. Nel 1944 venne messa sotto contratto a Roma, dove il suo matrimonio e la guerra l’avevano portata, e nel 1945 tornò a Torino, la sua città. Giulio Einaudi arrivò negli anni a definirla il “cervello critico” della casa editrice, la sua dedizione al lavoro e la capacità di giudizio rispetto alle scelte editoriali la resero presto indispensabile.

Anche a quei tempi, come spesso accade oggi, le “cucine” delle case editrici – le redazioni e le segreterie – erano piene di donne di ogni età e di varie esperienze, mentre il potere decisionale e i vertici editoriali prevedevano la presenza degli uomini. Così anche le riunioni del mercoledì, diventate famose nella storia della letteratura italiana, erano organizzate in Einaudi per far incontrare i principali collaboratori, quasi tutti uomini, tranne Natalia. Che non a caso veniva sempre indicata col nome nei verbali delle riunioni, era l’unica, gli altri avevano con sé il cognome. C’erano Balbo, Einaudi, Pavese e poi c’era “Natalia”, la madre, la vedova, la donna.

Nella storia delle donne è spesso capitato che il primo modo per entrare in un ambiente arrivasse dalla triste circostanza della mancanza di un uomo, magari il consorte o magari un soldato. Così le vedove venivano chiamate a fare le veci in Senato negli Stati Uniti e così le donne entrarono nelle fabbriche durante le due guerre del Novecento e, come raccontava Masino, giravano per le strade ed erano uscite dalle case, perché erano rimaste sole e a loro toccò il lavorio cittadino e quello agricolo.

Anche in questo caso una delle poche donne di peso nell’editoria si affacciò in quel mondo con sulle spalle la voglia di esserci e di continuare il lavoro del marito, ma anche il peso non semplice da sostenere di quella “comprensione” che assomigliava forse troppo a volte alla misericordia. Così mi tornano in mente le lamentele di Morante e le fatiche di Masino per rendersi autonome e padrone del proprio talento, scostandosi dall’ombra – amata – dei compagni e mariti. E penso, anche, che in quella Roma tra le due guerre era approdata per breve tempo un’altra scrittrice che patisce ancora molto l’influenza e importanza dei suoi matrimoni: Marise Ferro. Marise era come Natalia una traduttrice, e si misurò oltre che con Proust con Hugo e Balzac, con donne e uomini della letteratura francese. Era un’amante dei giardini – bellissimo il suo La ragazza in giardino – ed esordì col primo romanzo dopo aver vinto un concorso di inediti indetto dall’editore Mondadori. I suoi compagni e mariti furono il Premio Strega Guido Piovene e lo studioso e giornalista Carlo Bo, a cui rimase legata nella seconda parte della sua vita. Difficile staccarla da questo secondo cognome e tornare a farla conoscere come scrittrice e traduttrice, tanto che i suoi libri in circolazione sono ancora pochissimi, nonostante il suo ruolo nel dopoguerra come attiva pubblicista e autrice.

La letteratura era ancora un mondo di uomini e le donne erano spesso considerate meno importanti, seppur brave, seppur apprezzate, era difficile fossero tenute in considerazione come un altro uomo, un altro scrittore e si può quindi immaginare la fatica di essere la vedova di Leone, di dover entrare al suo posto in casa editrice e doversi anche affermare come voce sola, come scrittrice. Anzi dovremmo dire anche in questo caso “scrittore”.

Ginzburg, come Morante come Ortese e come molte altre, non amava infatti il termine al femminile, in quanto semplice declinazione e attributo che veniva spesso collegato a una narrativa minore, a uno sguardo sul mondo sentimentale e materno, esclusivamente fatto per lettrici e per un pubblico poco letterato. Ora riesco a capirlo di più, dopo aver attraversato alcune storie di queste donne, come mai per loro fosse meglio sopprimere la propria desinenza femminile, e quindi parte della propria identità, piuttosto che sacrificare il valore della propria scrittura e indipendenza.

Maria Bellonci, parlando di Lucrezia Borgia nel romanzo omonimo, avrebbe detto che questo era proprio “un destino di donna”.

Ma questo “destino” Natalia lo stava piegando alla propria visione, al proprio talento, la casa editrice dopo una prima spinta verso la saggistica stava battendo nuovi campi e tra questi la traduzione era diventata centrale. Natalia prendeva spesso parola nelle riunioni, ora che si sentiva parte integrante del meccanismo, e contraddiceva anche i propri colleghi nelle loro decisioni, assumendo posizioni autonome e di singola riflessione. Sono gli anni delle numerosissime missive editoriali che partono da Torino per arrivare in tutta Italia, attraverso le lettere passano i rapporti interni alla casa editrice, le risposte positive o negative alle proposte di manoscritti, le relazioni con autori e autrici e anche gli affetti e le amicizie che si creano nell’ambiente editoriale. Natalia fece sapere che Cesare pretendeva troppo controllo sui suoi redattori, ritardando le corrispondenze perché aveva bisogno di leggere ogni singola lettera e approvarla.

Questo appunto di Ginzburg a Pavese mette in luce uno degli aspetti più significativi dell’organismo editoriale: la fiducia. I processi in casa editrice lavorano meglio se il lavoro viene delegato nei suoi vari passaggi, cioè se ogni figura si fida a pieno di quella successiva nella catena di realizzazione del libro, quando questo affidamento viene meno non è semplice procedere di buona lena. E ancora oggi sono moltissimi gli ambienti in cui i direttori di collana o gli editor sentono di non potersi fidare completamente del lavoro redazionale (o viceversa) e quindi tutto viene passato al microscopio e si muove con maggiore lentezza. Considerando che adesso molte delle redazioni interne alle case editrici sono state smantellate per esternalizzare i servizi, è ancora più ovvio comprendere quanto sia difficile controllare ogni dettaglio e stare al passo di una iperproduzione editoriale smistata a persone distanti e senza rapporti. Allora, invece, la vicinanza era tale che certe volte poteva apparire soffocante, tanto che Ginzburg si trovò a scrivere a Pavese che se anche lei non fosse stata una redattrice, ma una scopacessi comunque avrebbe avuto bisogno della sua autonomia per “trovare da sé gli stracci necessari e i secchi d’acqua calda, e pulirsi il proprio cesso in pace”.

Lo scambio senza mezze misure fa capire la franchezza con cui i due erano soliti parlarsi, e la morte di Pavese nell’agosto del 1950 segnò un nuovo cambiamento di passo nella vita della casa editrice e di Natalia. Lei ne scrisse asciuttamente alla comune amica – di lei e Cesare – Ludovica Nagel, che aveva lavorato in casa editrice con loro come segreteria di redazione (il nostro caro Pavese è morto l’altro ieri) e si raccomandò di non alimentare chiacchiere sul suicidio dell’amico (non fate troppi pettegolezzi) per proteggere da subito la memoria di un uomo che lei stessa definì “a pezzi”.

Nel decennio successivo il lavoro in casa editrice si consolidò e Natalia smise di essere la vedova Ginzburg per diventare il perno di tantissime attività fondamentali, come l’assegnazione delle traduzioni e la loro supervisione, che la portarono per esempio a scegliere la scrittrice Lalla Romano per tradurre Emily Dickinson.

Le sue lettere inviate in quegli anni a Italo Calvino e Luciano Foà (futuro fondatore di Adelphi, allora presente in Einaudi) raccontano come esprimeva i pareri sulle letture dei manoscritti: in maniera secca e diretta, raccontando qualche riga della trama e poi indicando se era pubblicabile o no e perché. Così capisco che aveva apprezzato molto Guerra in camicia nera di Giuseppe Berto, ma non le era piaciuto affatto un romanzo di Franco Fortini, la vediamo impegnata nelle letture francesi, nel rifiuto di romanzi dal possibile successo ma che la poca letterarietà avrebbe reso disprezzabili, e nella preoccupazione delle offerte degli altri editori. Se aveva dei dubbi esplicitava spesso la necessità che anche i suoi colleghi leggessero i manoscritti (Dì a Calvino di leggerselo).

Fin da subito Ginzburg notò che le scrittrici presenti in catalogo erano assai poche, e rimproverò i colleghi di aver creato alcune collane solo con “maschi piemontesi”. Anche per questo tra le sue scelte editoriali più importanti mi piace ricordare proprio tre donne.

La prima è una bambina ebrea il cui diario diventerà un testo fondamentale per l’educazione alla memoria e alla storia nelle scuole italiane, lei lo aveva letto in francese e aveva insistito moltissimo per farlo pubblicare, lavorando all’introduzione e alla revisione di traduzione e a quell’incipit che da generazioni leggiamo e rileggiamo: “Spero di poterti confidare tutto, come non ho ancora potuto fare a nessuno; anche spero che sarai perme un gran sostegno”. La firma è quella di Anna Frank.

Natalia ci teneva che venisse chiamata Anna e non Anne alla francese, e si raccomandò che in redazione controllassero tutte le edizioni precedenti per fare un lavoro di traduzione oculato e preciso. In un dopoguerra dove “tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici” è la voce di una bambina a catturare la sua attenzione, per la sua “vibrazione fiduciosa e serena”, una innocenza che provoca nel lettore e nella lettrice “una pietosa emozione”.

La seconda è un altro classico, l’unico libro rimasto nel canone di una scrittrice, infermiera e partigiana: L’Agnese va a morire di Renata Viganò. Donna dal profilo inconsueto, scrittrice fin dai tredici anni di poesie ma anche infermiera e poi partigiana durante la Resistenza. Col suo libro riuscì a vincere il Premio Viareggio e a farsi tradurre all’estero. La scoperta del manoscritto avvenne per caso, perché Ginzburg estrasse il testo da una pila di molti altri che aveva sulla scrivania, ma subito ne rimase convinta e scrisse all’autrice che l’avrebbe pubblicata, comunicandolo anche a Einaudi. Il contributo di Viganò bilanciò la narrativa del dopoguerra a favore della memoria delle donne, anche quelle non più giovani e in forze, e del loro ruolo nella Resistenza: contadine che scendevano nelle paludi e caricavano i fucili (Lei era sempre pronta, anche quando si sentiva stanca).

L’ultimo è un manoscritto che le viene annunciato da una lettera nell’inverno del ’48, è di Elsa Morante con cui non ha particolare confidenza, si sono incrociate poche e rare volte, ma Natalia è la persona che Elsa conosce di più in Einaudi e le invia il suo romanzo d’esordio. Quel romanzo è Menzogna e sortilegio.

Il manoscritto è ancora pieno di segni a penna rossa (a guardare i quaderni di lavorazione di Morante si notano sempre i suoi segni rossi, i suoi appunti, le macchie di caffè e i disegni dei suoi gatti a bordo pagina), ha titoli dei capitoli che a Natalia sembrano “d’altri tempi” e molte parole con la maiuscola, come “Butterato”. A Ginzburg parve forte e strana quella fiducia in lei (e nelle Poste italiane) tanto da spedirle il manoscritto e farglielo leggere per prima, provocandole immensa felicità. È un romanzo a cui Ginzburg si appassionò, anche se non avrebbe saputo allora prevederne il futuro, il valore nel tempo; la toccarono la fusione tra l’antichità dei titoli e di alcuni passaggi di stile e la contemporaneità, il racconto generoso di una famiglia, la grandezza delle immagini, la mancanza di avarizia. Natalia condivise con Cesare la possibilità della pubblicazione e lui forse, a detta di lei, neanche lo lesse ma si fidò e lo mise nel piano editoriale. Presto, quindi, Elsa (che io ho lasciato ragazza) si recò a Torino per la correzione delle bozze e alloggiò in un albergo vicino alla stazione, “un albergo non lontano da quello dove, qualche anno dopo, sarebbe morto Pavese”.

Per la tanta emozione e inquietudine che qualcosa potesse andare storto a Morante venne la febbre. Appena si riprese consolidò l’abitudine di uscire verso sera e aspettare a un caffè che il gruppo einaudiano la raggiungesse dopo l’ufficio – Ginzburg, Pavese, Balbo, Calvino – e passò il tempo a discutere animatamente con Pavese, quasi per ogni cosa (ma senza rabbia). Natalia era timida con Elsa, ne amava la “risata squillante”, i capelli tenuti indietro col foulard, le mani “piccole e bianche”, ma ne temeva anche il temperamento, il cambio d’umore, le arrabbiature improvvise.

Alla morte di Morante, Natalia si dispiacque di non averle mai fatto presente quanto fossero state belle e importanti per lei quelle stagioni torinesi e quanto i romanzi di Elsa e “la sua presenza sulla terra”, perché allora e anche dopo parlare con Elsa del tutto e fino in fondo non era possibile, metteva spavento anche a chi le era più vicino.

Mi colpisce questa occasione, questo incontro tra due personalità opposte, due modi di scrivere distanti ma che hanno segnato il Novecento così tanto, e che sono rimaste tra le pochissime donne che ancora oggi si ricordano nelle scuole, si fanno leggere alle nuove generazioni. Le altre si sono inabissate, coperte da strati di centinaia e centinaia di altri libri, volumi, ristampe, che le hanno sommerse, soffocate. Quella febbrile Roma, quel teatro di riviste, amicizie, scontri, discussioni critiche in nulla assomiglia alla mia Roma di oggi, come niente è rimasto all’Hotel torinese, che dalla mia città prende il nome, della traccia di Pavese e della sua ultima notte, in pochi lo sanno, ancora meno ne chiedono notizie.

Quando passavo le giornate in sala Falqui oscillavo tra l’entusiasmo della scoperta e il baratro del paragone, la grandezza di ciò che leggevo e la piccolezza dei miei vent’anni e di tutto quello che non sapevo e non avrei mai saputo. Ero curiosa ed elettrica, tenevo alcune scoperte solo per me stessa, trascrivevo brevi frasi sul mio quaderno e le decoravo con molti rivoli e riccioli di penna; mi sentivo importante ad avere quel ruolo da speleologa, da palombara, da chi si cala in basso e lo fa nel vuoto o nell’acqua, cercando di trovare qualcosa sul fondo. Sapevo di non essere la prima a occuparmi di certi libri, ma anche solo avere la missione reale di poterli ripubblicare mi dava la sensazione di un primato, di una corsa vinta. Fuori da lì ero una precaria qualsiasi in un mondo del lavoro che non capivo, una scribacchina di conto zero che ancora pensava di infilare qua e là citazioni di filosofia per darsi un tono, e una giovane donna tutta da costruire, tutta sbilenca. Una donna che a guardare gli occhi stretti, la fronte, lo sguardo dritto di Natalia Ginzburg avrebbe avuto – e forse ha ancora – solo la voglia di cercare la propria vasca vuota nel giardino sul retro, dove andare a sparire.

È forse questa la posizione di chi arriva dopo: la nostalgia per qualcosa che non ha vissuto? Sentirsi inadeguati ai tempi e ai luoghi come se gli altri, quelli lì, potessero spiarci e controllarci e giudicarci e capire che ogni cosa fatta, adesso, è storta, sbagliata, rancida e inammissibile. Eppure dalle lettere di Ginzburg scopro che i problemi in casa editrice non erano così diversi da quelli di oggi: le cose andavano male per lunghi periodi, l’umore era pessimo, si facevano tagli al personale, le traduzioni venivano pagate molto poco e le donne erano pubblicate meno, considerate meno.

Mi piacerebbe più di ogni cosa avere una di loro qui, soprattutto Natalia, per dirle: guarda, che te ne pare? Ti sembra una disfatta, ti sembra possibile? Farsi rincuorare o farsi sgridare – uno scappellotto, una lettera concisa – e poi riprendere fiato, ricominciare.

(continua in libreria…)

Libri consigliati