“Davvero vogliamo che la scuola serva soprattutto a scovare i talenti di bambini e bambine e poi di ragazzi e ragazze? Davvero siamo ancora all’idea che la scuola è solo un viatico del mondo del lavoro?”. Enrico Galiano, insegnante e scrittore, ha letto il libro del ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara. E non si è trovato d’accordo su molti punti. Per l’autore friulano, al contrario, “la scuola non dovrebbe tanto servire a scovare talenti e metterli in luce, quanto ad aiutare ragazzi e ragazze a scoprire chi sono, dove vogliono andare: le loro vocazioni, i loro sogni, le loro aspirazioni…” – La sua riflessione su ilLibraio.it

Ho letto il libro del ministro Valditara e non mi è piaciuto, ma voglio comunque provare a prendere spunto dalle sue pagine per parlare di qualcosa di costruttivo.

Dunque, ogni due per tre nel libro si parla di talento, di quanto è importante tirare fuori i talenti, di quanto la scuola debba essere votata principalmente a quello.

Il messaggio neanche troppo implicitamente portato avanti è che la scuola è votata soprattutto al mondo del lavoro: io ti aiuto a capire cosa sai fare bene, così poi tu nella vita lo farai.

"La scuola dei talenti", il libro del ministro Giuseppe Valditara

“La scuola dei talenti”, il libro del ministro Giuseppe Valditara edito da Piemme nelle scorse settimane

Ecco, secondo me qui dobbiamo un attimo riflettere.

Siamo sicuri?

Cioè, mi spiego: davvero vogliamo che la scuola serva soprattutto a scovare i talenti di bambini e bambine e poi di ragazzi e ragazze? Davvero siamo ancora all’idea che la scuola è solo un viatico del mondo del lavoro?

E soprattutto: se il suo scopo è questo, come si possono sentire quei ragazzi e quelle ragazze che non riescono a manifestare particolari talenti? Studenti e studentesse che hanno semplicemente bisogno di più tempo per sbocciare?

Non lo so: a me la faccenda puzza, e provo a spiegare perché.

Etimologicamente, il tàlanton era il piatto della bilancia, da cui deriva il concetto di peso e, per metafora, divenne una somma di denaro (i pesos sono ancora oggi moneta sonante in molti paesi). È passato nel nostro gergo comune grazie alla famosissima parabola evangelica dei talenti, dove un uomo parte per un viaggio e affida ai suoi tre servi parte delle sue ricchezze: a uno dà cinque talenti, a uno tre, all’ultimo uno. I primi due si danno da fare per far fruttare quanto ricevuto, l’ultimo invece lo va a nascondere; e così, al ritorno del padrone, i primi due gli restituiscono la somma raddoppiata, ricevendo grandi lodi, ma il terzo restituisce esattamente quanto aveva nascosto, ottenendo un severo rimprovero.

La morale è quindi: fai fruttare ciò che ti è dato in dote!

Insomma, un talento è una dote. Qualcosa che la natura ti ha messo a disposizione: c’è chi ce l’ha per la cucina, chi per le lingue, chi per la musica, chi per calciare un pallone. Però non è detto che poi io debba fare ciò che so fare bene, nella mia vita.

Il talento è un mezzo, mai un fine. Il fine è un’altra cosa e si chiama: vocazione.

Vocazione è proprio come dice la parola: una voce che ti chiama. Qualcosa che ti spinge in una direzione. Qualcosa che, se poi la segui, ti fa sentire un pesce dentro l’acqua.

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Dai, seriamente: quante persone conoscete che non avevano moltissimo talento nel loro campo, ma grazie a duro lavoro, sudore e lacrime sono riuscite a realizzare qualcosa di bello? E, viceversa, quante ne conoscete invece di altre che, talentuose in modo che saltava subito agli occhi, poi però non hanno mai combinato molto di buono in quel campo?

Uso volutamente un’iperbole, ma solo per far capire il principio alla base del mio pensiero.

Le donne, quasi tutte, hanno da madre natura in dono la possibilità di procreare, giusto? Però non tutte si sentono madri, non tutte lo vogliono fare. C’è chi, pur avendo quel “talento”, non ha la minima intenzione di farlo fruttare, e questo è sacrosanto.

Tradotto: non è detto che se hai un talento, quella debba essere la tua strada.

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Io, per dire, sono una spada nei calcoli a mente. Sul serio, riesco a farne anche di molto complessi in tempi relativamente brevi. Oppure posso dire, senza tema di apparire tracotante, di essere molto bravo a pettinare i capelli o a fare i massaggi. Tutte cose che non ho mai dovuto esercitare e che madre natura mi ha dato. Però non è quello che mi fa stare bene, che mi fa sentire “un pesce dentro l’acqua”.

La scuola allora non dovrebbe tanto servire a scovare talenti e metterli in luce, quanto ad aiutare ragazzi e ragazze a scoprire chi sono, dove vogliono andare: le loro vocazioni, i loro sogni, le loro aspirazioni. Non cosa i loro talenti li indirizzano a fare, ma cosa vogliono fare coi talenti che hanno. Quali di questi vorranno davvero sviluppare per realizzare i loro sogni o, addirittura, in certi casi, insegnare a sopperire con il lavoro e il sudore alla mancanza di grande talento.

Perché la domanda è sempre la stessa, per quel che mi riguarda: vogliamo che i ragazzi siano bravi, o che siano felici?

E voi, cosa ne pensate?

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti)  Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoiFelici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazziLa società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti. Il suo ultimo romanzo è Geografia di un dolore perfetto (Garzanti).

Qui è possibile leggere tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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