“La nostalgia e il desiderio, i due sentimenti che più indago nel libro, sono molto ambigui, e sono anche i nodi con cui mi sono confrontata mentre questi racconti venivano fuori, uno dopo l’altro”. Anna Voltaggio racconta a Ilaria Gaspari la sua opera prima, la raccolta “La nostalgia che avremo di noi”: “Credo di aver voluto illuminare delle vite colte nel momento in cui scelgono l’errore” – Il dialogo

Sulla copertina de La nostalgia che avremo di noi, il libro di esordio di Anna Voltaggio uscito per Neri Pozza, c’è una figura femminile che si rivela e intanto si nasconde: il busto scoperto di profilo, il viso di tre quarti dietro un piccolo vaso di fiori. Si intuiscono i capelli a caschetto, un occhio attento, una grazia elusiva. E una singolare somiglianza con l’autrice di questa raccolta di storie di fughe impossibili, di attimi sospesi e vaporosi: soffi di vite sghembe che si condensano in turbamenti intensi e indefinibili a contatto con l’eleganza misurata e lieve della prosa di Voltaggio. Che racconta e guarda i suoi personaggi con la stessa tenerezza che ha permesso loro di prendere vita in un mosaico di racconti indipendenti ma legati dal filo invisibile delle relazioni fra i personaggi.

Come nella vita reale, sono connessi da una rete continuamente modificabile di pochi gradi di separazione, e se sono protagonisti ciascuno della propria storia, si affacciano nelle vite degli altri come comprimari, fantasmi o desideri, mentre le loro solitudini sfiorandosi tessono una trama sorprendentemente densa.

anna voltaggio la nostalgia che avremo di noi

Anna Voltaggio lavora da diversi anni nell’editoria, soprattutto come ufficio stampa. Questa è la sua prima intervista da autrice; la comincio con la domanda per cui penso che ogni esordiente si prepari da un tempo molto molto più lungo di quello della semplice stesura del libro. Dal momento in cui inizia a immaginarlo, a ritenerlo una possibilità magari remota, e gli concede di occupare i suoi pensieri.

Come definiresti il tuo libro?
“I due sentimenti che più indago nel libro sono sentimenti molto ambigui, e sono anche i nodi con cui mi sono confrontata mentre questi racconti venivano fuori, uno dopo l’altro. Sono la nostalgia e il desiderio. L’etimologia stessa prova quest’ambiguità. Nostalgia è tristezza per il desiderio di tornare a un luogo impossibile, perché confinato nel passato. E nel desiderio – de-sidera, la mancanza delle stelle – c’è qualcosa di caldo, di appassionato, che però deriva da un senso di mancanza. Ecco, nei miei racconti giro intorno a questi due sentimenti, fin dal titolo; i personaggi hanno dentro di sé qualcosa di incompiuto, che continuamente cercano di appagare”.

Anche il titolo è tutt’altro che univoco…
“Sì, e desideravo molto che lo fosse: che parlasse di quella nostalgia che tutti conosciamo, per noi stessi, per qualcosa di noi che è andato perduto, ma anche di quella per un legame, per un noi davvero plurale. La nostalgia di qualcosa che si è solo intravisto, che non si è potuto vivere fino in fondo”.

Il libro in effetti è insieme molto caldo e molto freddo. I personaggi sono soli, eppure le loro sono storie di relazione: li vediamo ricomparire da un racconto all’altro, ed è come se i racconti di cui ognuno di loro è protagonista permettessero di esplorare un lato altrimenti destinato a rimanere segreto…
“Volevo proprio raccontare di quelle cose segrete che in noi convivono parallele – anche se su piani disallineati – con vite dalla forma più o meno esatta, finché non si crea un conflitto, se non proprio una contraddizione, fra questi due lati dell’esistenza. I miei personaggi hanno più o meno tutti la stessa età: penso che questo genere di disallineamento sia molto presente nella loro generazione, che poi è la mia. Quaranta-cinquantenni vissuti in un presente che sfuggiva, che si spostava sempre un poco in avanti: siamo arrivati ad essere adulti tardi, non abbiamo avuto un sentiero segnato, scandito da tappe sicure. Questo forse ci ha resi avventurieri, ma ci ha anche spinti a volere tutto. E ci ha convinti che ogni rinuncia fosse un fallimento”.

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E questo forse rende difficile scegliere – anche ai tuoi personaggi: li immagino percorrere strade sul punto di rivelarsi vicoli ciechi, come se procedessero a tentoni. Sbaglio?
“Credo di aver voluto illuminare delle vite colte nel momento in cui scelgono l’errore. Di compiere qualcosa fuori dal sentiero tracciato che non cambierà la loro destinazione, proprio perché sono intrappolate, come dici, in un vicolo cieco. Non mi interessava tanto mostrare la loro presa di coscienza: loro sanno, sanno dall’inizio che c’è qualcosa di storto, e che fa parte della loro vita. Lo sanno tutti tranne forse uno, nell’unico racconto che si discosta da questo solco, e per una ragione precisa…”.

L’ultimo?
“Sì! Cartesio. A differenza degli altri personaggi, lui non mette in discussione la propria vita. Gli succede un po’ l’opposto di quello che accade agli altri: è un imprevisto a sovvertire l’ordine che lui aveva dato alla sua esistenza. E infatti è forse il più maturo, anche per età. L’ho immaginato come uno sguardo di tenerezza a tutti quegli altri personaggi così sbagliati, smarriti, storti”.

E questa della tenerezza, leggendo l’ho sentita come una chiave che ci offri alla fine e che retrospettivamente dà il tono a tutto il libro, come quando si riguarda indietro a qualcosa che si è appena vissuto. A proposito: sono tutti racconti sul presente dell’esistenza, che è fatto di attimi: per questo, forse, appare fragile?
“Proprio vero: è un presente molto fragile. Un concetto che ho cercato di raccontare anche attraverso corpi che spesso soffrono di un disturbo, di un dolore. Non ho certo la pretesa di voler raccontare un’intera generazione, ma osservando i miei coetanei, e me stessa, ho sempre la sensazione che siamo cresciuti con una tale incertezza rispetto al domani che questa fragilità fa proprio parte di noi. La generazione dei nostri genitori aveva messo in discussione valori granitici, come l’idea di una famiglia da cui non si scappa: e anche se penso che sia stato un passaggio importante, necessario, noi che veniamo immediatamente dopo non abbiamo avuto il tempo di costruirci dei riferimenti nuovi, alternativi. Forse per questo siamo così smarriti”.

Anna Voltaggio

I tuoi personaggi mi sembrano anche costruirsi dei meccanismi di difesa, tenere le distanze da quello che li spaventa – sbaglio?
“Proprio perché sono vulnerabili: provano a tenere a bada la loro fragilità, per questo nei racconti una certa freddezza fa eco al desiderio costante di amare, di essere amati… ma soprattutto – come dire? – di essere visti. Di essere vivi”.

Tu li vedi?
“Sì, io li vedo”.

Come sono venuti alla luce?
“Eravamo nell’ultima fase della chiusura da Covid. Nella mia vita ho collezionato una serie impressionante di incipit; in quel periodo, in cui c’era anche il tempo per stare da soli, ho ragionato su quanto ci fosse di incompiuto nella mia vita. Probabilmente proprio questa riflessione mi ha fatto pensare che forse dovevo provare a iniziare una storia, come avevo fatto tante volte, ma senza cercare un respiro troppo lungo: una storia più breve, per cercare davvero di finirla. Perché non rimanesse solo l’inizio. Così è nato il primo racconto. Era un momento: un momento dentro una storia. L’ho iniziato e l’ho finito. L’ho fatto leggere a un’amica che mi ha detto: bene, ora scrivine un altro. Ne ho scritto un altro e mi sono accorta che stavo scrivendo la stessa cosa in un altro modo. E allora quella riflessione sull’incompiuto è diventata una riflessione sulla nostalgia, sul bisogno, sul desiderio. E i racconti sono arrivati: per me erano le tessere di un disegno, di un unico mosaico”.

Quindi la decisione di far riemergere i personaggi come fiumi carsici, da un racconto all’altro, non l’avevi presa a monte?
“No, è venuta da sé: tutti i rimandi all’interno del libro sono emersi spontaneamente. Cominciavo a scrivere una nuova storia e mi sembrava quasi ovvio che il personaggio principale potesse incontrare qualcuno che avevo già visto in un altro racconto: perché di queste persone immaginate, nella mia testa cominciavo a sapere tanto, anche se poi sulla pagina raccontavo poco. E così si sono ritrovati uno con l’altro, e alcuni mi sembravano legati proprio da una parentela, da un legame di sangue; altri invece mi parevano caduti nelle vite degli altri per via di relazioni, di incontri, fugaci o meno. Inciampano uno nell’altro per il bisogno di comunicare, di vedersi, di riconoscersi. Così a un certo punto ha preso forma l’intero libro.”.

Queste storie non si concludono, appunto perché i loro personaggi ritornano: è un principio formale che la forma del racconto ti ha permesso di esplorare, ma è forse anche un principio poetico? Mi è parso che non fosse una scelta puramente narrativa, ma legata alla tua visione di queste vite. Che alla fine, sommate, formano a modo loro un romanzo, possiamo dirlo?
“In effetti il mondo che mostro nel libro è molto compatto: se non possiamo definirlo un romanzo secondo i canoni tradizionali possiamo certo dire questo. Volevo raccontare delle cose molto precise – da cui il senso di compattezza; d’altro canto, i sentimenti che governano l’anima dei singoli racconti sono ambigui e per loro natura non vogliono risolversi. Per questo, forse, tutti insieme questi racconti prendono un senso un po’ diverso: slegati, probabilmente, sarebbero… un poco meno”.

Mi hanno colpita le ambientazioni: ci sono nel libro diverse città, e proprio perché vige nella tua scrittura questo principio di assoluta economia, sono tutte nitide nei dettagli, ma avvolte da una vaghezza misteriosa. Come le hai scelte, come le hai volute raccontare?
“Sono felice che tu me lo chieda perché per me erano molto importanti, le città, nel libro. Non sono – ovviamente – scelte casuali: ci sono città che tornano anche quando non vengono menzionate esplicitamente, Palermo e Roma, le due città della mia vita: quella di origine e quella di adozione. Poi c’è Trieste: la protagonista di un racconto deve andare a Trieste, la incontriamo che parte per questo viaggio. Trieste rappresenta un luogo lontano e quasi sconosciuto. Quel personaggio è forse uno fra i più smarriti, sta andando incontro alla morte del padre e va quindi verso un luogo di frontiera. Nella mia immaginazione non poteva che essere Trieste. Anche Venezia compare nel libro, perché è la città più anomala che esista al mondo. Una città sull’acqua, precaria come la vita del personaggio che a un certo punto si ritrova proprio lì”.

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Il caso di questo libro è molto interessante perché a sua volta anomalo nel panorama della narrativa italiana: un’autrice che esordisce con una raccolta di racconti. Non un caso unico (penso a begli esordi pubblicati per esempio da una casa editrice meritoriamente votata proprio al racconto, Racconti edizioni), ma certo raro. Hai avuto dei modelli, dei riferimenti? Mi viene in mente per esempio Yasmina Reza, che in Felici i felici (Adelphi, traduzione di Maurizia Balmelli), realizza a sua volta un mosaico di storie…
“Sono sempre stata una lettrice di racconti. Delle mie scrittrici e scrittori preferiti, spesso noti soprattutto come romanzieri, in molti casi porto nel cuore proprio i racconti. Un nome su tutti, che ho messo anche nell’esergo del libro, è Clarice Lispector. Yasmina Reza, certo, è un’altra grande autrice che amo molto – ma Lispector ha un senso della prosa assolutamente unico. Ha scritto dei romanzi splendidi, ma Legami familiari (Feltrinelli, traduzione di Adelina Aletti) è il libro suo che ho letto più volte: una serie di piccole epifanie impressionanti. La forma, così concisa, si basa tutta sul ritmo della parola. A questa chiarezza e concisione forse aspiro più che a qualsiasi altra cosa. E vale anche per Vila-Matas, e la sua raccolta di racconti (che peraltro cito all’interno del mio libro), Esploratori dell’abisso (Feltrinelli, traduzione di P. Cacucci). E naturalmente Katherine Mansfield, che ammiro profondamente. C’è poi un’autrice francese contemporanea, che si chiama Anna Gavalda: il suo libro Il lato umano (Frassinelli) – sono sette racconti – mi ha fatto piangere, proprio lacrime sulle pagine, una cosa che mi succede molto di rado. Non so… i racconti per me hanno una forma così diretta che quelli che mi colpiscono poi non riesco più a scordarli. A differenza del romanzo, che ti lascia dentro qualcosa – un senso – che però si diluisce. L’intensità di un racconto riuscito invece mi devasta, a volte. Permette di afferrare in un momento qualcosa, di sentirla davvero. E proprio questa è la difficoltà maggiore nella scrittura: le parole devono essere precise, non puoi permetterti di sprecare passaggi, perché hai poco spazio per raccontare”.

Tu conosci bene il mondo editoriale: da cosa nasce la riluttanza degli editori italiani a pubblicare raccolte di racconti che non siano magari antologie o opere di autori o autrici già molto noti, magari in traduzione?
“La storia editoriale di questo libro conferma proprio la tendenza a cui ti riferisci. La mia agente l’ha proposto a diversi editori, e molti mi hanno chiesto se non avessi voglia di scrivere invece un romanzo, o di sviluppare un romanzo a partire da uno dei racconti. C’è diffidenza, da parte delle case editrici, rispetto alle raccolte di racconti, perché si dice che il mercato non premi queste scelte, che i lettori preferiscano i romanzi. Faccio fatica a capirlo fino in fondo, perché credo che una cosa scritta bene, un bel libro, sia tale indipendentemente dalle etichette. Fra l’altro, come lettrice, ho particolare simpatia per i libri brevi. Credo che basterebbe aver voglia di proporre ai lettori un libro di racconti come si fa con i romanzi. Sono molto grata a Neri Pozza per avere guardato oltre la forma narrativa. Comunque ho la sensazione che ultimamente stia cambiando qualcosa: il libro di Marco Balzano, Café Royal (Einaudi), racconti meravigliosi tenuti insieme dal luogo intorno a cui orbitano. Uno dei libri che ho letto con più piacere negli ultimi mesi. Ora è da poco uscito sempre per Einaudi anche un libro di racconti di Veronica Raimo, che ho appena iniziato e mi sta piacendo molto”.

Hai curato i lanci di tanti libri. Cosa ti auguri, per questo libro tuo?
“È la domanda per me più difficile, perché vivo con una certa ansia questo cambio di ruolo: non sono abituata ad essere la figura esposta, la protagonista, diciamo. Sono sempre stata bene, lavorando dietro le quinte, però sentivo da qualche parte l’esigenza di tentare quest’impresa, e ora eccomi qui. Diciamo che conoscendo bene le dinamiche di questo mondo, le mie aspettative sono abbastanza pragmatiche. Ecco: mi piacerebbe che questo libro mi restituisse la possibilità di scriverne un altro”.

A proposito dell’esporsi: c’è qualcuno dei tuoi personaggi che hai timore a vedere esposto, e qualcun altro che magari non vedi l’ora di far conoscere a chi ti leggerà?
“Bella domanda… per questi personaggi provo simpatie e antipatie, come penso potrà succedere a chi apprezzerà questo libro. Ci sono dei personaggi che si avvicinano a me per un solo grado di separazione, altri più lontani. Ti posso dire dunque che i personaggi che mi fanno tremare un poco di più sono quelli a cui mi sento legata perché provo per loro simpatia, perché ne apprezzo l’ironia pur nell’amarezza. Sicuramente Vita, che ho citato prima nel suo viaggio a Trieste: è stato uno dei primi racconti che ho scritto, è un personaggio al quale mi sento molto legata per il dolore. C’è Arturo, che mi fa simpatia perché è quello che ha in sé qualcosa di incompiuto con cui non farà mai pace. E provo una grandissima tenerezza per Cartesio, come ti dicevo. È un personaggio al quale mi sono aggrappata, e insomma, mi piacerebbe quasi conoscerlo”.

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L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice de ilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust.  Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.

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